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03 - Dic - 2022

II Domenica di Avvento anno A

Avvento

II Domenica di Avvento

Anno A

(Is 11,1-10   Sal 71   Rm 15,4-9   Mt 3,1-12)
Domenica 04 Dicembre 2022

Enzo Bianchi

Le immagini della predicazione di Giovanni il Battista sono dure, destano timore, ma in realtà sono quelle tipiche di tutti i profeti, che hanno annunciato il giorno del Signore. Il Battista però non vuole che l’attenzione si concentri su di sé e tanto meno vuole apparire lui come il Giudice: costui è veniente, anzi sta dietro a lui ed è più forte di lui. Colui che viene è il Giudice che immerge non in acqua, ma nel fuoco escatologico dello Spirito di Dio: non più un rito, ma un evento ultimo e definitivo. Giovanni fa l’ultima chiamata alla conversione, prima della venuta del regno dei cieli ormai imminente; nello stesso tempo, manifesta la sua fede in Gesù, già presente tra i suoi discepoli, che presto sarà manifestato a Israele come “il Veniente”.

Brevi note sulle altre letture bibliche
Isaia 11,1-10
Quando il popolo di Israele è invaso, minacciato dalle potenze di questo mondo ed è diventato come un albero abbattuto, ridotto a un tronco (cf. Is 6,13), ecco l’azione di Dio: da quel tronco fa spuntare un germoglio che si nutrirà della linfa dell’albero abbattuto. Giunge dunque un discendente di Iesse, un nuovo David ricolmo dei doni dello Spirito di Dio: il suo respiro sarà il timore del Signore, la piena obbedienza a lui e alla sua volontà. Per questo sarà un giudice che non guarda alle apparenze, ma non sarà neppure bendato, perché vedrà nel cuore degli umani e inaugurerà un tempo nel quale giungerà la pace cosmica e la conoscenza del Signore riempirà la terra. Oggi, come allora, attendiamo questo compimento, sapendo che il discendente di Iesse ha un volto: quello di Gesù di Nazaret, il figlio di David, il Messia del Signore.

Lettera ai Romani 15,4-9
L’Apostolo ricorda ai cristiani che, nelle difficoltà della vita comunitaria, nelle tensioni tra forti e deboli, tra conservatori e innovatori, nei conflitti che possono sorgere anche tra discepoli di Gesù, occorre che ognuno accolga l’altro come fratello o sorella, cercando di assumere i sentimenti e i pensieri di Cristo. Ognuno è stato accolto, carico dei propri debiti, da Cristo, che lo ha perdonato e gli ha usato misericordia, e lo stesso deve fare nei confronti dell’altro, nella speranza della venuta del Signore. La parola di Dio contenuta nelle Scritture sempre ci illumina, ci sostiene, ci consola, ci indica il compimento della promessa del Signore, il suo giorno.
* * *
Prima della venuta del Signore, del giorno del Signore, secondo alcuni esperti delle sante Scritture sarebbe venuto il profeta Elia per preparare il popolo all’incontro con Dio, Salvatore e Giudice. Questa speranza è confermata da Gesù, che però invita a discernere tale presenza profetica in Giovanni il Battezzatore, venuto tra quelli che non l’hanno riconosciuto ma hanno fatto di lui ciò che hanno voluto (cf. Mt 17,10-13). Proprio perché nell’Avvento si attende la venuta del giorno del Signore, e dunque del Figlio dell’uomo, la chiesa ci fa sostare sul ministero di Giovanni: ministero di preparazione della strada per la manifestazione di Gesù a Israele. La sua predicazione, infatti, è più che mai attuale in questo tempo “ultimo”, in cui il Signore viene.

“Giovanni sopraggiunge” (paraghínetai) come predicatore nel deserto della Giudea, a sud-est di Gerusalemme, nelle terre attorno al Giordano, affluente del mar Morto. Sembra un profeta dell’antica alleanza, e lo è dopo almeno cinque secoli di silenzio della profezia nel popolo di Dio. Ha i tratti del profeta Elia: un vestito di peli di cammello (cf. 2Re 1,8; Zc 13,4), una cintura di cuoio, un nutrimento ascetico fornitogli dai frutti del deserto. Come Elia, chiama il popolo alla conversione, a ritornare al Signore prima del suo giorno: “Convertitevi, perché il regno dei cieli si è avvicinato!”. A questo annuncio nuovo le folle accorrono da Gerusalemme e dalla Giudea, accogliendo l’invito del profeta: confessano i loro peccati, si fanno responsabili davanti a Dio del male operato, si pentono e con un’azione decisa e vissuta, l’essere immersi da Giovanni nelle acque del Giordano, testimoniano la loro purificazione e il loro mutamento di vita. È come un nuovo inizio, anche perché Giovanni appare come il profeta designato da Isaia quale annunciatore della definitiva liberazione, del nuovo esodo, della creazione di cieli nuovi e terra nuova (cf. Is 40,1-11).

