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26 - Feb - 2021

II Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

II Domenica di Quaresima (B)

(Gen 22,1-2.9.10-13.15-18   Sal 115   Rm 8,31-34   Mc 9,2-10)
Domenica 28 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nell’episodio della trasfigurazione, protagonista ogni anno di questa seconda domenica di quaresima, Gesù (che domenica scorsa ci appariva fragile nel deserto, affamato e tentato, alla ricerca del discernimento che doveva portarlo alla sua missione) mostra la sua identità: l’origine divina (cambia il suo aspetto e ha queste vesti bianchissime), il suo essere immerso nella storia della salvezza (dialoga con Mosè e con Elia), l’amore del Padre per lui dichiarato dalla voce che ordina di ascoltarlo, cioè di porre attenzione a quanto Gesù stava dicendo sulla propria morte e resurrezione.

Tutto questo accade su un monte. Come Elia aveva avuto un momento di rivelazione importante sul monte, come Mosè era salito sul monte per vedere Dio, come Abramo sale sul monte pensando di dover uccidere il proprio figlio e si trova ad ascoltare Dio, così Gesù sale sul monte con alcuni dei discepoli – forse quelli che avevano più difficoltà a comprenderlo – e mostra loro chi è. Nel vedere chi è Gesù però si svela anche chi sia il Padre, infatti se Abramo aveva pensato che Dio potesse volere che lui uccidesse il proprio figlio, qui è evidente che Dio è colui che non vuole la morte dei suoi fedeli e che, al contrario, è pronto a donare il proprio figlio, ma solo e sempre per dare vita: Gesù verrà ucciso ma Dio lo risusciterà.
Abramo impara sul monte a comprendere che Dio (diversamente dagli dei che lui conosceva) non vuole la morte e i sacrifici, vuole invece la vita (lo leggiamo nella prima lettura: non stendere la mano sul ragazzo e non fargli alcun male), ora Gesù ci fa vedere che, anche quando gli uomini scegliessero la morte, come è accaduto proprio con Gesù (che è stato ucciso dagli uomini e per volere di uomini), Dio è capace sempre di dare vita: Gesù viene risuscitato.
D’altra parte, come anche dimostra la perplessità dei discepoli,
noi, come Abramo comprendiamo meglio la morte, magari ci domandiamo che cosa significhi risorgere dai morti ma sappiamo bene cosa significa morire. Sul monte invece (in questo tempo quaresimale) possiamo scoprire la vita, ciò che è sempre presente ma si mostra solo se si sa guardare, ciò che le Scritture ci raccontano e ciò che, bellissimo, risplende sul volto di Cristo prendendo carne nella sua vita che ci rende evidente l’amore del Padre.
Persino la sua morte (come ci dice Paolo in questi pochi versetti della lettera ai Romani), che rimane ingiusta e un orrore compiuto dagli uomini, immersa nell’amore del Padre, diventa altro, diventa un dono d’amore così immenso che possiamo davvero sperare ogni cosa. Veniamo messi di fronte a un evento così straordinario da non riuscire nemmeno a crederci o dal balbettare cose fuori luogo, come Pietro, ma allo stesso tempo comprendiamo che è qualcosa di reale come lo è il cammino di Gesù che ha scelto di amare fino in fondo, anche dentro l’orrore e l’ingiustizia, purché noi potessimo vedere l’amore che ci è rivolto, perché ciascuno e ciascuna si scoprisse figlio prediletto e offrisse l’unico sacrificio che Dio cerca: quello della lode e dell’amore.
19 - Feb - 2021

I Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

I Domenica di Quaresima (B)

