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24 - Lug - 2020

XVII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVII Domenica T.O.(A)

(1Re 3,5.7-12   Sal 118   Rm 8,28-30   Mt 13,44-52)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

“Chiedimi ciò che vuoi io ti conceda”. Questo è quello che Dio dice a Salomone che è appena diventato re. Che cosa chiederemmo noi? Quale desiderio ci sorge spontaneamente nel cuore all’idea di sentire rivolte a noi queste parole da parte di Dio? Salomone chiede di diventare adulto, è solo un ragazzo e chiede di saper distinguere il bene dal male per governare con giustizia. Chiede di essere reso responsabile di ciò che gli viene affidato. Non cerca il proprio vantaggio o qualche forma di affermazione personale, ma la capacità di farsi carico di altri per farli vivere. A lui che cerca di vivere la propria responsabilità con giustizia Dio concede il dono di una sapienza unica.

Forse la stessa dinamica spirituale è quella che coinvolge i protagonisti delle prime due parabole raccontate nel Vangelo di questa domenica. Sia colui che scopre il tesoro nel campo, sia chi trova la perla preziosa, sono persone adulte impegnate nelle proprie responsabilità: uno molto probabilmente lavorava il campo dove trova il tesoro e l’altro era in cerca di perle per mestiere. Il regno dei cieli non casca dall’alto mentre ci si trastulla in vite irresponsabili o mentre ci si approfitta degli altri senza far vivere nessuno, il regno dei cieli si incontra mentre ci si carica delle responsabilità che la vita ci chiede, quando scegliamo di essere adulti e cioè di distinguere il bene dal male per fare il bene. Chi vive così sa accorgersi di quanto valgano il bene e l’amore che Dio offre, del tesoro o della perla che meritano tutto ciò che possediamo, proprio perché, come Salomone, non vuole altro che vivere facendo il bene di coloro che gli sono affidati (in famiglia, sul lavoro, nella società, nella chiesa…).
Possiamo scoprire allora immersi nel laborioso e responsabile impegno quotidiano che alla radice e alla fine di ogni nostro gesto e di ogni nostro sentire c’è un mistero prezioso di amore che ci si offre, che diventa (come dice il salmo) la nostra consolazione, la nostra vita e l’intelligenza dei semplici. Con questi occhi riusciremo a vedere sul mondo e su di noi il disegno bellissimo di Dio, la sua volontà d’amore che ci conosce, ci chiama per essere come Cristo figli suoi, ci giustifica e ci conduce alla gloria: così san Paolo nel brano della lettera ai Romani proposto per questa domenica. Dio ha un disegno di amore per il quale (riprendendo le parabole) vale la pena vendere tutto ciò che si ha (cioè far girare tutta la nostra vita intorno a questo amore). E questo amore è così invincibile che Paolo arriva ad affermare che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio. Tutto.
Eppure esiste il male: anche l’ultima parabola, così simile a quella della zizzania, ci parla di pesci buoni e pesci cattivi insieme, ricordandoci il rischio serio di smarrirsi nella propria ricerca, incapaci di riconoscere il valore del tesoro e della perla. Ma se esiste il male come può concorrere tutto al bene?
Non certo attribuendo a Dio il male, per cui Dio manderebbe le sciagure o permetterebbe i nostri crimini per poi ricavare il bene. Voi cosa pensereste di qualcuno che compie o permette una strage per ottenere un qualsiasi bene sociale? Sembra la logica dei terroristi e Dio non è certo così. Dio non provoca né usa il male né lo vuole (mai!), lo vince piuttosto. Per questo il male cambia di segno, non perché diventa un bene (il male resta male), ma perché l’amore invincibile di Dio trova vie straordinarie per vincere ogni pena, ogni peccato, ogni morte, e rinnovare sempre la vita. Chi intuisce la profondità e la bellezza di questo amore, non può che vendere tutti i propri averi, anche fosse ciò che ha costruito in una vita, per godersi con gioia quello che vale più di tutto e ci fa dire con il salmista: la mia parte è il Signore, bene per me è la legge della tua bocca più di mille pezzi d’oro e d’argento. Più di tutte le ricchezze e le vittorie. Più di tutto, più della nostra stessa vita.
17 - Lug - 2020

XVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVI Domenica T.O.(A)

(Sap 12,13.16-19   Sal 85   Rm 8,26-27   Mt 13,24-43)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche questa domenica (e ancora sarà così per la prossima) leggiamo il tredicesimo capitolo del Vangelo di Matteo, in cui vengono concentrate le parabole del Regno in quello che è il terzo discorso (su cinque) del primo Vangelo.