Giovanni dunque è ascoltato dalle folle, ma sa anche discernere al loro interno quanti ricorrono a lui solo per soddisfare la propria religiosità: sono persone che in realtà non si convertono, non cambiano vita e modo di pensare, ma sono sempre disponibili a vivere riti e a compiere ciò che la religione richiede. Matteo identifica queste persone in farisei e sadducei (attenzione a non tipizzare, soprattutto il primo gruppo!), cioè negli uomini religiosi esperti della dottrina e zelanti nel loro comportamento secondo la Legge. Ecco allora l’invettiva del Battista: “Razza di vipere (cf. Sal 140,4)! Chi è il vostro vero suggeritore? È colui che vi ispira di sfuggire alla passione per la giustizia di Dio, fingendo e aumentando le azioni rituali?”. Sono credenti che non ascoltano le parole di Giovanni, non riconoscono in lui le parole del Signore, eppure vengono al suo battesimo… Per loro il rito va benissimo, mentre fare la volontà di Dio e vivere ciò che il rito dovrebbe significare, no! Hanno dentro di sé certezze: sono figli di Abramo, hanno il senso dell’appartenenza al popolo eletto e scelto da Dio, sanno invocare Dio come il Dio con loro. Giovanni però con la sua predicazione manda in frantumi queste certezze e garanzie: “Non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’, perché Dio può creare figli di Abramo dalle pietre del deserto”. Ormai il giorno del Signore è vicino e il Giudice si sta manifestando come una scura che abbatte alla radice l’albero che non dà frutti buoni, destinandolo al fuoco.

Le immagini della predicazione del Battista sono dure, destano timore, ma in realtà sono quelle tipiche di tutti i profeti, che hanno annunciato il giorno del Signore a quanti contraddicevano la sua volontà vivendo invece formalmente (cioè da ipocriti!) l’alleanza con Dio. Giovanni mette in luce quella rottura che sarà portata a pienezza da Gesù: rottura con i legami di sangue, con l’appartenenza etnica. Figli di Abramo lo si è non per appartenenza carnale, ma perché si vive l’obbedienza e l’adesione a Dio da lui vissute, dirà Paolo (cf. Rm 4,1-3; Gal 3,6).

Giovanni però non vuole che l’attenzione si concentri su di sé e tanto meno vuole apparire lui come il Giudice: costui è veniente, anzi sta dietro (opíso) a lui ed è più forte di lui. Il Battista non si sente nemmeno degno di essere suo servo, portandogli i sandali. Colui che viene è il Giudice che immerge non in acqua, ma nel fuoco escatologico dello Spirito di Dio: non più un rito, ma un evento ultimo e definitivo. Giovanni fa dunque l’ultima chiamata alla conversione, prima della venuta del regno dei cieli ormai imminente; nello stesso tempo, manifesta la sua fede in Gesù, già presente tra i suoi discepoli, che presto sarà manifestato a Israele come “il Veniente” (ho erchómenos: Mt 11,3; 21,9; 23,39). Solo a lui spetta il giudizio definitivo, descritto dal suo precursore con un’immagine apocalittica: “Tiene in mano il ventilabro, per separare la pula dal buon grano. Al passaggio del vento la pula sarà portata via e poi bruciata, mentre il grano sarà raccolto nei granai”.

Sì, di fronte a questi annunci e a queste immagini è doveroso provare sentimenti di timore. Il giudizio è un evento serio ma, quando avverrà, sarà nient’altro che la manifestazione di ciò che ciascuno di noi ha operato ogni giorno, scegliendo il bene o il male. Siamo noi stessi a darci il giudizio, ora e qui: il giudizio non è una spada di Damocle che pende sulla nostra testa, ma un evento che decidiamo oggi. Ecco come la chiesa ci attualizza la predicazione di Giovanni il Battista sulla venuta gloriosa del Figlio dell’uomo.

24 - Nov - 2022

I Domenica di Avvento anno A

Avvento

I Domenica di Avvento

Anno A

(Is 2,1-5   Sal 121   Rm 13,11-14   Mt 24,37-44)
Domenica 27 Novembre 2022

L’arte dell’attesa  di Enzo Bianchi

Di fronte a questo vangelo la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore.

Inizia un nuovo anno liturgico nel quale, domenica dopo domenica, ascolteremo il vangelo secondo Matteo. Ma inizio e fine di un anno liturgico possono solo mettere davanti a noi ciò che sta sempre nel nostro futuro: la venuta del Figlio dell’uomo, il nostro incontro con lui. Il nostro Dio è il Signore “che è e che viene” (Ap 4,8), perché è già venuto nella carne fragile e mortale di Gesù, il figlio di Maria morto e risorto, viene in ogni ora nella vita del discepolo per attirarlo a sé, verrà nell’ora dell’esodo di ciascuno di noi da questo mondo, alla fine dei tempi, per introdurci tutti e definitivamente nel suo Regno di pace e di vita piena. Gesù è “il Veniente” (ho erchómenos: Ap 1,4.8; 4,8), e il suo giorno, “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj, kyriakè heméra), sarà la parousía, la manifestazione ultima e definitiva.

Nel brano evangelico odierno ascoltiamo parole di Gesù dette non alle folle ma in disparte, solo ai discepoli (cf. Mt 24,3), al “piccolo gregge” (Lc 12,32), nelle ore che precedono la sua fine, attraverso l’arresto, la condanna e la morte. Sul monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme, dove si contempla la città santa e il tempio nel suo splendore, Gesù avverte: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo conosce, è un termine fissato alla storia che solo Dio conosce” (cf. Mt 24,36). Per questa ignoranza da parte degli umani, quando ci sarà la parousía, la venuta del Figlio dell’uomo, regneranno l’indifferenza, la distrazione, il non sapere. Gesù dice queste parole con tristezza, ma sa che per l’umanità è sempre come ai tempi di Noè, quando venne la grande inondazione e colse l’umanità impreparata.

