VI Domenica di Pasqua
Anno C
(At 15,1-2.22-29 Sal 66 Ap 21,10-14.22-23 Gv 14,23-29)
Domenica 22 Maggio 2022
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
I pochi versetti tratti dal Vangelo di Giovanni appartengono al lungo discorso che il quarto evangelista colloca all’interno della cena di Gesù, immediatamente prima della Pasqua. Le frasi si susseguono una dopo l’altra senza legarsi fra di loro, quasi una serie di detti indipendenti raccolti qui perché sono particolarmente importanti. Eppure le parole si richiamano, ritornano, come a ribadire ciò che Gesù voleva i suoi comprendessero. All’inizio e alla fine due promesse simili: la prima dice che il Padre e il Figlio prenderanno dimora presso coloro che amano Gesù (cioè in chi osserva la sua parola), la seconda semplicemente che lui tornerà. Quello di Gesù è un commiato tenerissimo: vuole che i suoi non si sentano abbandonati. Non solo, infatti, promette di tornare, ma addirittura di prendere dimora con il Padre dentro quelli che ama, e nell’attesa che questo accada non resteranno soli: verrà chiamato loro vicino (questo significa Paraclito) lo Spirito, che aprirà il loro cuore e la loro intelligenza alla fede dando loro la stessa pace di Gesù. Sono parole di vicinanza, di coinvolgimento, di intimità che ciascun discepolo e ciascuna discepola si devono sentire rivolte.
La promessa del suo dimorare in noi, della presenza in noi del Padre e dello Spirito, viene ripresa dall’immagine della città che l’Apocalisse ci presenta. Si tratta di una città in cui Dio stesso è luce e tempio, una città in cui Dio dimora con gli esseri umani. In essa c’è spazio per Israele (simboleggiato dalle dodici porte con i nomi delle dodici tribù) e per il popolo che nasce da quelli che, simbolicamente, sono i nuovi capostipiti del popolo che viene radunato dall’annuncio del Vangelo e che non ha più confini di nazione, razza, o altra divisione. Dio viene a dimorare in mezzo all’umanità e la sua stessa presenza si fa spazio per una città dove tutti possono abitare, bellissima e preziosa proprio per questa capacità di essere come Dio là vuole: un luogo di vita per tutti.
Di fronte a questa promessa sta la chiesa, di cui si parla (di nuovo) nella prima lettura. La chiesa sta di fronte alla promessa fatta a tutte le genti come un pegno di speranza, come un luogo cui si può guardare per sperare che davvero Dio dimori in mezzo ai popoli ed edifichi una città da cui nessuno/a viene escluso. Purtroppo il brano degli Atti è tagliato proprio nella sua parte più importante, quella che mostra come la chiesa, di fronte ad una difficoltà e ad una divergenza grave, raggiunge un consenso, una decisione condivisa che le permette di somigliare di più alla città in cui tutti possono abitare insieme. Non leggiamo il racconto del confronto fatto di franchezza, discussioni e ascolto reciproco, né come si arriva alla decisione di ammettere anche i pagani (eppure in questo momento di impegno sinodale ci sarebbe servito non poco), ma possiamo comunque vedere il coraggio della prima chiesa e prendere esempio. Aprire ai pagani era infatti per questa chiesa (in cui tutti sono giudei osservanti) una rivoluzione. Sembrava un rinnegamento delle tradizioni ricevute direttamente da Dio, una profanazione dell’alleanza, eppure dopo aver discusso, ascoltato lo Spirito e le esperienze altrui, dopo essersi chiesti solo come far fiorire l’opera di Dio, questa chiesa tutta giudaica segna la fine della propria esperienza: in poco tempo infatti la chiesa dei giudei diventerà minoritaria e sparirà, lasciando spazio quasi esclusivamente alla chiesa che viene dai pagani. Tutto questo però non è importante, come non lo sarebbe oggi abbandonare una forma di chiesa se dovessimo decidere che non permette a tutti di essere inclusi nella dimora di Dio con gli uomini. Ciò che conta è che i popoli si rallegrino, che lodino Dio, che la sua salvezza arrivi ovunque.
La chiesa è solo uno strumento, un piccolo segno della città che ci è promessa. Per questo non può avere timore né nel riformarsi, se questo serve la vita dei popoli, né nel perdere ciò che la caratterizza, perché ciò che conta davvero è la promessa che ci è stata fatta. Tutto il resto non è fatto per durare né dovrebbe interessarci troppo.