(Gen 9,8-15   Sal 24   1Pt 3,18-22   Mc 1,12-15)
Domenica 21 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il deserto (in cui Gesù sta per quaranta giorni tentato da satana) e il diluvio (di cui parlano sia la prima lettura tratta da Genesi che la seconda tratta dalla prima lettera di Pietro) hanno in comune il realizzarsi di condizioni così estreme da impedire la vita. Dovunque lo sguardo si dispieghi vede solo sabbia, se si è nel deserto, oppure solo acqua sotto la quale viene sommersa ogni cosa, se si è nell’arca dopo il diluvio. Sono luoghi aspri, condizioni estreme, ci portano faccia a faccia con la nostra fragilità, come digiunare a lungo, o vivere nella paura del contagio privati di tante relazioni, come capita a noi in questo tempo, immersi nelle difficoltà dell’oggi e nell’incertezza del futuro.

In questi luoghi estremi è facile sentire delle voci che ci tentano. Voci che, come è stato per le anime che avevano rifiutato di credere ai tempi di Noè (seconda lettura), ci spingono a non convertirci, a ritenerci nel giusto, cosicché il diluvio poi ci colga del tutto impreparati. Oppure voci che ci seducono convincendoci che Dio non si cura di noi e che, in fondo, non è importante: voci che separano (satana è il divisore) da Dio, dalla verità di noi stessi e dagli altri.
Eppure in questi luoghi estremi e minacciosi, che rischiano di farci errare senza riferimenti (quanto smarrimento in questo ultimo anno!), Dio opera la salvezza. Il diluvio non è la fine, ma un nuovo inizio, di fronte alla bellezza del quale Dio promette che non manderà più un altro diluvio. Il deserto poi è il luogo in cui Gesù affamato e assediato dalle voci, trova se stesso, il Padre e la decisione di iniziare la propria missione annunciando il Vangelo, come già Israele nel deserto era diventato il popolo prediletto di Dio accogliendone la parola e stringendo l’alleanza.
Oggi, come in quei primi giorni della missione di Gesù, la sua voce ci chiama a conversione mentre intorno a noi vediamo solo deserto e distese d’acqua, mentre dentro di noi si alzano le voci che ci fanno disperare o dubitare di Dio e del domani. Ci chiama a conversione in questo momento favorevole chiedendoci di saper vedere altro. L’acqua infatti distrugge, ma porta anche la vita, e il deserto è il luogo in cui si può ritrovare l’unico amore, quello di Dio, su cui si fonda tutto ciò che siamo e viviamo.
Guardiamo l’oggi allora, la durezza della situazione, entriamo nel deserto che ci è imposto, ma mettiamo a tacere ogni voce tranne una: “Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”. Nutrendoci di questa parola, sapremo che ogni situazione, per quanto estrema, nelle mani di Dio può essere luogo di salvezza. Non abbiamo bisogno di aggiungere mortificazioni a quelle che già ci sono inflitte dalle circostanze, possiamo invece vivere questo tempo alla ricerca di Dio, per convertirci con tutto il cuore a lui, che è capace di far fiorire il deserto e far rinascere la vita dalle acque, e per riconoscerlo così come il Signore che si fa vicino, fino a proclamare con Gesù: il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino. Oggi, adesso, in questo stesso deserto.
12 - Feb - 2021

VI Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

VI Domenica T.O. (B)

(Lv 13,1-2.45-46   Sal 31   1Cor 10,31-11,1   Mc 1,40-45)
Domenica 14 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Domenica scorsa abbiamo visto Gesù decidere di allontanarsi dal luogo dove in tanti avevano gustato la guarigione e la vita che usciva da lui. Aveva scelto di andare oltre, di lasciare un assoluto protagonismo alla parola del Padre che poteva salvare e liberare molto di più dei prodigi che lui poteva compiere. Ora però si trova davanti un lebbroso.