Nel libro della Genesi (cf. Gen 6,5-9,17), il diluvio universale è presentato come castigo di Dio su un’umanità da lui creata ma diventata malvagia, violenta. Decodificando quel testo, possiamo comprendere che, allora come oggi, a volte sembra prevalere su tutto la violenza, l’immoralità, la perdita della dignità umana e della fraternità. In questo caso emerge con evidenza che le scelte di uomini e donne sono mortifere, che il comportamento umano sfigura la terra in un modo devastante, ben rappresentato dalle acque del diluvio o dal deserto che avanza. E di fronte a eventi che fanno prendere coscienza della nostra responsabilità, si manifesta come gli umani siano stati fino all’ultimo distratti, incapaci di capire ciò che stavano preparando con il loro comportamento.

Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà “il giorno del Signore” sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la “non conoscenza” (ouk égnosan), il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore.

Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche, e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria. Accadrà dunque che tutto si consumerà quando impareremo dagli eventi che la morte arriva per gli uni prima che per gli altri, sicché chi è con noi al lavoro può essere preso e noi lasciati in vita, o viceversa. Non c’è la stessa ora per tutti, non c’è la stessa occasione per tutti, ma per tutti c’è una fine! Anche questo dovrebbe essere di insegnamento, quasi profezia del giudizio di Dio, quando avverrà una separazione tra quelli che entreranno nel Regno, perché esercitati nella comunione con gli altri, e quelli che non potranno entrare, perché non hanno voluto conoscere la comunione con gli altri ma si sono nutriti di philautía, di amore egoistico di sé. Come nelle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (cf. Ap 2-3), il Signore viene e la sua venuta è giudizio in ogni istante!

Occorre dunque essere a conoscenza del piano di salvezza di Dio, occorre vegliare e tenersi pronti. Come un padrone di casa che sa che il ladro verrà nella notte: che cosa farà? Veglierà, starà sveglio e in attesa, in modo da non lasciare che la sua casa venga scassinata. Ecco la postura del discepolo: sa che il Figlio dell’uomo viene, anche se non conosce l’ora della sua venuta, e forte di questa consapevolezza vive nella vigilanza, nell’attesa. Non si lascia andare, non si distrae, ma pur vivendo umanamente bene, continua a vigilare per aprire prontamente al Signore quando arriverà; verrà sorprendendoci, ma, proprio perché atteso, sarà anche accolto prontamente e con grande gioia.

In ogni caso, di fronte a questo vangelo – dobbiamo confessarlo – la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Come diceva Ignazio Silone: “I cristiani dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!”. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore. Siamo ricondotti a comprendere che noi, pur vagabondi e mendicanti sulla terra per un pugno di anni – “settanta, ottanta se ci sono le forze” (Sal 90,10) –, in quel giorno avremo bisogno solo della misericordia del Signore.

03 - Giu - 2022

Domenica di Pentecoste anno C

Pentecoste

Domenica di Pentecoste

Anno C

(At 2,1-11   Sal 103   Rm 8,8-17   Gv 14,15-16.23-26)
Domenica 05 Giugno 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel giorno di Pentecoste, quando l’opera della salvezza si compie e inizia il tempo in cui essa verrà testimoniata nelle parole e nel vissuto della chiesa, si mostra con ogni evidenza che la fede è una questione di amore e di vita. Nient’altro. Anzi, legare la fede ad altre cose non può solo oscurare questa radicale e semplicissima verità.

I segni portentosi, che nel genere letterario delle manifestazioni di Dio vogliono indicare che è accaduto qualcosa di straordinario (cioè che chi era presente ha compreso come straordinario), indicano l’azione di Dio su quelli che erano tutti insieme (gli undici,  Maria, le discepole, i fratelli e le sorelle di Gesù: questi sono quelli nominati nel primo capitolo del libro degli Atti, cui dobbiamo aggiungere almeno Mattia chiamato a ricostituire il numero dei dodici al posto di Giuda e forse qualche altro, visto che Luca ci parla di un nucleo originario di 120 discepoli). La storia che i Vangeli raccontano si schiude in un momento che i discepoli sentono come unico e che dà l’avvio alla vita della chiesa: un vento portentoso spinge i discepoli e le discepole, riscaldati dal fuoco stesso di Dio, verso gli altri e fa annunciare (nella lingua che ciascuno è in grado di capire) la semplice verità della via cristiana e cioè, come dicevamo in apertura, che il mistero di Dio e il rapporto con lui si risolve nell’amore e nella vita.

Dell’amore ci parlano i pochi versetti del Vangelo di Giovanni. Amare è abitarsi reciprocamente. Chi ama si fa spazio per l’amato e allo stesso tempo chiede di essere ospitato. Così Dio, nel quale tutto vive, entra nel cuore di quelli che ama, perché in questa intimità, ciascuno di noi possa ascoltarlo, imparare e ricordare le sue parole, osservarle, viverle. L’amore di lui è ciò che ci spinge (lo Spirito è come un vento impetuoso che ci trascina): se lasciamo che ci invada non ci servirà altro perché ci condurrà infallibilmente alla vita.