Alla parabola del seminatore, che si chiude con i frutti abbondanti del terreno buono (ora il 30 ora il 60 ora il 100), fa seguito la parabola della zizzania. Proprio quando finalmente vediamo il grano biondeggiare abbondante (dopo uccelli, sassi e spine) e tutto sembra andare per il meglio, ci accorgiamo che nel campo cresce anche la zizzania. Dopo tante fatiche per accogliere la parola, per liberare il cuore dall’incostanza e dagli affanni, proprio ora che potevamo raccogliere qualche frutto, dobbiamo vedere il campo infestato dalla zizzania? La reazione dei servi è comprensibile: vuoi che andiamo a toglierla? Vogliamo i frutti buoni e niente altro. La risposta data dal padrone del campo sembra riecheggiare quanto leggiamo nella seconda lettura (pochi versetti della lettera ai Romani, ancora al capitolo ottavo): non sappiamo come pregare in modo conveniente, non sappiamo, cioè, nemmeno cosa chiedere. Se infatti cercassimo di estirpare la zizzania, continua la parabola, rischieremmo di perdere anche il grano buono.
Il punto è che il grano buono, il seme, la parola, deve crescere e portare frutto proprio in mezzo a quelli che non sono figli del Regno. Per chi è la parola che accogliamo e annunciamo? Per chi è la nostra vita spesa in opere di giustizia e di pace? Per chi è la testimonianza della chiesa, se non per quelli il cui cuore è stato seminato da altre parole, buone o malvage (come nell’esempio della parabola)? Non solo non dobbiamo strapparli via, ma dobbiamo crescere vicino a loro e per loro.
Può capitare di sentirsi fuori luogo in mezzo a coloro che non sono figli del Regno, ma questo non è un problema per i cristiani, anzi le parabole del granello di senape e del lievito ci insegnano proprio la logica del Regno che pur essendo estraneo al mondo riesce a beneficarlo. Nella parabola del granello di senapa (che secondo i rabbini non poteva essere seminato nell’orto e quindi è fuori posto nel campo in cui cresce) proprio il seme che non doveva esserci, che è anche il più piccolo di tutti, offre riparo agli uccelli. E nella parabola del lievito, proprio ciò che è considerato avariato (perché il lievito si faceva con la pasta che cominciava il processo di deterioramento) è ciò che fa crescere tutto ciò al quale si mescola.
Non solo dunque non bisogna estirpare coloro che non sono figli del Regno, ma occorre offrire loro riparo e farli vivere tramite la testimonianza del Vangelo e una vita vissuta di conseguenza. Questi sono i desideri dello Spirito (lettera ai Romani) e questo è lo stile di Dio descritto nella prima lettura (libro della sapienza): la forza di lui è nell’indulgenza e nella cura perché spera (e questa speranza insegna agli uomini) che dopo il peccato giunga il pentimento e l’apertura al Dio che è pieno di misericordia, che compie meraviglie, che è lento all’ira e ricco nell’amore. Di tutte le cose lui si prende cura: di ogni cuore, qualunque terreno sia, e di ogni pianta, perché attende fiducioso e fedele che tutti si volgano a lui per avere la vita e diventino così grano buono.
10 - Lug - 2020

XV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XV Domenica T.O.(A)

(Is 55,10-11   Sal 64   Rm 8,18-23   Mt 13,1-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ascoltare e vedere, come anche comprendere ciò che vediamo e sentiamo, non è un’operazione ovvia, per cui se una cosa è davanti ai nostri occhi certamente la vedremo così come è. In effetti molto di ciò che vediamo, ascoltiamo e capiamo dipende da ciò che noi vogliamo vedere, sentire e comprendere. Le parole, ma anche la realtà che si pone davanti ai nostri occhi, non si impongono, si offrono davanti a noi e possono aprirci una comprensione nuova, ma ciò non accadrà se chi guarda non decide di vedere e chi ascolta non decide di voler sentire.