Aveva capito ciò che doveva fare, cominciava anche ad intuire il rischio che lo cercassero per i segni che compiva (quante volte nei Vangeli se ne lamenterà!), ma tutto questo si infrange davanti a questo uomo malato che lo supplica in ginocchio. La prima lettura, dal libro del Levitico, ci fa immaginare ciò che gli occhi di Gesù vedono: le vesti strappate, il volto coperto, le piaghe, la solitudine, l’impossibilità di stare con qualcuno, di partecipare alla preghiera. Ai suoi piedi un uomo sfigurato dalla sofferenza, diventato informe e invisibile, come se fosse morto eppure condannato a vivere, senza riposo.
E Gesù prova compassione. Il verbo che viene usato qui indica proprio la contrazione delle viscere (materne) che ci prende quando vediamo qualcuno del quale intuiamo il dolore, una compassione che ci fa sentire in qualche modo la sua fatica e ci fa muovere per alleviarla perché è come se quella fatica gravasse su di noi, proprio come accade alle madri (e ai padri) con i loro bambini, il dolore dei quali non possono tollerare. Neanche Signore può resistere a quel dolore e guarisce il lebbroso. Questa guarigione, però, si rivela subito un errore strategico in ordine a quello che Gesù aveva deciso di fare, perché non può entrare più in nessuna città e quindi la sua predicazione è ostacolata.
La guarigione di questo lebbroso diventa per Gesù un intralcio sulla via dell’annuncio, che invece doveva avere l’assoluto primato.
Nelle parole che Paolo scrive ai corinzi troviamo una dinamica simile: Paolo si raccomanda di non scandalizzare le persone con comportamenti che potevano essere presi per immorali o antisociali (ovviamente in base ai codici morali e sociali del tempo), perché questa “buona fama” dei credenti era fondamentale per poter annunciare. Non importava quale libertà i cristiani avessero raggiunto, ma non dovevano porre inciampi agli altri sulla via del Vangelo e quindi non dovevano far pensare loro che essere cristiani distruggesse ciò che loro ritenevano decoroso e buono. Si trattava in fondo di una compassione, cioè di un farsi vicini ai fratelli e alle sorelle ancora ignari della libertà del Vangelo, un atteggiamento opposto alla tentazione che a volte prende la chiesa quando si ritiene un clan di giusti che sanno sempre che cosa va fatto e guardano gli altri dall’alto verso il basso, senza alcuna reale comprensione per le fatiche e le bellezze della loro vita, senza la compassione che invece piega Gesù verso questo lebbroso.
Non ci è dato sapere se Gesù si sia pentito di questo gesto di pietà, ma se Marco ce lo racconta vuol dire che la prima comunità cristiana ha colto anche in questo episodio una buona notizia. D’altra parte lasciarsi toccare dal grido di chi soffre è ciò che Dio ha fatto fin dall’inizio dell’alleanza e così Dio viene reso presente proprio in questo coinvolgersi di Gesù con la sofferenza e il Vangelo, che per ora non può annunciare perché braccato dalle folle, si alza potente dalla dalla bocca del lebbroso e dalla vita che gli è stata restituita. E così, dopo aver deciso di dare spazio più che ai prodigi alla Parola, Gesù ne contempla la potenza: se anche lui non può parlare (anche quando non potrà più parlare), altri lo faranno per lui, altri la cui carne sanata in mille modi diversi mostrerà la compassione di lui, nella quale bellissimo si disegna il volto del Padre e si dipana il racconto dell’amore viscerale che lo abita.
05 - Feb - 2021

V Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

V Domenica T.O. (B)

(Gb 7,1-4.6-7   Sal 146   1Cor 9,16-19.22-23   Mc 1,29-39)
Domenica 7 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Gesù esce dalla sinagoga dove aveva zittito e cacciato uno spirito impuro ed entra in una casa. Entra nello spazio della quotidianità, delle relazioni, della vita reale fatta di problemi e piccolezze, delle gioie semplici del tempo condiviso che lega le persone. Il Signore Gesù non varca i palazzi del potere, i palcoscenici o i luoghi adibiti al sacro, entra invece nella casa delle persone semplici, che lavorano e hanno famiglia. In questo spazio, che è il nostro, comincia a combattere il male: caccia la febbre della suocera di Pietro quindi ingaggia una vera e propria lotta contro malattie e demoni. La porta della casa abitata da Gesù si spalanca e offre guarigione, liberazione, vita. Comincia dopo il tramonto del sole e poi al mattino presto (ha continuato per tutta la notte?) si ritira in preghiera.