Proprio di questa ci parla il brano della lettera ai romani, tratto dallo straordinario capitolo ottavo, quasi un inno alla vita cristiana animata dallo Spirito. Ciascuno di noi sa di essere dominato dalla carne (così comincia Paolo in questo brano), cioè ciascuno di noi sa bene quali ferite, quali debolezze, quali paure, quali incapacità, quali distorsioni, lo spingono lontano dalla parola ascoltata e da Dio. Dobbiamo sapere, però, che per sia quanto difficile e a volte molto doloroso la carne non ha dominio su di noi, perché noi siamo già possesso dello Spirito ed è lui il motore della nostra vita, il dominatore di tutto ciò che si agita in noi. La carne resta, a volte arriviamo a sperimentare la potenza della morte in quello che ci accade, ma lo Spirito è più forte: se anche fossimo morti per il peccato, lo Spirito che ci abita ci fa vivi perché ci restituisce la giustizia perduta e così, liberamente, possiamo scegliere le opere dello Spirito, cioè tutte quelle opere che danno vita a noi e ad altri. Si può sempre ricominciare, perché lo Spirito dà vita anche ai morti.

Questo Spirito però non è quello degli schiavi, ma dei figli, cioè delle persone libere e adulte che possono disporre dei doni e dell’eredità paterna che consiste in Cristo stesso: lo Spirito ci fa vivere come Cristo, partecipi delle sue sofferenze e della sua resurrezione, ci insegna tutto, fa sì che la parola di lui diventi la nostra stessa carne. Il segreto della vita cristiana consiste dunque nell’imparare ad ascoltare e seguire lo Spirito di Dio che dimora in noi e che impedisce alla carne di dominarci. Può darsi che non lo ascolteremo sempre, può darsi che ci confonderemo, ma – Gesù è stato chiaro – lo Spirito rimarrà per sempre e quindi, possiamo sperarlo con forza e sensatamente, finirà per piegare ciò che ci insegna la morte per rinnovarci continuamente e fino a donarci la pienezza della vita che in fondo altro non è che avere la libertà di amare fino alla fine, come Gesù. Il mistero di Dio è semplice, è una questione di amore e di vita: niente altro davvero.

28 - Mag - 2022

Ascensione del Signore anno C

Ascensione

Piccolo Eremo delle Querce

Ascensione del Signore

Anno C

(At 1,1-11   Sal 46   Eb 9,24-28;10,19-23   Lc 24,46-53)
Domenica 29 Maggio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’ascensione di Gesù segna la fine della storia del Vangeli, il loro protagonista assoluto non può più essere visto né raccontato. Eppure il tono dei racconti che ci parlano dell’ascensione sembra quello di un inizio (Luca comincerà proprio così un nuovo libro, quello degli Atti degli apostoli). Il Signore se ne va eppure si parla di attesa, di una missione che comincia, di un Altro che deve venire e (se scorriamo la seconda lettura tratta dalla lettera agli ebrei) di un nuovo ritorno di Gesù che ci condurrà là dove lui è. La storia, raccontata fin qui e culminata nella Pasqua, è dunque appena cominciata. Per questo Gesù si ferma con i suoi per quaranta giorni spiegando ed istruendo: perché questo è solo l’inizio. In fondo l’anno liturgico ci educa sempre a questo ritmo per il quale alla straordinarietà delle feste segue sempre l’ordinarietà di tutti i giorni, come ad ammonirci che ogni dono di Dio (per quanto possa essere straordinario) prende senso e concretezza solo nel concreto vivere quotidiano.

La storia che ricomincia però, da questo momento in poi, sarà l’attesa che tutte le promesse di Cristo si compiano. Si tratta di un’attesa operosa, fatta di impegno per la giustizia e la pace, fatta dell’amore declinato nei gesti quotidiani che si prendono cura di altri, fatta di testimonianza evangelica mai possibile se la vita contraddice le parole. Questa festa ci ricorda dunque verso dove stiamo camminando, perché conoscendo la meta possiamo sapere come attrezzarci per il viaggio, quali cammini fare, quali compagnie scegliere, ma ci ricorda anche chi stiamo aspettando perché la fede altro non è che desiderio di Cristo, profondo e insaziabile desiderio.

La lettera agli ebrei medita questo mistero con altre parole. Ci dice che Cristo è entrato nel santuario del cielo (come il sommo sacerdote entrava nel luogo più sacro del tempio) e che anche noi (diversamente dal popolo che aspettava fuori) abbiamo la possibilità, grazie a lui, di entrare in questo stesso santuario, che è Dio stesso. Ora infatti sappiamo quale è la via, una via nuova e vivente che egli ha inaugurato attraverso la sua carne. La vita e la morte di Gesù sono la via. Questo è stato sufficiente (infatti, diversamente da quanto facevano i sacerdoti ebrei che ogni anno rinnovavano l’offerta per i peccati, non c’è più bisogno di ripetere il sacrificio) per condurre l’umanità nel grembo stesso di Dio. L’ascensione, dunque, ci spinge a contemplare la carne di Gesù, la sua umanità, perché fissando lo sguardo in essa noi scrutiamo la via certa al cielo, contemplando la carne di lui noi fissiamo gli occhi dritti in cielo anche se ciò che dobbiamo vivere è ben piantato sulla terra.