Parlare in parabole permette a Gesù di provare ad aggirare alcuni dei muri, delle precomprensioni, dei pregiudizi, che impediscono il nostro ascolto. Infatti se si fosse messo a parlare (nel caso della parabola del seminatore) della docilità all’ascolto della parola di Dio, tutti sarebbero stati pronti a dire di essere buoni ascoltatori (anche noi forse), invece parla di un seme e di diversi tipi di terreno e così, mentre ci concentriamo sulla logica del seme e delle condizioni del terreno, non poniamo in atto le difese che ci impediscono di prendere sul serio ciò che ci sta insegnando e cioè: se è vero che la parola è sempre in grado di portare il suo effetto (come ci ricorda il profeta Isaia nella prima lettura) è anche vero che questo effetto dipende dal cuore che la accoglie. E così il messaggio ci colpisce prima che possiamo trovare mille espedienti per non ascoltarlo: che terreno sei?
Nella parabola i diversi casi della crescita del seme ci portano a vedere una piantina sempre più alta, come se ogni volta potessimo sperare che sia quella buona. Se infatti il seme gettato lungo la strada viene portato via subito senza spuntare per nulla, quello gettato sul terreno sassoso spunta un po’ ma non dura, perché è senza radici. Allora guardiamo con speranza alla terza semina, quando la pianta cresce fino a che però non la vediamo soffocata dalle spine, per arrivare finalmente al seme che cresce dando frutto abbondante, anche se non sempre in egual misura. Forse il nostro cuore sperimenta tutte queste fasi e forse la parabola ci vuole insegnare che perché arrivino i frutti ci vuole la pazienza di occuparsi del terreno, perché, se il terreno è sgombro, poi il seme farà ciò per cui è stato gettato.
Magari a volte il nostro cuore è così duro che la parola non riesce ad attecchire in nessun modo, è come una strada battuta continuamente, che non lascia al seme alcuna possibilità. Altre volte si lascia fecondare, ma poi le sofferenze e le persecuzioni ci spingono a rifugiarci in altre parole e la parola seminata in noi si secca, incapace di produrre frutti. Altre volte ancora i germogli rigogliosi che nascono in noi vengono sommersi dalle preoccupazioni e dalle ricchezze, come se questi fossero piante più floride e robuste che rubano aria e nutrimento alla parola fino ad invaderci il cuore per intero. Altre volte infine la nostra è una terra buona che porta frutto abbondante, a volte trenta, a volte sessanta, a volte cento.
Ci ammonisce il Signore a vegliare sul nostro terreno, a chiederci come ascoltiamo e a che cosa facciamo spazio, ma forse ci suggerisce anche che non siamo condannati ad essere sempre la stessa terra, sappiamo cosa ci è di ostacolo per un ascolto autentico e sappiamo che la parola è efficace, possiamo dunque sempre sperare di essere un terreno buono o di diventarlo.
Le difficoltà non mancano (uccelli del cielo, sassi, spine…), ma la parola è potente e noi possiamo sempre scegliere di ascoltare. Vale per il nostro cuore quello che questa pagina straordinaria della lettera ai Romani (seconda lettura) dice per la creazione: le sofferenze (e le difficoltà) di oggi non sono paragonabili alla gloria futura. Tutta la creazione aspetta di vedere la rivelazione dei figli di Dio (i frutti che sapremo portare) e intanto soffre nel travaglio del parto attendendo la vita che sta in fondo al travaglio. Così anche noi soffriamo le doglie del parto (la fatica di rendere il nostro cuore un terreno capace di portare frutto), ma già sappiamo che ci attende l’adozione a figli, la redenzione del corpo, la pienezza della vita.
E così se è vero che la semina e la crescita sono faticose, come il travaglio è fatto di sofferenza e di paura, è vero anche che i frutti sono abbondanti e rigogliosi, come la gioia della nascita di un/a figlio/a fa dimenticare il dolore provato. E così con lo sguardo già fisso sulla messe abbondante, che Dio è capace di trarre dal nostro cuore minacciato, diciamo col salmista: tu visiti la terra e la disseti, la colmi di ricchezze. Coroni l’anno con i tuoi benefici, al tuo passaggio stilla l’abbondanza. Le valli si ammantano di messi: gridano e cantano di gioia! Questo è quello che possiamo sperare per il nostro cuore, perché la parola non ritorna a Dio senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata.
03 - Lug - 2020

XIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIV Domenica T.O.(A)

(Zc 9,9-10   Sal 144   Rm 8,9.11-13   Mt 11,25-30)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il giogo è l’attrezzo agricolo che si mette sul collo dei buoi (o di animali da tiro in genere) per far loro tirare l’aratro o altro. Serve a tenerli insieme, ma siccome pesa sul collo e costringe la testa in basso, ha assunto nel linguaggio comune un significato negativo, sinonimo di oppressione. Ma non ogni giogo è così. C’è un giogo oppressivo, che potremmo ricondurre a quello che Paolo in questo brano della lettera ai Romani chiama “dominio della carne”, che conduce alla morte, perché spinge a seguire i desideri che sorgono dalle nostre ferite, dalle nostre devianze e dall’illusione di poter saziare il bisogno di vita che proviamo divorando e accumulando cose e persone (questi sono i desideri carnali che portano alle opere del corpo, nel linguaggio di Paolo). E poi c’è un giogo liberante, qualcosa che ci lega e ci sta addosso non per schiacciarci e condurci alla morte, ma per darci vita e per resuscitarci, qualora dovessimo morire. Questo giogo che fa vivere è la vita secondo lo Spirito, cioè una vita vissuta sotto l’azione dello Spirito, soggiogati dalla sua azione liberante e benefica.

Proprio di questo giogo parla Gesù in questo bellissimo passaggio del Vangelo di Matteo: ci chiede di portare addosso la sua compagnia, la sua parola e il suo stile. “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Portare il suo giogo significa avere il suo cuore, essere dominati dal suo Spirito e quindi vivere la sua umiltà. Fare questo ci porterà ristoro.
Gesù attraversa la storia umile, come il re di cui parla la prima lettura tratta dal profeta Zaccaria. Un re giusto e vittorioso, che spazza via la guerra, che domina, ma con tutta umiltà, a cavallo di un’asina e non di destrieri imponenti. Un re umile che viene a visitare la figlia di Sion, cioè il resto povero e oppresso di Israele. Un re mite che viene per liberare un popolo di affaticati e oppressi e quindi non può spaventarli od opprimerli ulteriormente con manifestazioni di potenza e grandezza. Gesù ha vissuto proprio così e così si offre a noi: capace di dare ristoro a chi si sottomette al suo giogo, che comporta umiltà e mitezza. Egli si mostra come il Figlio che riceve tutto dal Padre: non vanta patrimoni o poteri propri, nemmeno la sua vita gli appartiene, ma tutto riceve dal Padre suo. Egli vive sotto il giogo del Padre, cioè avvinto e avvinghiato al suo amore, e vivendo di Lui e per Lui si offre a noi in tutta umiltà, come colui che nulla può da se stesso, ma tutto riceve e tutto dona.
Perché sono i piccoli a vedere in tutto questo una buona notizia e non i sapienti e i dotti? Perché i piccoli conoscono sulla propria pelle l’oppressione e la violenza dei potenti che quotidianamente gli tolgono la vita. Se Dio fosse un altro signore di questo genere, per di più fornito di poteri illimitati, sarebbe da fuggire e sicuramente da non servire. Invece quando Dio si mostra nel proprio Figlio, che si riceve umilmente dal Padre e si rapporta in tutta mitezza con i fratelli e le sorelle, i piccoli prendono fiato, cominciando a sperare di poter scambiare il giogo oppressivo del peccato (proprio) e della violenza (altrui) con un giogo liberante che li lega a chi non viola, non rapina, non umilia e non uccide, ma dona continuamente la vita.
E così Dio non è un altro dominatore potente da temere o da accontentare, come i grandi della terra vorrebbero provando a scimmiottarlo, ma è il Padre-madre misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, buono verso tutti, pieno di tenerezza. Questa è la gloria e la potenza che non si può tacere, una cosa sola con la sua fedeltà e la sua bontà, che accompagna ogni passo, rialza chi cade e fa vivere tutto. Davvero un giogo dolce e un peso leggero, per cui rendere lode e benedire il Padre dei cieli.
26 - Giu - 2020

XIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIII Domenica T.O.(A)

(2Re 4,8-11.14-16   Sal 88   Rm 6,3-4.8-11   Mt 10,37-42)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica ci consegna la fine del discorso missionario riportato dal Vangelo di Matteo al capitolo decimo. Purtroppo fra il Vangelo di domenica scorsa e quello di oggi ci sono dei versetti che non vengono riportati, ma che è bene ricordare. Gesù chiude il discorso sulla persecuzione (che abbiamo visto domenica scorsa) dicendo che lui non è venuto a portare la pace sulla terra, perché il Vangelo è segno di contraddizione che porta a schierarsi apertamente e questo causa divisioni (come ogni scelta decisa per il bene e la giustizia). Come se non bastasse, Gesù ricorda quanto già detto e cioè che queste sofferenze ci possono venire inflitte da quelli di casa, da quelli che amiamo, e quindi, potremmo allargare, dalla chiesa stessa quando cerchiamo di servirla. Proprio a questo punto ci ricorda che (e qui inizia il brano di questa domenica)  chi ama quelli della propria casa (gli intimi) più di lui non è degno di lui. Penso si possa tradurre così: il Vangelo deve valere per te più di tutte le relazioni che vivi, non perché puoi o vuoi smettere di amare, ma perché dovendo scegliere fra l’essere odiato da chi ami e il Vangelo, scegli comunque il Vangelo. Ed ecco il detto successivo: chi non prende la croce e mi segue non è degno di me. Cioè: la tua vita di ogni giorno (comprese le sofferenze che derivassero dalle persecuzioni di chi ami) deve essere sotto il segno della croce, cioè deve essere vissuta, compresa e agita alla luce del Vangelo e della speranza che la croce di Cristo ci dà. Gesù ha così la pretesa di dare senso a tutto, di dare forma a tutto, di dare fondamento e ordine a tutto: ogni amore, ogni azione, tutto ciò che siamo deve girare intorno al nostro cuore profondo, consegnato al Vangelo. E questo si fa evidente quando, qualsiasi cosa succeda, l’unica cosa che non siamo disposti a rinnegare è proprio il Vangelo.

Nella seconda lettura (ancora una straordinaria pericope della lettera ai Romani) Paolo esprime questo dicendoci che chi è battezzato è sepolto (ovvero è morto a ciò che era prima) e ora vive per Dio in Cristo Gesù, camminando in una vita nuova. Diventando credenti, cioè, cambia il nostro orizzonte e tutto ciò che siamo si riorganizza intorno ad altre priorità trasformandosi, come quando i bambini crescono e improvvisamente abbandonano i giochi e si interessano ad altro, riorganizzando la giornata, le relazioni e i discorsi: sono morti a ciò che era prima per nascere di nuovo. Durante la crescita accade molte volte. Questo processo sul momento comporta una perdita, ma si rivela come un guadagno incommensurabile: chi perde la vita per causa mia – continua Gesù – la troverà.
Il discorso missionario si chiude infine parlando dell’accoglienza di quelli che vengono inviati dei quali viene dato anche un singolare ritratto. Essi sono profeti, giusti (per il Vangelo di Matteo la giustizia è molto importante, perché indica l’osservanza profonda della legge e quindi della logica di Dio) e piccoli.
L’accoglienza avrà una ricompensa, perché Dio è generoso con chi dimostra di amarlo e questo non perché segua le nostre logiche meschine che facciamo favori a chi ce li fa, ma perché l’amore non sa resistere nel ricambiare l’accoglienza e il dono, quindi quando Dio si vede accolto da chi ama ricambia con grande abbondanza (come ci mostra il racconto della prima lettura che vede protagonista il profeta Eliseo), come un innamorato che finalmente si vede corrisposto.
Dio però sembra possa essere accolto (e quindi ricambiato nel suo amore che ci viene a cercare) proprio in quelli che Gesù manda, nei quali si accoglie Gesù stesso (e accogliendo Gesù si accoglie Dio). Può sembrare troppo facile, ma funziona proprio così. Dio vuole essere amato in quelli che manda, nei profeti e nei giusti, ma soprattutto nei piccoli con cui si identifica, per cui chi sa tendere l’orecchio alla testimonianza che i piccoli sanno dare, può accogliere la parola viva di Dio e ai suoi occhi si farà evidente la verità del Vangelo. Bisogna avere la saggezza della donna che riconosceva in Eliseo un santo e un uomo di Dio e quindi si riteneva onorata della sua presenza e voleva dagli uno spazio tutto per sé: essa ha accolto Dio stesso accogliendo lui, perché ha avuto occhi capaci di riconoscere chi era che lo mandava, e per lei è scaturita la vita là dove nemmeno l’aspettava più.
20 - Giu - 2020