Questa notte era stata forse come quella di Giobbe descritta dalla prima lettura di questa domenica: davanti a tanto dolore, a tanti bisogni degli esseri umani, il tempo che correva via, la sua stessa vita poteva sembrare a Gesù un’illusione, una spola del telaio che fa avanti e indietro continuamente. L’impresa di liberare tutti non era possibile, per un guarito ce n’erano un’infinità afflitti da altre sofferenze. “Ricordati che un soffio è la mia vita”: così Giobbe di fronte all’assurdo della sua malattia e forse così anche Gesù di fronte alla sofferenza del mondo. Semplicemente soverchiante.

Si raccoglie in preghiera. Poteva fermarsi nella casa di Pietro, farsi amare da quelli che beneficava, diventare il loro punto di riferimento, contare ogni giorno il bene fatto, godere di quello che poteva fare. Invece nel silenzio, lasciati insoddisfatti quelli che cercano solo un po’ di sollievo, decide di andare oltre.
Non è lui che salverà il mondo, non ciò che lui sa fare, nemmeno i prodigi che gli escono dalle mani. Sarà invece la parola che il Padre lo ha mandato a dire a salvare il mondo, perché questa parola leggera, che con tanta facilità cade a vuoto, ha la forza di far trionfare la vita sempre e comunque, anche dove la guarigione non può arrivare e il lieto fine non si dà. Questa parola fa suonare il silenzio e colora il buio. Deve andare altrove, così queste persone capiranno che non è il potere che lui ha che va cercato, ma la parola che lui lascia, l’unica che può portare davvero salvezza.
Come Gesù anche Paolo (nella seconda lettura) si dedica totalmente all’annuncio, rifiutando ogni vantaggio o riposo, pronto a farsi tutto a tutti pur di annunciare il Vangelo e salvare ad ogni costo qualcuno. “Tutto faccio per il Vangelo, per esserne partecipe anch’io”. Questo accade a chi, come Gesù, dopo tanta lotta contro il male comprende nel silenzio che ciò che porta infallibilmente la vita è proprio il Vangelo e così non si preoccupa più dei risultati raggiunti o di quanto bene si può misurare o vedere, ma passa oltre portando una parola che vuole arrivare ovunque, perché come il vento può infilarsi dentro ogni ferita, risanare ogni piaga, mettere in fuga ogni morte anche là dove nessuno se ne accorge. Così, mite e nascosto, Dio salva il mondo nello stesso modo in cui l’ha creato: parlando. Davvero grande è la sua potenza e la sua sapienza non si può calcolare.
29 - Gen - 2021

IV Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

IV Domenica T.O. (B)

(Dt 18,15-20   Sal 94   1Cor 7,32-35   Mc 1,21-28)
Domenica 31  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Gli esseri umani tendono a farsi di Dio un’immagine comoda in cui normalmente si possono riflettere e che li rassicura, era così con gli antichi che scolpivano idoli da gestire a proprio piacimento, è così per noi che proiettiamo su Dio i nostri desideri o i nostri bisogni. Il Dio vivo invece sfugge ad ogni immagine e proiezione, perché parla, dice di sé e chiama a sé. La sua parola però – almeno così sperimenta Israele nel deserto – non può essere ascoltata direttamente dagli esseri umani. Essa scava troppo a fondo, estirpa violentemente il male, fa crescere senza soste ciò che è buono: come di fronte a troppa bellezza o a troppo orrore gli esseri umani si difendono, perché è qualcosa che non si può reggere.

