VI Domenica Tempo Ordinario
Anno C
(Ger 17,5-8 Sal 1 1Cor 15,12.16-20 Lc 6,17.20-26)
Domenica 13 Febbraio 2022
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Tutti cerchiamo la vita e perciò, visto quanto siamo fragili ed esposti, cerchiamo qualcosa di solido su cui fondarla, qualcosa che ci garantisca nutrimento e serenità. Questa tensione è sana (chi cerca la morte e di farsi del male è malato o distorto), ma non sempre ci porta a riporre la nostra fiducia in ciò che davvero può garantire la vita.
Può capitare infatti che ci accontentiamo di un nutrimento superficiale, che rassicuri il nostro io anche in ciò che non andrebbe incoraggiato, oppure che aspettiamo la salvezza da chi non è in grado di darcela (persone o cose per esempio, fragili come noi). Può capitare anche che pur di sentirci bene, senza conflitti, vitali, ci accontentiamo di beni provvisori incapaci di arrivare alle profondità delle nostre domande e del nostro bisogno di vivere. Può capitare cioè, per dirlo in sintesi, che pur di sentirci vivi, ci affidiamo totalmente a ciò che muore o fa morire.
Credo che tale dinamica possa essere colta nelle letture di questa domenica. Nel brano del profeta Geremia, che riprende molto da vicino il primo salmo proposto come salmo responsoriale, abbiamo da una parte la sorte di chi confida nell’uomo e finisce per trovarsi in terre aride e salmastre, in cui nessuno può vivere, e dall’altra la sorte di confida nel Signore ed è fecondo anche nella siccità. Se il malvagio si ferma in compagnia degli stolti, la persona beata è quella si allontana da ciò che è male per radicarsi in Dio, continuando così ad attingere vita anche quando le condizioni si fanno avverse. Il problema non è la siccità (che può venire e anzi verrà certamente), il problema è dove affondano le nostre radici, su cosa veramente fondiamo noi stessi.
Nel Vangelo Gesù ci aiuta a verificare dove ci siamo radicati. Riusciamo ad attingere la vita quando siamo poveri, affamati, tristi e ingiustamente perseguitati? Riusciamo a portare frutti anche in queste condizioni? Se questo accade vuol dire che non ci siamo fatti ingannare. Vuol dire che sappiamo che la ricchezza non è indispensabile e che può essere persino una minaccia perché ci insinua l’idea che non abbiamo più bisogno nemmeno di Dio. Vuol dire anche che sentirci soddisfatti (sazi) e contenti non sarà più importante di ogni cosa e così saremo in grado di condividere, rinunciando a ciò che abbiamo, e saremo in grado di sopportare la tristezza, se dovesse capitare, senza per questo smettere di rallegrare altri. Se riusciamo, infine, a portare frutto anche nelle persecuzioni, vuol dire che la giustizia ci interessa di più del nostro benessere. Tutto questo significa che siamo liberi di cercare la vita sempre e comunque, senza che niente possa ingannarci, convincendoci che se avremo la ricchezza (o la salute? O il buon nome? O qualsiasi altra cosa) certamente non avremo bisogno di altro.
E se abbiamo questa libertà, la vita che viene da Dio, nel quale affondiamo le radici con qualsiasi tempo e in qualsiasi condizione, non verrà meno, nemmeno di fronte alla morte (la resurrezione di cui ci parla Paolo nella prima lettera ai Corinzi riguarda proprio la sconfitta di questo ultimo nemico). Confidare in Dio non vuol dire mortificarsi rinunciando a ciò che la vita può dare se ci diamo da fare o troviamo gli agganci giusti, ma – al contrario – confidare in Dio significa lasciare che lui ci faccia vivere sempre e portare frutto anche nelle condizioni peggiori. Beati davvero quelli e quelle che vivono così, perché nessuna fame, nessun dolore, nessuna privazione e nessuna persecuzione potrà minacciarli davvero. Beati.