XII Domenica T.O.(A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XII Domenica T.O.(A)

(Ger 20,10-13   Sal 68   Rm 5,12-15   Mt 10,26-33)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura di questa domenica ci presenta un brano (fra i più complessi da interpretare) della lettera ai Romani, nella quale Paolo ci parla di due inizi, simboleggiati da due uomini: Adamo e Cristo. Adamo è (simbolicamente) l’inizio dell’umanità e anche della rottura del rapporto con Dio che ci fa sperimentare la morte, Cristo invece è (realmente) l’inizio di una umanità nuova, liberata dal potere del peccato e della morte, perché in Cristo la potenza vivificante di Dio si è mostrata in tutto il suo vigore.

Ora, proprio la certezza del potere che Dio ha sulla morte e sul male, come anche sull’ingiustizia e l’oppressione (perché a tutto questo Gesù è stato sottoposto risultando vincitore), ci infondono fortezza e speranza nel momento in cui sentissimo che la nostra vita viene minacciata. Il profeta Geremia esprimeva questa speranza, nel momento in cui i suoi nemici si radunavano sperando di trarlo in inganno di prendersi la vendetta su di lui, affermando di avere a fianco il Signore come un prode valoroso, come se una guardia del corpo forte e addestrata girasse con noi per le strade di notte: non ci sentiremmo certo come se dovessimo girare da soli per quartieri malfamati, scrutando ogni ombra e sobbalzando ad ogni rumore. Il profeta, consapevole di questa presenza, affida a Dio la sua causa, certo che il giusto non verrà abbandonato. E quello che accade quando si affida a Dio la propria vita in pericolo viene cantato nel salmo: sono diventato un estraneo ai miei fratelli perché mi divora lo zelo per la tua casa, ma io mi rivolgo a te, tu volgiti a me nella tua grande tenerezza. Chi cerca Dio si fa coraggio perché sa che il Signore ascolta i miseri e non disprezza i suoi che sono prigionieri.
Sulla stessa linea sta quanto affermato da Gesù in questo brano di Matteo, che appartiene al grande discorso missionario (il secondo del primo Vangelo). Gesù insiste più volte sul fatto che non dobbiamo avere paura.
Non dobbiamo avere paura, perché ciò che è nascosto (magari le opere malvagie degli uomini e le loro intenzioni meschine) verrà alla luce, come verranno alla luce quali sono le opere della giustizia e chi le compie (avere questa speranza vuol dire però essere certi che Dio può sconfiggere le forze del male che minacciano il mondo e noi, anche se queste riescono a vincere non poche battaglie).
Non dobbiamo avere paura perché chi ci fa del male, anche potesse ucciderci, non ha il potere di toglierci la vita se rimaniamo in Dio (perché la vita vera non coincide con la morte del corpo: si può perdere la vita anche senza morire e si entra nella pienezza della vita proprio morendo).
Non dobbiamo avere paura, infine, perché agli occhi di Dio noi valiamo molto e lui non smette di custodirci e di condurci alla vita.
A volte la strada si fa difficile: odio, persecuzione, minacce fisiche, violenze, diffamazione o semplicemente l’isolamento e la derisione ci fanno sentire che vengono minate le fondamenta della nostra vita, che non abbiamo il potere né le capacità di difenderci, che siamo perduti. In questi momenti bisogna solo rimanere fermi nella certezza che il Signore libera il povero dalla morte e che conta ogni capello del nostro capo con un amore tenero che guarda con incanto e cura persino ciò che in noi continuamente si rinnova, come i capelli sulla testa o le unghie delle dita.
Questa certezza del suo amore, resa evidente da come affrontiamo le avversità e i pericoli, è la nostra testimonianza più efficace. Non confidare nelle logiche degli oppressori, nella manipolazione, negli espedienti, nei favori, nel potere e nel denaro, pur di difendersi e affermarsi, ma confidare in Dio preferendo rimanere nella verità e nella giustizia, costi quello che costi, perché così lui non ci rinnegherà e questa è tutta la nostra forza, quello che ci fa vivere veramente. La paura che non dobbiamo avere, infatti, non è l’emozione che sorge in noi davanti al pericolo (questa è incontrollabile e fisiologica), ma quella paura che ci porta a cercare strategie di difesa altrove smettendo di confidare in Dio, come se su di lui non si potesse contare, e smettendo di vivere secondo la sua Parola, come se non portasse da nessuna parte. Invece proprio il nostro modo di stare di fronte a chi pensa di farci del male o di toglierci la vita, senza rinnegare Dio e la sua Parola, diventa testimonianza efficace nell’amore potente di lui e rende credibile al mondo il Vangelo che ci ha fatto rinascere in Cristo, facendoci pregustare la sua vittoria su ogni morte e ogni pericolo.
13 - Giu - 2020