Allora Dio prende uno (o una) dal popolo perché dica le sue parole, così queste saranno suoneranno in una lingua nota e saranno a misura di chi le deve ascoltare. Come fanno le mamme quando parlano con i bambini piccoli e imparano a comunicare (nemmeno loro sanno come) con piccoli versi, per poi assumere il linguaggio misterioso dei piccoli che dicono le prime parole, trovando un nome nuovo alle cose e alle azioni. Come le madri, anche Dio è naturalmente poliglotta e così mette le sue parole in bocca ai profeti, perché parlino tutte le lingue e arrivino a chi le ascolta e, come accade ai bambini, insegnino in modo elementare un linguaggio che diventa una lingua capace di descrivere tutta la realtà.
In questo brano del Vangelo di Marco Gesù è il profeta che insegna con autorità, superiore a tutti gli altri, perché è più evidente che ciò che dice viene da Dio: è evidente per il modo in cui insegna, per la vita che vive e che rispecchia perfettamente quanto insegna, ma soprattutto è evidente nei frutti che porta, perché la sua parola fa vivere, guarisce e libera dai tanti spiriti impuri che ci tengono prigionieri (paura, orgoglio, giudizio, gelosia, odio, divisioni, disperazione, avidità, violenza, ingiustizia: in una triste e lunga lista che potremmo continuare). Un esempio di questa liberazione (anche se molto distante dal nostro tempo) ci è offerta nella seconda lettura, troppe volte letta come una specie di disprezzo del matrimonio e di esaltazione della condizione celibataria. In realtà Paolo, quando dice che chi non è sposato ha meno preoccupazioni perché può pensare solo al Signore (rivolgendosi in modo particolare alle donne perché queste sposandosi finivano a tutti gli effetti sotto il dominio del marito), denuncia il rischio di relazioni ricattatorie e soffocanti, in cui qualcuno esercita il potere su qualcun altro. Questo tipo di relazioni si può avere fra marito e moglie, ma anche fra genitori e figli, sul lavoro e anche nei conventi. Paolo insegna dunque a tutti la libertà: nessuna relazione deve dividerci il cuore (che non è affatto diviso quando si ama qualcuno perché amare il prossimo e amare Dio sono la stessa cosa) significa che non si deve essere in potere di nessuno. Se finiamo infatti per vivere in modo da accontentare qualcuno, finiremo per farci un’immagine di Dio funzionale ai padroni che vogliamo servire o agli spiriti impuri che ci tengono soggiogati (e che spesso ci spingono ad accettare il padrone di turno), mentre essere liberi ci permette di ascoltare la parola che Dio dice perché ci salvi e ci conduca come un gregge al suo pascolo dove nutrirsi e riposare. Che il Signore zittisca (Taci!) ogni spirito impuro che parla in noi per ascoltare finalmente solo ciò che lui ha da dire e trovarci a godere tutta la bellezza della sua libertà.
22 - Gen - 2021

III Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

III Domenica T.O. (B)

(Gio 3,1-5.10   Sal 24   1Cor 7,29-31   Mc 1,14-20)
Domenica 24  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Prima che la quaresima arrivi ad interrompere il ritmo del tempo ordinario avremo modo di leggere tutto lo straordinario primo capitolo del Vangelo di Marco. Oggi cominciamo con la pagina che avvia la vita pubblica di Gesù. Giovanni viene arrestato e Gesù, che aveva ricevuto il battesimo da Giovanni, comincia la sua missione: annuncia il Regno e chiama i primi quattro discepoli.

