XIX Domenica
Tempo Ordinario anno B
(1Re 19,4-8 Sal 33 Ef 4,30-5,2 Gv 6,41-51)
Domenica 8 Agosto 2021
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Come si può riconoscere che Gesù, la sua vita e la sua parola, sono un pane che fa vivere, addirittura che fa risorgere quando si cade nella morte? Sappiamo di chi è figlio – dicono i giudei – quindi come può dire che è disceso dal cielo, che è il dono che Dio dà (come aveva dato la manna) per farci vivere? Il Signore risponde con grande semplicità. Non comincia a difendere se stesso, a dimostrare, ad elencare i segni fatti, ma in modo del tutto essenziale dice che solo chi è attirato dal Padre può riconoscere in lui colui che è stato mandato per dare vita al mondo. Occorre infatti, per riconoscere in Gesù l’inviato di Dio, avere una qualche intimità con Dio stesso, magari nemmeno cosciente o pensata, ma semplicemente vissuta, come capita a chi è docile alla logica dell’amore – che viene sempre dallo Spirito – e si dedica a far vivere altri. Il Padre infatti non manda solo il Figlio, ma anche lo Spirito che ci abita e ci sussurra nel cuore ciò che Dio vuole e spera. Chi è capace di cogliere il suo mormorio nelle mille voci e rumori che si affollano intorno a noi e dentro di noi, allora può riconoscere in Gesù colui che è capace di farci vivere, ora e nella morte.
La prima lettura (primo libro dei Re) ci racconta di come Elia riesca a cogliere il mormorio dello Spirito nello sconforto. È stanco, non vuole più vivere: l’ennesima delusione vissuta proprio mentre cerca di servire Dio con tutto se stesso l’ha sfinito. In realtà non c’è nessuna garanzia che fare il bene porti ci porti il bene, non è detto che servire Dio ci conduca a risultati, tranquillità o anche solo benessere. Elia infatti percepisce che qualunque cosa faccia resta solo e sconfitto. Da adulti molte volte ci si sente così, come se il tanto impegno e il tanto bene che si è cercato di fare fossero del tutto inutili: ora basta, Signore. Ma Dio prepara cibo ed acqua ad Elia per due volte: sonno, pane e acqua per avere le forze di camminare ancora una volta e incontrare il Signore nella brezza di un vento leggero, mite eppure indomabile. Così per noi prepara il cibo della parola di Gesù, del suo vissuto, dei segni che celebriamo nei sacramenti, della comunione con i fratelli e le sorelle, del bene concreto fatto e ricevuto, un cibo che può farci rialzare anche quando dovessimo arrivare a pensare che non sia più possibile andare avanti o non ne valga più la pena.
Questo cibo, che ci fa vivere sempre, qualunque sia la fame o la morte che incontriamo, è il dono stesso che Gesù fa di sé: egli infatti (così leggiamo nei pochi versetti della lettera agli Efesini) ci ha amato e ha dato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. Gesù si dona – lungo tutta la sua vita e nella morte – per vedere noi vivere: la sua non è la morte degli eroi o dei folli votati ad una causa, è piuttosto la vita spesa fino alla fine per far vivere quelli che ama, noi. Accogliere questo dono ci nutre (per tornare al segno del pane) perché nel momento in cui accogliamo il suo dono cominciamo (come di dice ancora la lettera agli Efesini) anche noi ad amare come lui, vivendo concretamente nella carità, correggendo il modo di parlare e di agire con gli altri, usando con loro misericordia (il perdono che fa vivere) e benevolenza (il bene fatto perché l’altro viva). Se Elia non avesse mangiato il cibo o non avesse camminato verso il monte Oreb, il dono ricevuto sarebbe andato sprecato, così è per noi se non lasciamo che il cibo di Gesù – ciò che lui ha vissuto ed è – ci trasformi nelle parole e nelle opere introducendoci già ora nella vita, per poter sperare poi nella resurrezione. Se però ascoltiamo il mormorio del Padre e ci lasciamo attrarre alla bellezza della vita e dell’amore di Gesù, avremo occhi per riconoscere il valore del dono che lui è per noi e nel riconoscerlo finiremo per imitarlo, scoprendo che in questo sta tutta la vita possibile.