Corpus Domini (A)

Corpus Domini

Corpus Domini (A)

(Dt 8,2-3.14-16   Sal 147   1Cor 10,16-17   Gv 6,51-58)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il mistero della Trinità, che abbiamo contemplato domenica scorsa, ci mostra l’unica vita condivisa da Padre, Figlio e Spirito, intrecciati in relazioni inestricabili, libere e liberanti. Abbiamo visto che questa vita d’amore che lega i Tre in perfetta unità è offerta anche a noi, perché anche noi viviamo di relazioni inestricabili e libere con Dio e fra di noi. Il mistero del Corpus Domini, che celebriamo in questa domenica, può essere visto come l’evidenza del nostro coinvolgimento nella vita di Dio: come i Tre vivono l’uno con l’altro e l’uno nell’altro, così si offrono a noi, per vivere in noi e lasciarci vivere in loro, e questo accade corporalmente quando ci raduniamo per celebrare la cena del Signore e mangiamo il pane e il vino che realizzano la presenza di lui.

Nel Vangelo di Giovanni (al termine del lungo discorso sul pane di vita riportato al capitolo sesto) leggiamo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Nutrirsi del Signore vuol dire infatti farlo abitare in noi e allo stesso tempo abitare in lui, in una reciproca inabitazione che richiama in tutto e per tutto quella che c’è fra Padre e Figlio. L’unica vita che loro condividono viene offerta a noi e così anche noi la condividiamo con loro e fra di noi.
Per avere questa vita, però, occorre mangiare la carne di Gesù e bere il suo sangue. Che cosa significa questo? Ci possono aiutare le letture di questo giorno, cominciando dalla prima nella quale leggiamo: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore. Mangiare la carne di Gesù e bere il suo sangue dunque significa anzitutto fare nostre le sue Parole, vivere il suo Vangelo, non dimenticare l’opera di Dio, ma celebrarlo continuamente con la concretezza del nostro vivere. Mangiare Gesù significa vivere di lui (esattamente come siamo tenuti in vita e in forze dal cibo che mangiamo) ovvero vivere del suo mistero, del suo insegnamento, del suo amore, e assimilarlo al punto da farlo nostro. Come il cibo che mangiamo si trasforma in tessuti, organi ed energia, così la parola di lui, la contemplazione della sua vita, si trasforma in ciò che ci costituisce, nei nostri gesti, nelle nostre parole. Mangiamo lui per diventare lui.
La seconda lettura, poi, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, ci ricorda che mangiare la carne di Gesù e berne il sangue significa celebrare il gesto che lui ci ha lasciato in segno di perenne alleanza: il suo pane da spezzare insieme e il suo vino da bere insieme. Fare questo gesto rende presente il Signore tanto che noi possiamo mangiare di lui, nutrirci del suo pane e dissetarci del suo vino, e mangiando di lui, diventiamo capaci di ripetere il suo gesto nella vita, spezzandoci per altri e offrendoci loro come nutrimento (pane) e gioia (vino).
Ripetere il gesto di Gesù che lo rende presente, infine, fa della chiesa un corpo solo: poiché mangiamo un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo. Ciascuno è nutrito dallo stesso cibo che lo fa vivere e lo trasforma in Cristo stesso, per vivere nella propria vita le sue parole e i suoi gesti, ma questo avviene a tutti coloro che mangiano (e che mangiano insieme) e così tutti si trovano uniti in un’unica vita, proprio perché nutriti e sostenuti dall’unico Signore che li abita e li fa vivere.
E così torniamo a contemplare il mistero della vita condivisa che la festa della Trinità ci mostrava come proprio di Dio, ma questa volta lo contempliamo nella chiesa che è resa un’unica vita (un unico corpo) dal dono che Cristo fa di sé, venendo ad abitare corporalmente in ciascuno dei suoi e stringendoli così tutti in unità, tutti in lui e lui in loro.
05 - Giu - 2020

Santissima Trinità (A)

La Santa Trinità - Rupnik

Santissima Trinità (A)

(Es 34,4-6.8-9   Dn 3,52-56   2Cor 13,11-13   Gv 3,16-18)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il mistero della Trinità è il più semplice che esista, è ciò che conosciamo tutti già prima di nascere, perché ciascuno di noi comincia ad essere nel grembo di un’altra persona. Veniamo al mondo condividendo la vita, cresciamo solo se qualcuno si china su di noi, viviamo solo nella misura in cui ci stringiamo gli uni agli altri in relazioni che decidono chi siamo. Il mistero della Trinità non dice niente altro che questo: Padre, Figlio e Spirito vivono un’unica vita perché sono intrecciati dalle relazioni d’amore che li costituiscono. Tutti sanno come funziona, se qualcuno non lo ricorda, basta guardare i più piccoli.