Lo troviamo in cammino percorrere le strade di Galilea, come il profeta Giona (nella prima lettura) aveva percorso le strade della grande città di Ninive. Entrambi profetizzano dicendo le parole di Dio ed entrambi chiamano a conversione. Tramite loro, cioè, Dio si fa presente dicendo che è arrivato il tempo opportuno, l’occasione che vale l’attesa di una vita, perché questo è il tempo in cui possono essere perdonati e volgersi verso Dio ricevendone vita e benedizione. Non è una denuncia dei peccati, non è un’accusa o una condanna: è piuttosto l’annuncio di una cura in cui nemmeno si osava sperare. Gesù infatti dichiara che è arrivato il tempo in cui Dio può regnare: nei cuori, nelle relazioni, ovunque. Questa è la buona notizia, il Vangelo: è arrivato il momento in cui Dio viene a prendere possesso del suo regno. Si fa vicino, rompendo la solitudine e il vuoto che troppo spesso ci minacciano, ci parla e ci guarisce.
Non è una notizia fra tante, ma l’unica che il nostro cuore attende, come quella che i nostri vecchi ci raccontano di aver ascoltato increduli alla radio o urlata per strada: la guerra è finita! Forse similmente ci colpirà quella della fine della pandemia. E magari proprio questo periodo che tutti speriamo finisca quanto prima, ci può insegnare ad essere tesi, attenti, alle voci che oggi ripetono l’annuncio di Gesù (o di Giona): il regno di Dio è vicino, convertitevi! Smettete di vivere le cose belle che avete, affetti, famiglia, beni, lavoro, gioia e dolore (così ci suggerisce la brevissima seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi), come se fossero fini a se stesse, come se fossero il nostro tutto: in realtà esse questo promettono altro, chiamano altro, aprono ad altro e quando questo altro dovesse venirci offerto bisogna essere pronti, altrimenti a nulla ci varrebbe tutto il resto.
Le due coppie di fratelli che il Vangelo ci presenta erano pronte. Lasciano il padre (ovvero ogni garanzia e collocamento sociale) e le reti (ovvero lavoro e sostentamento) per andare dietro a Gesù: ciò che facevano e le relazioni che vivevano attendevano una notizia, che permettesse loro di entrare nella pienezza della vita. Quando questa arriva, non indugiano e subito (quante volte questo avverbio nel testo di Marco!) vanno dietro al profeta. Che la buona notizia di Dio che si fa vicino per regnare ci colga così: pronti, immersi nella vita con l’orecchio teso ad ascoltare la chiamata che Dio ci rivolge e che sempre ci porta oltre, a guarigioni impensate, rinnovamenti incalcolabili e itinerari mai percorsi.
Per questo con il salmista diciamo: fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri, guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, fammi capace di riconoscere la tua voce e di seguirti, subito.
16 - Gen - 2021

II Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

II Domenica T.O. (B)

(1Sam 3,3-10.19   Sal 39   1Cor 6,13-15.17-20   Gv 1,35-42)
Domenica 17  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia di oggi ci mostra Gesù fare i suoi primi passi. Dopo il battesimo il Battista lo addita come Agnello di Dio e due di quelli che erano i suoi discepoli lo lasciano per seguire Gesù. Il Vangelo di Giovanni non ci parla della chiamata dei primi discepoli, ci dice invece che questi si misero sulle orme di Gesù fidandosi della parola di un altro: il Battista. In qualche modo accade qui quello che la prima lettura ci racconta per il giovane Samuele: Eli lo istruisce su come ascoltare e su che cosa dire per accogliere la chiamata di Dio e appropriarsi delle sue parole (non ne avrebbe lasciata andare a vuoto nemmeno una, annota la Scrittura). Samuele ha avuto bisogno di un altro per incontrare il Signore, così i due discepoli del Battista e lo stesso accade poi quando Andrea, che era uno dei due, indica a sua volta il Signore a Pietro, suo fratello.

