V Domenica di Pasqua (B)
(At 9,26-31 Sal 21 1Gv 3,18-24 Gv 15,1-8)
Domenica 2 Maggio 2021
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Le vicissitudini della vita non sono sempre felici o non lo sono a lungo. La prima lettura tratta dal libro degli Atti ci narra che Saulo abbandona la sua posizione nel popolo di Israele per diventare discepolo del Signore, eppure gli altri non si fidano: il suo passato non viene ricordato per lodare l’opera di Dio, ma per gettare un sospetto su di lui. Anche dopo che Barnaba lo ha preso con sé, dandoci un esempio concreto di cosa significhi amare non a parole ma con i fatti e nella verità (secondo quanto leggiamo nella seconda lettura), e Paolo pieno di entusiasmo si mette a discutere con “quelli di lingua greca”, questi tentano addirittura di ucciderlo. Di nuovo l’amore dei discepoli, che osservano il comandamento dato dal Signore (come ci ricorda la seconda lettura tratta dalla prima lettera di Giovanni) di amarsi gli uni gli altri, lo salva, portandolo altrove. Così Paolo fin dall’inizio sperimenta le fatiche legate all’essere discepolo, i sospetti, le opposizioni, i pericoli e allo stesso tempo (da parte della stessa chiesa che sospetta di lui) riceve cura e amore fraterno. In questo amore riconosce l’amore di Dio per lui e riacquista rinnovato vigore che lo spinge ad amare a sua volta. Questo dinamismo ci è mostrato nella prima lettera di Giovanni, nella quale l’amore ricevuto e l’amore offerto si intrecciano continuamente in un unico movimento dello Spirito, che rimane in noi come un amore che ci avvolge (come l’abbraccio che i piccoli sanno cercare o che offriamo perché qualcuno non si senta solo: un abbraccio che abita le profondità dell’interiorità) e che ci permette di amare così come sappiamo di essere amati. Rimanere in questo amore permette di amare e quindi di vivere, anche se il nostro cuore ci rimproverasse cose terribili: infatti Dio è più grande del nostro cuore.
E proprio per questo Gesù ben sette volte in questi versetti del Vangelo di Giovanni ripete il verbo rimanere: non solo noi dobbiamo rimanere in lui, ma lui vuole rimanere in noi e questo accade proprio per opera dello Spirito. Lo stesso Spirito (lo stesso Amore) che ha spinto, ispirato e commosso lui, viene riversato in noi perché Cristo stesso possa rimanere dentro di noi e amare in noi e con noi, dandoci vita. L’unica accortezza che dobbiamo avere è di rimanere anche noi: la vite porta frutti solo nei tralci – il Signore ama e porta vita tramite noi – e noi possiamo essere colmi di vita e amore solo rimanendo attaccati a lui, perché i tralci offrono i grappoli solo finché sono un corpo solo con la vite.
Che succede ai tralci se soffia il vento forte, se grandina, se imperversa la siccità? Cosa succede se le vicissitudini della vita, come spesso accade, minacciano i frutti che con tanta cura ci eravamo preparati a dare? Ai tralci compete solo rimanere ed essere nutriti: alla vite, al Signore cioè, al suo Spirito riversato in noi e al Padre che tutto fa crescere, realizzare il miracolo della vita, sempre e comunque. Così alla fine della prima lettura, dopo tanti guai, leggiamo di una chiesa in pace, che si consolida, cammina in Dio e cresce di numero: potature e tagli non mancheranno, ma nemmeno i frutti. Vale per la chiesa, se rimane in Cristo, e vale per ciascuno e ciascuna di noi che può fare sue le parole del salmista: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: ecco l’opera del Signore”.