Le letture di questa domenica però provano a farci affondare nell’abisso di questa vita condivisa da Padre, Figlio e Spirito, nella quale essi vogliono coinvolgere anche noi. E così per contemplare la vita che i Tre vivono la Scrittura ci parla dell’amore che essi ci rivolgono che poi è ciò che sempre si scambiano.
Il libro dell’Esodo per dire il nome di Dio, cioè per renderne presente il mistero, usa tutti i termini dell’amore. Dio è anzitutto misericordioso e pietoso, cioè sente per noi i moti profondi che noi attribuiamo alla tenerezza e agli affetti più intensi e viscerali, prototipo dei quali è l’amore di una madre per i figli ancora piccoli. Poiché sente questi moti profondi di affetto Dio è lento all’ira, ovvero paziente, capace di non aggredire, ma di lasciare all’altro il tempo di crescere e scegliere il bene, mentre lui continuamente secondo il bisogno dell’amato (qui sta la sua fedeltà) lo ricolma di vita e di doni (ricco nell’amore).
La pienezza di questo amore, che sorge dall’intimità di Dio stesso (potremmo dire dal suo “grembo”) e si rivolge a noi per farci vivere, si è avuta in Gesù. Lui è (per andare alla seconda lettura che riporta la conclusione della seconda lettera ai Corinzi) la grazia per eccellenza, cioè ciò che Dio dona per dare vita e gioia. Solo perché, però, ci è dato lo Spirito del Padre (cioè siamo resi partecipi dell’amore che Dio vive, come i bambini che nascono vengono resi partecipi dell’amore e delle relazioni che ci sono in famiglia), siamo capaci di riconoscere in Gesù la pienezza della vita e il segno più evidente dell’amore che il Padre ha per noi (come i bimbi piccoli sanno riconoscere i propri fratelli dagli altri, perché sono partecipi della vita e dei sentimenti dei propri genitori).
Nelle parole e nei gesti di Gesù, nella sua morte e nella sua resurrezione, noi vediamo e tocchiamo l’amore del Padre: misericordioso, pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà. Possiamo così ripetere con l’evangelista Giovanni: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede non vada perduto, ma abbia la vita eterna. E la salvezza sta proprio nel riconoscere nella vita di Gesù il segno dell’amore del Padre, potendo così vivere accorgendoci che il Padre si intenerisce per noi, si china, attende, offre continuamente la vita secondo il nostro bisogno, fino a che potrà farci entrare nella pienezza  dell’amore.

Davvero quello della Trinità è un mistero semplice. Si tratta solo di amore. Se ci sfugge, basta chiedere a quelli che amano e vivono dell’amore, a cominciare dai più piccoli.

30 - Mag - 2020

Domenica di Pentecoste (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

Domenica di Pentecoste

(At 2,1-11   Sal 103   1Cor 12,3-7.12-13   Gv 20,19-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il vento non si può vedere, ma se ne possono vedere gli effetti: le foglie che agitano, i capelli smossi, gli steli d’erba chinati tutti insieme nella stessa direzione come ad un misterioso comando. Così è dello Spirito di Dio. Questo invade la terra e tutto vive e si rinnova: è la vita che rinasce l’unica traccia dell’azione dello Spirito.

Il Signore Risorto è l’opera perfetta dello Spirito di Dio. Quello Spirito inafferrabile, le cui tracce vanno inseguite cogliendo la vita e la bellezza, ha dimorato sul Signore Gesù fin dal suo concepimento ma, ora, con la resurrezione, lo colma al punto tale che egli può donarlo ad altri: ricevete lo Spirito Santo. Nel dire questo Gesù alita sui suoi, fa uscire da sé il respiro, ciò che lo tiene vivo (perché chi non respira è morto), per mostrare che lui vive dello Spirito del Padre, di quello stesso Spirito che fa vivere tutto (dice il salmo: togli loro il respiro e muoiono, mandi il tuo Spirito e sono creati) e che ora prende dimora nei discepoli perché diffondano la vita sconfiggendo il male e la morte: a coloro cui perdonerete i peccati saranno perdonati.

Lo Spirito che fa vivere e porta la vita, lo Spirito di Dio che ora dimora nel Risorto che è la traccia più evidente della sua azione, viene effuso in abbondanza sui discepoli e li costituisce un corpo solo (la seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi) rivolto al mondo intero per testimoniare le grandi opere di Dio (la prima lettura tratta dagli Atti).
Non parlare la stessa lingua impedisce la comunicazione e la relazione, è anche indice di sospetto e spesso di divisione perché indica l’appartenenza a popoli diversi. Lo Spirito di Gesù che viene effuso però è capace, pur restando ciascuno della sua lingua e della sua cultura, di far capire tutti: ciascuno in ciò che ascolta coglie le grandi opere di Dio e sente tutto questo nella sua lingua, cioè nel linguaggio che gli è familiare e tramite il quale può capire. Nel racconto del secondo capitolo degli Atti contempliamo, così, la nascita della chiesa, creatura dello Spirito che spinge ad annunciare il Vangelo e ad accoglierlo, in modo che gli esseri umani si trovino riuniti in un’unica famiglia: quella di chi proclama Gesù come Signore.
E nessuno (ci dice il brano della prima lettera ai Corinzi) può fare questo, cioè riconoscere Gesù come Signore, se non sotto l’azione dello Spirito. Ma l’unico Spirito che agisce in ciascuno e ciascuna facendoci riconoscere Gesù come Signore, agisce in modo sempre diverso, per cui ogni credente viene plasmato dallo Spirito in modo unico, con doni, capacità, sensibilità, stili, storia, unici, fino al punto da poter dire che ciascuno (e ciascuna) è una manifestazione dello Spirito del tutto singolare. Come nessuna foglia è mossa dal vento nello stesso modo di un’altra, eppure noi vediamo l’intero albero agitarsi armonicamente come in una danza, così è per la chiesa: nessun credente è uguale ad un altro, tutti sono invasi dalla potenza dello Spirito in modo unico, eppure tutti vengono mossi insieme, rivolti gli uni agli altri, perché il dono che ricevono è per l’utilità comune, per la vita di tutti cioè.
Si comprende allora l’immagine del corpo usata da Paolo. Se è lo stesso Spirito che ci abita, che ci plasma come un dono unico da offrire a tutti gli altri, allora questo ci costituisce in una unità di vita, perché non possiamo essere noi stessi se non offerti agli altri e ricevendo il dono degli altri. E così pur essendo molti siamo un corpo solo e nessuna differenza di razza, di condizione sociale, di sesso, di istruzione o di altro tipo, ha più alcuna importanza, perché tutti siamo battezzati (quindi rimessi al mondo) in un solo Spirito e dissetati (tenuti in vita) da un solo Spirito, che ci invade solo per rivolgerci gli uni agli altri e così far vivere tutto. Tutto questo (se la chiesa si fa docile all’invasione dello Spirito altrimenti si perverte nel contrario di ciò che dovrebbe essere) diventa per il mondo un segno di speranza e di vita, traccia della presenza dello Spirito che fa vivere, evidenza della verità del Vangelo, corpo che rende visibile il Risorto.
23 - Mag - 2020

