31 - Lug - 2020
XVIII Domenica T.O.(A)
(Is 55,1-3 Sal 144 Rm 8,35.37-39 Mt 14,13-21)
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
La fame, il limite, la paura, il bisogno, fanno parte dell’esperienza umana. Molto spesso passiamo la vita a negare tutto questo o a fuggirlo (da un bene all’altro, da una rassicurazione all’altra) ma la fragilità appartiene all’essere umani. Anche Gesù la sperimenta. Quando sente che Giovanni è stato ucciso, si ritira in un luogo deserto. Non è un buon momento per i profeti: chi dice la parola di Dio, muore. Gesù percepisce di essere anche lui fragile, limitato, esposto alla violenza e all’odio e si sottrae ad essi.
Gesù sembra sentire il proprio limite e la propria fragilità; li ascolta e li accoglie, ritirandosi in disparte, ma non se ne lascia dominare. Infatti quando la folla lo segue, ascoltando il richiamo non detto (che la prima lettura esplicita) di raccogliersi intorno a lui per farsi nutrire e dissetare e quindi vivere, Gesù la guarisce e la sfama. L’uomo Gesù, consapevole della propria fragilità, guarda la fragilità degli altri (le infermità, la fame…) e, invece di chiudersi nella ricerca egoistica del proprio interesse, si apre ai loro bisogni e se ne prende cura. Perché fa così? Cosa lo spinge?
Dice Matteo che Gesù ebbe compassione della folla. Il verbo usato è quello che la Scrittura utilizza per parlare della misericordia di Dio e indica la contrazione delle viscere materne, come se la misericordia fosse quel misto di tenerezza e bisogno di curare che prende le madri quando vedono i propri figli in difficoltà: uno stato d’animo che le donne non riescono ad ignorare perché le prende non solo interiormente, ma fisicamente e totalmente. Gesù sente dentro di sé, fin nelle viscere, la fragilità delle folle e così si dimentica della propria, o semplicemente la lascia in secondo piano chinandosi su quelli che può curare e sfamare.
Quando un neonato piange, il corpo materno produce più latte. I seni si gonfiano e si induriscono fino a fare male, al punto che la donna ha bisogno di allattare quanto il piccolo ha bisogno di essere allattato. Così il Signore (ma anche Dio nell’appello accorato della prima lettura) non può resistere a donare ciò che serve per far vivere, deve nutrire con la propria vita e sollevare le fatiche altrui: il grido (anche inespresso degli uomini) lo spinge scuotendolo fin nelle profondità del suo essere. Gesù sa che ascoltare questo grido lo condurrà alla morte (per il Battista era stato così), ma non può farne a meno: lui, come il Padre, ama e così quando gli amati hanno bisogno non può che chinarsi. Ne sente il bisogno viscerale, come la madre che non può non allattare perché il suo corpo risponde al pianto del bambino ancora prima di lei.
Chi ci separerà da questo amore? Quale fragilità o limite? Quale potere o creatura? Niente e nessuno, perché il Signore è misericordioso e pietoso, la sua tenerezza si spande sopra di noi, sente il nostro desiderio e lo sazia aprendo la mano, ascolta il nostro grido e si fa vicino. Così più sarà acuto il nostro bisogno e più evidente il nostro limite, più lui provvederà cibo e guarigione, fino ad insegnarci a portare la nostra fragilità senza fuggirla, per poter fare spazio, come Gesù, alla fragilità altrui e fare di noi (e delle nostre fragilità) il dono possibile qui ed ora che guarisce e sfama. E accadrà di nuovo come allora: mangeranno moltitudini di uomini, donne e bambini.