I discepoli dunque si mettono a camminare dietro il Signore e lui si volta a guardarli: chi cercate? Sembra che voglia far emergere in loro i desideri che li muovono. Perché vanno dietro a Gesù? Questa parola è per noi adesso: che cosa cerchiamo? La risposta dei discepoli è, sorprendentemente, una domanda: dove dimori? In questo modo sembrano dire che cercano il luogo in cui lui si ferma, vogliono cioè stare con lui. E il Signore li porta con sé. L’unico motivo valido per seguire Gesù deve essere Gesù: se è altro a guidarci prima o poi ci perderemo. Se non è la sua bellezza, il fascino delle sue parole, ma altro che ci spinge a cercarlo, non lo capiremo e magari lo tradiremo proprio quando avremmo dovuto restare. Anche noi abbiamo sentito qualcuno indicarci Gesù come il Signore e abbiamo mosso i primi passi dietro di lui. E allora anche noi, magari, desiderosi di attingere un po’ della sua vita e della sua bellezza, abbiamo chiesto: dove dimori?
Forse in questa liturgia, prendendo in prestito i versetti del sesto capitolo della prima lettera ai Corinzi (seconda lettura), Gesù ci risponde che dimora in noi e nei fratelli che ci dona. Ci ripete che il nostro corpo e quello altrui sono sue membra, che il suo Spirito ci abita e abita i nostri fratelli come in un tempio.
Non troveremo Gesù nella solitudine eroica delle illuminazioni o nel coinvolgimento conturbante delle emozioni che ci fanno sentire una qualche presenza di Dio, né lo troveremo nelle nostre prestazioni o impeccabilità, ma lo scopriremo con facilità nel corpo, quasi sempre affaticato e ferito, che ci sta di fianco e nel nostro corpo: nella concretezza del nostro vivere, cioè. In questa prossimità faticosa e imperfetta, il Signore dimora, chiama, si fa conoscere. Ci serve solo di ricordarci a vicenda “ecco l’Agnello di Dio” in modo da seguirlo subito, senza perdere nemmeno un momento, senza lasciare andare a vuoto nemmeno una delle sue parole.
E quando riusciremo a riconoscerne la presenza in noi e in quelli che ci dona, anche noi, come Pietro, ci sentiremo fissati da lui e magari lo ascolteremo darci un nome nuovo, uno che solo lui usa per noi, come si fa in famiglia con i più piccoli, un nome che dice l’intimità di chi si riconosce e dimora nello stesso luogo, ricordando per tutta la vita il giorno e l’ora in cui questa intimità è cominciata.
09 - Gen - 2021

Battesimo del Signore (B)

Presepe dal Messale

Battesimo del Signore (B)

(Is 55,1-11   Da Is 12   1Gv 5,1-9   Mc 1,7-11)
Domenica 10  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa bellissima festa che chiude il tempo di Natale e apre il tempo ordinario (il più bello di tutti, perché segno efficace della vita nella quale il mistero insondabile di Dio si dipana nell’ovvio dei giorni feriali) ci riporta continuamente all’acqua, presente in tutte le letture e richiamata come un simbolo potentissimo, perché senza acqua non c’è vita e perché tutti nasciamo uscendo dalle acque del grembo materno. Il battesimo cristiano è proprio un uscire dalle acque, dal grembo stesso di Dio, per rinascere come figli suoi.