Ascensione del Signore (A)

Ascensione

Piccolo Eromo delle Querce

Ascensione del Signore

(At 1,1-11   Sal 46   Ef 1,17-23   Mt 28,16-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La festa dell’Ascensione ci immerge nel mistero di Dio, nel suo agire misterioso, nella sua logica. La rivelazione è compiuta, la vittoria di Gesù è totale: il male e la morte non lo hanno toccato. A lui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (così si legge nel Vangelo di Matteo), ora siede alla destra dei cieli al di sopra di ogni potere noto o ignoto (così potremmo tradurre il brano della lettera agli Efesini dove ci viene detto che lui sta sopra a Principati, Potenze, Forze e Dominazioni), tutto è sotto i suoi piedi, ma tutta questa potenza non si manifesta nella forza che schiaccia i nemici e costringe a sottomettersi a lui – così ragionano gli uomini quando ottengono una qualche vittoria -, la sua potenza si manifesta invece nel ritirarsi (ascendere al cielo) sottraendosi persino alla vista (una nube lo sottrasse ai loro occhi), così come fa Dio da sempre, facendosi mite e discreto per attrarre a sé non con la forza che schiaccia, ma con l’amore che fa vivere.

E così Gesù non se ne va, ma come il Padre – di cui ora condivide tutta la condizione gloriosa – si fa da parte, rimanendo vicino senza togliere spazio o libertà, ma abbandonando il centro della scena. Si fa capo di un corpo, la chiesa (lettera agli Efesini), che deve mostrare la sua presenza al mondo dando testimonianza di lui grazie al dono dello Spirito (come leggiamo nella prima lettura tratta dagli Atti degli apostoli). Gesù lascia il potere che gli è dato nelle mani dei suoi e li manda: dove porteranno l’annuncio e la testimonianza credibile del suo Vangelo gli esseri umani saranno sotto il potere di Gesù cioè avranno la vita. Gesù infatti non esercita il potere come i dominatori della terra, ma come i servi, perché il potere che gli è stato dato è quello di di far vivere gli altri non di dominarli, fino ai confini della terra.
Davvero chiediamo che Dio ci apra gli occhi per comprendere la speranza cui ci ha chiamato, la gloria che nasconde la sua eredità e la grandezza della sua potenza verso di noi che si concretizza nella fede e nella testimonianza, che rendono presente al mondo il Risorto. Nelle nostre mani di credenti il potere di Gesù, il suo tendersi verso le donne e gli uomini che faticano, che aspettano, che vivono in attesa di sapere da quale mistero di amore vengono e a cosa sono chiamati. Resta con noi il Signore, intrecciato con la nostra umanità e le nostre fatiche, minacciato dalle nostre inautenticità, senza che mai ci rinneghi, mostrato agli uomini dall’amore che riusciamo a vivere e che è in grado di confermare la verità dell’annuncio.
Davvero non possiamo stare a guardare il cielo, perché non troveremo lassù il Signore e perché lui non vuole che perdiamo tempo a “omaggiarlo” come si fa con i potenti del mondo, dobbiamo invece spenderci fino ai confini della terra, perché animati dal suo Spirito, possiamo renderlo presente non nominandolo o parlando di lui, ma dando testimonianza della sua vita e del suo amore in ciò che siamo, in ciò che gli altri possono vedere e toccare.
Così Dio agisce nel mondo, silenzioso, discreto, umile, condividendo ogni potere con quelli che ama, facendo spazio perché tutto e tutti abbiano la possibilità di crescere, vivere, amare. Non se ne va il Signore, resta presente, così come il Padre gli ha insegnato, nella mitezza, rinnovando la vita continuamente e in silenzio, fino a che un giorno si compirà ogni promessa e alla fine della storia tutto sarà in lui, che è il perfetto compimento di tutte le cose.