In questo giorno si fa evidente che non c’è alcuna separazione fra Dio e gli esseri umani. Se Dio ha vissuto con l’umanità, ora un essere umano entra nella dimensione di Dio e dietro di sé lascia una via che noi possiamo percorrere. Non abbiamo bisogno di prodigi straordinari né di sacrifici aggiuntivi o di chissà cos’altro per raggiungere Dio in qualche modo: conosciamo la via, nuova e vivente, da percorrere e sta tutta nella vita mite ed umile del figlio del falegname.

27 - Mag - 2022

Maria Soave Buscemi – Biblista

Maria Soave BuscemiMaria Soave Buscemi

Biblista

Maria Soave Buscemi da vent’anni è missionaria laica fidei donum in Brasile, dove opera come educatrice e coordina la dimensione di studi di genere e di ermeneutiche femministe del Centro studi biblici (Cebi). Autrice di libri di lettura popolare della Bibbia, scrive per riviste biblico-teologiche latinoamericane come Ribla e per il mensile italiano Combonifem.

20 - Mag - 2022

VI Domenica di Pasqua anno C

Pasqua 2022

VI Domenica di Pasqua

Anno C

(At 15,1-2.22-29   Sal 66   Ap 21,10-14.22-23   Gv 14,23-29)
Domenica 22 Maggio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

I pochi versetti tratti dal Vangelo di Giovanni appartengono al lungo discorso che il quarto evangelista colloca all’interno della cena di Gesù, immediatamente prima della Pasqua. Le frasi si susseguono una dopo l’altra senza legarsi fra di loro, quasi una serie di detti indipendenti raccolti qui perché sono particolarmente importanti. Eppure le parole si richiamano, ritornano, come a ribadire ciò che Gesù voleva i suoi comprendessero. All’inizio e alla fine due promesse simili: la prima dice che il Padre e il Figlio prenderanno dimora presso coloro che amano Gesù (cioè in chi osserva la sua parola), la seconda semplicemente che lui tornerà. Quello di Gesù è un commiato tenerissimo: vuole che i suoi non si sentano abbandonati. Non solo, infatti, promette di tornare, ma addirittura di prendere dimora con il Padre dentro quelli che ama, e nell’attesa che questo accada non resteranno soli: verrà chiamato loro vicino (questo significa Paraclito) lo Spirito, che aprirà il loro cuore e la loro intelligenza alla fede dando loro la stessa pace di Gesù. Sono parole di vicinanza, di coinvolgimento, di intimità che ciascun discepolo e ciascuna discepola si devono sentire rivolte.

La promessa del suo dimorare in noi, della presenza in noi del Padre e dello Spirito, viene ripresa dall’immagine della città che l’Apocalisse ci presenta. Si tratta di una città in cui Dio stesso è luce e tempio, una città in cui Dio dimora con gli esseri umani. In essa c’è spazio per Israele (simboleggiato dalle dodici porte con i nomi delle dodici tribù) e per il popolo che nasce da quelli che, simbolicamente, sono i nuovi capostipiti del popolo che viene radunato dall’annuncio del Vangelo e che non ha più confini di nazione, razza, o altra divisione. Dio viene a dimorare in mezzo all’umanità e la sua stessa presenza si fa spazio per una città dove tutti possono abitare, bellissima e preziosa proprio per questa capacità di essere come Dio là vuole: un luogo di vita per tutti.

Di fronte a questa promessa sta la chiesa, di cui si parla (di nuovo) nella prima lettura. La chiesa sta di fronte alla promessa fatta a tutte le genti come un pegno di speranza, come un luogo cui si può guardare per sperare che davvero Dio dimori in mezzo ai popoli ed edifichi una città da cui nessuno/a viene escluso. Purtroppo il brano degli Atti è tagliato proprio nella sua parte più importante, quella che mostra come la chiesa, di fronte ad una difficoltà e ad una divergenza grave, raggiunge un consenso, una decisione condivisa che le permette di somigliare di più alla città in cui tutti possono abitare insieme. Non leggiamo il racconto del confronto fatto di franchezza, discussioni e ascolto reciproco, né come si arriva alla decisione di ammettere anche i pagani (eppure in questo momento di impegno sinodale ci sarebbe servito non poco), ma possiamo comunque vedere il coraggio della prima chiesa e prendere esempio. Aprire ai pagani era infatti per questa chiesa (in cui tutti sono giudei osservanti) una rivoluzione. Sembrava un rinnegamento delle tradizioni ricevute direttamente da Dio, una profanazione dell’alleanza, eppure dopo aver discusso, ascoltato lo Spirito e le esperienze altrui, dopo essersi chiesti solo come far fiorire l’opera di Dio, questa chiesa tutta giudaica segna la fine della propria esperienza: in poco tempo infatti la chiesa dei giudei diventerà minoritaria e sparirà, lasciando spazio quasi esclusivamente alla chiesa che viene dai pagani. Tutto questo però non è importante, come non lo sarebbe oggi abbandonare una forma di chiesa se dovessimo decidere che non permette a tutti di essere inclusi nella dimora di Dio con gli uomini. Ciò che conta è che i popoli si rallegrino, che lodino Dio, che la sua salvezza arrivi ovunque.

