III Domenica di Quaresima
Anno C
(Es 3,1-8.13-15 Sal 102 1Cor 10,1-6.10-12 Lc 13,1-9)
Domenica 20 Marzo 2022
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Il tono minaccioso della prima parte del discorso di Gesù, sulla morte improvvisa dei Galilei uccisi da Pilato e degli uomini rimasti sotto la torre crollata, viene subito attenuato dalla parabola successiva che costringe a non pensare a Dio come quello che ci aspetta al varco per coglierci in fallo, ma al contrario come colui che si prende cura con pazienza anche della nostra incapacità di portare frutti. Lui non perde le speranze, rinnova le occasioni, moltiplica le attenzioni. Non è facile per nessun agricoltore eradicare un albero che ha visto crescere e per il quale ha impiegato risorse e lavoro: tanto più per Dio ogni vita è preziosa.
Questo ci permette di rileggere anche il primo insegnamento di Gesù non come una minaccia, ma come un ammonimento, come un’esortazione a cogliere ogni occasione per dare frutto, perché non sappiamo quanto tempo abbiamo né quante occasioni abbiamo. Come un albero buono, dobbiamo succhiare ogni nutrimento dalla terra e stendere i rami verso il cielo per offrire i frutti che ci sono propri, ogni giorno, ogni momento, perché non sappiamo in nessun modo quanto durerà e non è nemmeno questo quello che conta, l’importante è convertirsi, volgersi al bene perché i nostri frutti nutrano quanti più possibile.
La seconda lettura (prima lettera ai Corinzi) ci ricorda poi che non basta aver ascoltato la parola, essersi dissetati e nutriti dei sacramenti e della familiarità con Dio, perché senza stare attenti a se stessi, senza custodire l’autenticità del cuore in ascolto della Parola e della realtà, si possono mandare distrutti tutti i doni e perdersi. Occorre fare attenzione a sé, ascoltare con autenticità, lasciare che i sacramenti ci trasformino realmente la vita e le azioni, nel desiderio continuo di impiegare ogni giorno e ogni momento per offrire frutti buoni. D’altra parte solo un albero curato fruttifica, similmente solo una persona che custodisce se stessa sulla via di Dio può compiere di conversione. E Dio stesso lavora al nostro albero perché abbia ogni cura possibile.
Infatti la conversione e il portare frutto, per quanto richiedano la nostra decisione e l’impegno della nostra libertà, non accadono per uno sforzo volontaristico che ci imponiamo, ma per la vicinanza di Dio che ci dona tutto ciò che serve (anzitutto lui stesso). La prima lettura ci fa vedere questa dinamica seguendo il racconto della chiamata di Mosè al roveto ardente. Mosè viene chiamato in un luogo sacro, incuriosito da ciò che sembra un prodigio, ma solo per ascoltare (così come Dio aveva ascoltato) il grido del popolo che Dio gli racconta. Già questo ci dice che non esiste esperienza “sacra” che non sia un concreto frutto di carità per altri, l’ascolto del loro grido, l’impegno per alleggerire le loro fatiche. A questo Dio aggiunge il nome con il quale vuole essere conosciuto e che invece di “Io sono colui che sono” andrebbe tradotto “Io sono colui che ci sarà”. Dio, cioè, si fa conoscere come colui che si impegna nella vicinanza, nell’amicizia, nella cura. Convertirsi e portare frutto dipendono dall’accorgerci di questa vicinanza, dal lasciarsi consolare da questa amicizia, per vivere prendendosi cura di quelli di cui il Dio che sta con noi ci fa sentire il grido.
La vita è la nostra occasione. Ogni momento lo è. Per ascoltare il grido dei fratelli e delle sorelle, per ascoltare ciò che Dio dice e godere la sua amicizia. Convertiamoci allora, viviamo così, perché – ringraziando Dio! – il regno di Dio è vicino.