12 - Feb - 2021
VI Domenica T.O. (B)
(Lv 13,1-2.45-46 Sal 31 1Cor 10,31-11,1 Mc 1,40-45)
Domenica 14 Febbraio 2021
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Domenica scorsa abbiamo visto Gesù decidere di allontanarsi dal luogo dove in tanti avevano gustato la guarigione e la vita che usciva da lui. Aveva scelto di andare oltre, di lasciare un assoluto protagonismo alla parola del Padre che poteva salvare e liberare molto di più dei prodigi che lui poteva compiere. Ora però si trova davanti un lebbroso.
Aveva capito ciò che doveva fare, cominciava anche ad intuire il rischio che lo cercassero per i segni che compiva (quante volte nei Vangeli se ne lamenterà!), ma tutto questo si infrange davanti a questo uomo malato che lo supplica in ginocchio. La prima lettura, dal libro del Levitico, ci fa immaginare ciò che gli occhi di Gesù vedono: le vesti strappate, il volto coperto, le piaghe, la solitudine, l’impossibilità di stare con qualcuno, di partecipare alla preghiera. Ai suoi piedi un uomo sfigurato dalla sofferenza, diventato informe e invisibile, come se fosse morto eppure condannato a vivere, senza riposo.
E Gesù prova compassione. Il verbo che viene usato qui indica proprio la contrazione delle viscere (materne) che ci prende quando vediamo qualcuno del quale intuiamo il dolore, una compassione che ci fa sentire in qualche modo la sua fatica e ci fa muovere per alleviarla perché è come se quella fatica gravasse su di noi, proprio come accade alle madri (e ai padri) con i loro bambini, il dolore dei quali non possono tollerare. Neanche Signore può resistere a quel dolore e guarisce il lebbroso. Questa guarigione, però, si rivela subito un errore strategico in ordine a quello che Gesù aveva deciso di fare, perché non può entrare più in nessuna città e quindi la sua predicazione è ostacolata.
La guarigione di questo lebbroso diventa per Gesù un intralcio sulla via dell’annuncio, che invece doveva avere l’assoluto primato.
Nelle parole che Paolo scrive ai corinzi troviamo una dinamica simile: Paolo si raccomanda di non scandalizzare le persone con comportamenti che potevano essere presi per immorali o antisociali (ovviamente in base ai codici morali e sociali del tempo), perché questa “buona fama” dei credenti era fondamentale per poter annunciare. Non importava quale libertà i cristiani avessero raggiunto, ma non dovevano porre inciampi agli altri sulla via del Vangelo e quindi non dovevano far pensare loro che essere cristiani distruggesse ciò che loro ritenevano decoroso e buono. Si trattava in fondo di una compassione, cioè di un farsi vicini ai fratelli e alle sorelle ancora ignari della libertà del Vangelo, un atteggiamento opposto alla tentazione che a volte prende la chiesa quando si ritiene un clan di giusti che sanno sempre che cosa va fatto e guardano gli altri dall’alto verso il basso, senza alcuna reale comprensione per le fatiche e le bellezze della loro vita, senza la compassione che invece piega Gesù verso questo lebbroso.
Non ci è dato sapere se Gesù si sia pentito di questo gesto di pietà, ma se Marco ce lo racconta vuol dire che la prima comunità cristiana ha colto anche in questo episodio una buona notizia. D’altra parte lasciarsi toccare dal grido di chi soffre è ciò che Dio ha fatto fin dall’inizio dell’alleanza e così Dio viene reso presente proprio in questo coinvolgersi di Gesù con la sofferenza e il Vangelo, che per ora non può annunciare perché braccato dalle folle, si alza potente dalla dalla bocca del lebbroso e dalla vita che gli è stata restituita. E così, dopo aver deciso di dare spazio più che ai prodigi alla Parola, Gesù ne contempla la potenza: se anche lui non può parlare (anche quando non potrà più parlare), altri lo faranno per lui, altri la cui carne sanata in mille modi diversi mostrerà la compassione di lui, nella quale bellissimo si disegna il volto del Padre e si dipana il racconto dell’amore viscerale che lo abita.