La chiesa è solo uno strumento, un piccolo segno della città che ci è promessa. Per questo non può avere timore né nel riformarsi, se questo serve la vita dei popoli, né nel perdere ciò che la caratterizza, perché ciò che conta davvero è la promessa che ci è stata fatta. Tutto il resto non è fatto per durare né dovrebbe interessarci troppo.

13 - Mag - 2022

V Domenica di Pasqua anno C

Pasqua 2022

V Domenica di Pasqua

Anno C

(At 14,21-27   Sal 144   Ap 21,1-5   Gv 13,31-35)
Domenica 15 Maggio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il libro dell’Apocalisse ci racconta una visione. Oggi è frequente dire delle aziende o delle organizzazioni che hanno una vision, hanno cioè ben chiaro che cosa vogliono essere e quale risultato vogliono portare nella realtà, poi, in base a questa vision, ogni azienda e ogni organizzazione struttura la propria mission, il proprio operare cioè in vista dei risultati. Non si danno però né risultati né azione senza visione, senza saper vedere quello che ancora non c’è, senza sapere chi si vuole diventare o chi si è chiamati a diventare.

L’Apocalisse ci racconta una visione, quella che riguarda la chiesa. In questo breve passaggio che è praticamente alla fine del racconto si contempla il rinnovamento di tutte le cose, un ordine nuovo del mondo (cielo e terra diversi e niente più mare) e Dio che dimora con gli esseri umani. In questo quadro la chiesa è descritta come quella città, cioè quel luogo ospitale e variegato dove si può vivere insieme, nella quale Dio abita. La chiesa è quel noi, entrando nel quale (come oltrepassando le mura spesse delle nostre città antiche), si può stare con Dio, lasciarsi asciugare le lacrime, dimenticare il lutto e l’affanno, relegare anche la morte fra le cose di ieri. La visione ci dice che la chiesa è il luogo della vita e della consolazione, perché rende presente Dio stesso.

Tutto questo accade per la logica semplicissima ed essenziale che i pochi versetti del Vangelo ci annunciano di nuovo: dall’amore che i credenti hanno gli uni per gli altri, tutti sapranno che sono discepoli di Cristo e così questo amore, la cura concreta, ovvia e banale di ogni giorno, diventerà lo spazio accogliente nel quale la gloria di Dio sarà evidente e il noi di quelli che si amano comincerà a rinnovare la terra sulla quale vedremo svanire persino la morte.

La visione ci dice che la chiesa non è innanzitutto un’istituzione con una storia gloriosa, personaggi importanti, beni e potere, regole, sacralità, curiose usanze di qualche secolo fa. La visione ci dice che la chiesa è uno spazio di relazioni umane nel quale lo Spirito viene assecondato al punto che l’amore reciproco diventa capace di convincere della bellezza del Vangelo anche altri, che così a loro volta possono dimenticare affanni e lutto. Questa era la visione di Paolo e Barnaba (prima lettura) che tornano ad Antiochia a raccontare come lo Spirito li abbia accompagnati nella missione fino al fatto del tutto imprevisto della conversione dei pagani. Non tornano ad Antiochia per vantarsi, per affermare il loro successo o per vedersi riconosciuto un incarico; tornano ad Antiochia perché quella è la chiesa da cui sono partiti, quelli sono i discepoli e le discepole che li hanno sostenuti, che hanno pregato con loro, che li hanno amati e che loro hanno amato. Non c’è missione che non parta da questo amore, che stringe in relazioni fedeli e fa essere responsabili gli uni degli altri. Non c’è missione che non parta da un luogo, volti precisi, nomi, persone di cui si vuole avere cura.

Spesso si parla (a ragion veduta) della crisi della chiesa. La via di uscita è tornare ad avere una visione, la stessa che il Vangelo ci ha consegnato fin dall’inizio.

06 - Mag - 2022

IV Domenica di Pasqua anno C

Pasqua 2022

IV Domenica di Pasqua

Anno C

(At 13,14.43-52   Sal 99   Ap 7,9.14-17   Gv 10,27-30)
Domenica 8 Maggio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura di questa domenica, nel linguaggio tipicamente simbolico dell’Apocalisse, ci porta a contemplare l’umanità come una immensa moltitudine che nessuno può contare, senza più separazione di sorta: persone di ogni lingua, popolo, stirpe, nazione, sono tutti insieme davanti a Dio, dopo aver attraversato la grande tribolazione. Forse possiamo vedere in questa tribolazione le fatiche della vita e della storia, i dolori e le prove soverchianti che stringono ogni epoca, ogni popolo, ogni persona (non dovremmo riconoscerci come fratelli e sorelle già solo per questa fatica che tutti conosciamo fin troppo bene? e non è illusorio pensare di alleggerire questa fatica facendo violenza o accaparrando?). Ma forse ancora più specificamente, potremmo pensare che le prime file di questa moltitudine che ha affrontato la tribolazione siano coloro che hanno mantenuto fede alla propria umanità, alla giustizia, alla fede e per questo hanno sofferto o sono morti. Tutti comunque, purificati dal sacrificio di Cristo che non ha bisogno di essere ripetuto perché già capace di salvare tutti, non avranno più fame né sete, non soffriranno arsura ma avranno l’acqua della vita: Dio stesso asciugherà le lacrime dai loro occhi.

Questa visione in cui nessuna barriera si erge fra i popoli sembra contraddire quanto accade a Paolo e Barnaba (prima lettura tratta dal libro degli Atti) che si trovano più volte in contrasto con i Giudei che non vogliono ascoltare la loro predicazione, ma in realtà anche questa divisione (forse proprio perché coinvolge il popolo che Dio si è scelto) diventa l’occasione per allargare la via della salvezza. Quando infatti i Giudei respingono Paolo e Barnaba questi decidono di annunciare ai pagani: il rifiuto che incontrano non li chiude nella delusione e nella disperazione, ma li riapre a nuovi orizzonti e nuovi percorsi. In questo modo anche il male che gli altri gli rivolgono diventa inefficace, proprio perché viene volto in bene. Paradossalmente il rifiuto opposto diventa dono per altri che nemmeno sapevano fosse possibile.

Si comprende così quanto questi pochi bellissimi versetti del Vangelo di Giovanni ci dicono: nessuno può rapire dalla mano del Padre coloro che ascoltano la voce di Gesù, perché questa voce indefettibilmente fa mantenere la rotta sulla via della vita eterna che nessuno può strapparci, qualunque cosa faccia. Per Paolo e Barnaba persino l’odio e il complotto di quelli che consideravano fratelli diventa una risorsa, per la moltitudine dell’Apocalisse la tribolazione diventa il travaglio per entrare nella vita. Ascoltare la voce di Cristo ci fa stare saldi e al sicuro nella mano del Padre, non al riparo dal male, ma certi che non ci potrà strappare dalla mano di chi, infallibilmente, moltiplica e rinnova la vita, per noi e per altri.

29 - Apr - 2022

III Domenica di Pasqua anno C

Pasqua 2022

III Domenica di Pasqua

Anno C

(At 5,27-32.40-41   Sal 29   Ap 5,11-14   Gv 21,1-19)
Domenica 1 Maggio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica la prima lettura è di nuovo tratta dagli Atti degli apostoli e la seconda dall’Apocalisse e, di nuovo, il Vangelo è quello di Giovanni. Questa domenica continuiamo a leggere il Vangelo da dove l’abbiamo lasciato domenica scorsa e passiamo all’ultimo capitolo di Giovanni, quello che è stato aggiunto al racconto iniziale. Questa aggiunta è carica di significati simbolici, di richiami, di suggestioni: il mare di Galilea, la pesca miracolosa, la distribuzione dei pani e dei pesci, il dialogo fra Gesù e Pietro (quasi a recuperare il tradimento di quest’ultimo, perché – lo sappiamo – le relazioni non si sanano semplicemente dimenticando ciò che è accaduto, occorre che chi ha ferito qualcuno rimedi come è possibile).

Per scegliere su che cosa fissare lo sguardo in mezzo a tanta abbondanza ci lasciamo guidare dalle prime due letture. Nel libro degli Atti Pietro (con gli apostoli) ribadisce che bisogna obbedire a Dio non agli uomini e quindi, invece di tacere come gli uomini gli intimavano, annuncia che Gesù è colui che Dio ha innalzato alla sua destra (a questo innalzamento che contrasta con la sconfitta della crocifissione fa eco anche il salmo: Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, mi hai fatto rivivere, hai mutato il mio lamento in danza). Risponde a questo annuncio di gloria e di esaltazione il brano dell’Apocalisse nel quale miriadi e miriadi di angeli, insieme a tutte le creature che stanno in cielo, in terra, sotto terra e nel mare, acclamano a colui che è degno di onore, gloria e benedizione. Entrambe le letture cantano cioè l’esaltazione e la gloria di Gesù dopo l’abbassamento e l’umiliazione della croce.

A questo punto potremmo smarrirci, però. Infatti i nostri criteri umani – molto lontani da quelli di Dio – ci possono far immaginare Gesù come una specie di essere potentissimo, divinizzato, un eroe vittorioso, capace di sconfiggere ogni nemico, invincibile e indistruttibile. Somiglia alla descrizione dei supereroi amati dai bambini, o dei robot combattenti i nemici cattivi che ogni persona cresciuta negli anni settanta-ottanta ha bene in mente. Questa però non è la buona notizia del Vangelo. Dobbiamo domandarci allora in che cosa consistano l’esaltazione e la gloria di Gesù. In che cosa consista la sua vittoria e il motivo per cui davvero non si può che inchinarsi di fronte a tanta bellezza. E per comprendere questo torniamo al racconto del Vangelo.

Dopo la Pasqua, anche se Gesù si è mostrato risorto, lo smarrimento e l’indecisione sono dominanti. Non è davvero facile capire che cosa significhi ciò che è successo. Alcuni dei discepoli tornano a pescare, alle loro terre, al loro mestiere. E qui Gesù, come all’inizio di tutta la vicenda, si fa trovare sulla riva. Mentre loro si affannano a pescare o a nuotare (Pietro si butta per raggiungerlo quando capisce che è lui), Gesù prepara un fuoco di brace e si fa dare il pesce fresco. Il vincitore della morte prepara la cena, fa il gesto che tutte le donne (e oramai qualche uomo) conoscono bene: il gesto della cura quotidiana, del nutrimento, dare forza a chi sia ma rallegrandolo con un sapore buono. Gesù prepara il fuoco e cuoce il pesce, poi lo distribuisce ai suoi. È una scena di intimità (non c’è bisogno nemmeno di parlare) e di condivisione, è un momento che permette di capire tutta la storia precedente che ha reso Gesù e i suoi un solo corpo, è il gesto più semplice ed efficace del mondo che svela il mistero di Dio di cui Gesù è vissuto: preparare un cibo che tutti possano gustare.

Nessuna grandiosità. Nessuna potenza. Nessuna gerarchia. Il Signore si china sul fuoco e cucina per i suoi. Mangiano insieme. E così il mistero di Dio, madre e nutrice, si schiude nei gesti quotidiani che tutti fanno e tutti comprendono. La chiesa dovrà essere poi il riflesso di tutto questo, dove chi più ha ricevuto si china a nutrire altri perché abbiano anche loro tutto il possibile e dove tutti si nutrono dell’unico mistero di vita che allontana la morte non nella grandiosità del potere, ma nel nascondimento dei gesti che sono propri della cura e dell’amore vissuto. Per questo Gesù merita che tutta la creazione gli si inchini davanti, lo esalti e lo lodi, perché tutta la sua vita e tutta la sua carne sono state amore vissuto: fedele, frainteso, condiviso, tradito, ma fermamente offerto, fino all’ultimo respiro. Colui che viene esaltato è un uomo che ha saputo amare e prendersi cura e per questo, tornato dalla morte, si china e prepara la cena per chi ha bisogno di mangiare.

22 - Apr - 2022

II Domenica di Pasqua anno C

Pasqua 2022

II Domenica di Pasqua

Anno C

(At 5,12-16   Sal 117   Ap 1,9-11.12-13.17-19   Gv 20,19-31)
Domenica 24 Aprile 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se ci fosse capitato di pensare che per le discepole e i discepoli che hanno visto il Signore risorto sia stato più facile aderire al Vangelo, il brano di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio che ogni credente, dalle prime donne andate al sepolcro all’ultima persona che oggi è diventata cristiana, deve compiere lo stesso cammino: deve cioè credere che colui che era stato crocifisso è risorto. Non basta ascoltare l’annuncio: molti lo hanno sentito anche allora ma non hanno creduto (all’inizio anche i discepoli non credono alla parola delle donne). Non basta nemmeno che dei testimoni oculari lo raccontino, come accade in questo famoso episodio che ha Tommaso per protagonista. Ma non basta nemmeno vedere. Gesù infatti, quando si mostra otto giorni dopo la Pasqua, rivolgendosi a Tommaso gli dice: “perché mi hai veduto hai creduto”. Questa frase ci dice che non basta nemmeno vedere. Dal vedere, infatti, bisogna passare alla fede e questa è la capacità di riconoscere in ciò che si vede e si ascolta l’opera di Dio. Non basta vedere ciò che Dio opera, nemmeno la resurrezione di Gesù (pensiamo che proprio quelli che hanno visto Gesù resuscitare Lazzaro si sono organizzati per ucciderlo), occorre guardare e ascoltare in modo da riconoscere in ciò che accade l’amore infinito che Dio ci rivolge e volerlo. La fede è riconoscersi amati da Dio e scoprire in questo una tale bellezza da voler vivere per esso.

È la stessa dinamica dell’amore. Nessuno di noi può vedere l’amore di qualcuno, né può provarlo, ma può crederci da ciò che l’altro compie e dice. Ci si può ingannare ovviamente (e per questo spesso non si crede nemmeno a ciò che è vero, per paura di fidarsi e soffrire) ma non c’è altro modo per conoscere l’amore che crederci. Fin da quando siamo piccoli è così: un bambino o una bambina che non credesse all’amore che gli viene rivolto soffrirebbe enormemente e finirebbe per affaticare la propria crescita o persino per impedirla. L’amore non si può dimostrare, proprio come la resurrezione, ma questo non significa che non sia meno vero. Non basta vedere, occorre credere: perché solo conoscendo l’amore e scegliendolo la vita diventa altro. “Perché hai veduto hai creduto, beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Beati quelli, cioè, che sanno riconoscere l’amore di Dio dall’annuncio del Vangelo, attingendo da questo per cogliere in tutto ciò che vedono e sentono l’annuncio gioioso della sconfitta della morte che viene dall’amore vivificante di Dio.

La chiesa è proprio il corpo di quelli e quelle che credono a questo amore che vince ogni morte, per questo (bellissima la seconda lettura tratta dall’Apocalisse e vivida di immagini) in mezzo ad essa si può vedere il Risorto, vivo e operante. La fede infatti rende i credenti e la chiesa intera capaci di diffondere e moltiplicare la vittoria di Cristo, per cui lui stesso può essere visto e riconosciuto in loro. La prima lettura (dagli Atti degli apostoli) ce lo racconta parlando della prima comunità: un popolo capace di fare prodigi di vita, capace di attrarre tutti quelli che soffrono perché vengano guariti, capace di liberare quelli che gli spiriti malvagi tengono prigionieri. La resurrezione di Cristo viene creduta, perché il suo annuncio risuona sulla bocca di quelli che con la loro fede e il loro amore lo rendono presente proprio perché intorno a loro la morte viene continuamente sconfitta. Da ciò che essi vivono è possibile credere che ciò che annunciano sia vero e così uomini e donne vengono aggiungi alla famiglia di quelli che credono, che sanno vedere e gioire cioè dell’amore che lascia vuoto ogni sepolcro.