La prima lettura (dal profeta Isaia) sembra un fiume in piena di parole che vogliono sommergerci per portarci là dove possiamo dissetarci, saziarci, gustare la bontà, scoprire il sovrabbondante perdono di Dio e l’abbondanza della sua amicizia, perché, qualsiasi tradimento o povertà ci appartenga, la parola di Dio è capace di portare a termine ciò che promette: la sua vita in noi che zampilla come una fonte inesauribile. L’acqua è dunque il segno potente della Parola di Dio, del suo Amore, del suo Spirito che invade il mondo rendendo testimonianza al mistero di Dio e portando i suoi frutti di vita.
L’acqua viene citata anche nel testo (per nulla facile) della prima lettera di Giovanni che leggiamo come seconda lettura: chi crede ovvero chi ama (perché credere in Dio, amarlo e amare i fratelli sono una sola cosa) è rigenerato da Dio, infatti chi crede nell’amore di lui, chi lo conosce, ne rimane sommerso e trascinato tanto che non può non amare. L’acqua, lo Spirito e (aggiunge Giovanni) il sangue ci danno testimonianza di questo mistero: della nostra rinascita che ci fa vincere il mondo.
Il fatto che venga citato il sangue ci dice, però, che rinascere e vincere il mondo non è indolore, ci dice – in fondo – che non si tratta di una favola o di parole consolatorie, ma della vita vera, che sempre si gioca nella carne e nel sangue. E questo si fa evidente nei pochi versetti in cui Marco ci racconta il battesimo di Gesù.
Gesù si immerge nell’acqua per convertirsi, come fanno tutti gli altri. Non deve abbandonare i peccati, ma deve abbandonare la sua vita e iniziarne un’altra. Si immerge nell’acqua per consegnare se stesso al Padre e perché lui lo faccia rinascere. E davanti a Gesù che si consegna, Dio, come in un incontenibile moto di amore, come un innamorato che dopo tantissimo tempo vede offrirsi chi attende da una vita, dichiara tutto il suo amore: questo è il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento. E Gesù rinasce da questa Parola che dichiara la sua identità profonda, ciò che lui è e a cui rimarrà fedele anche quando questo lo porterà all’orrore della croce.
Il Vangelo di oggi già richiama quel giorno perché Marco usa il verbo “squarciare” solo due volte: qui, quando si squarciano i cieli e Dio parla riversando sul figlio il suo Spirito, e quando Gesù muore gridando e il velo del tempio si squarcia. Non bastano l’acqua e lo Spirito a dare testimonianza al mistero d’amore del Padre, ci vuole anche il sangue, perché si tratta della vita reale.
Gesù rinasce come Figlio, consegnato all’amore del Padre e invaso da questo amore, e muore come Figlio, consegnato a questo amore fino all’ultimo respiro, fino al grido disperato di chi si sente abbandonato. E in quel momento il mondo (inteso come nella seconda lettura, cioè come tutto ciò che fa morire) è definitivamente sconfitto: il grido di Gesù squarcia il velo del tempio, entra cioè nel grembo stesso di Dio e Dio ascolta questo grido, rimettendo al mondo il Figlio, di nuovo, infallibilmente. E così, il dolore (ma non c’è parto senza travaglio) e la morte, insieme all’acqua e allo Spirito, ci testimoniano l’unico mistero della vita che viene rinnovata: in Cristo, in noi, in tutto.

 

04 - Gen - 2021

Epifania del Signore

Epifania - p.M.Rupnik

Epifania del Signore

(Is 60,1-6   Sal 71   Ef 3,2-3.5-6   Mt 2,1-12)
Mercoledì 6  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

A volte crediamo che la luce si imponga, come fanno le nostre anonime lampade artificiali che violano in un attimo il buio naturale della notte, illudendoci che le giornate si possano prolungare all’infinito o che il sonno non debba più essere necessariamente notturno. Pensiamo così che, se al buio accendi la luce, quella semplicemente si vede. Invece la bellissima solennità di oggi e le letture che in essa vengono proclamate, mescolano le tenebre e la luce, perché queste sì vengono separate fin dal primo giorno della creazione, ma senza che nessuna delle due soccomba: la luce splende nelle tenebre, come qualcosa di cui bisogna accorgersi, non come qualcosa che cancella il buio.

“La tenebra ricopre la terra e nebbia fitta avvolge i popoli, ma su di te risplende il Signore e la sua gloria appare su di te”. Così leggiamo nel profeta Isaia (prima lettura) che come un visionario, un folle o un bambino immerso nelle sue fantasticherie, immagina gloria e splendore là dove tutto è nebbia. Come capita risalendo certe strade di collina, che ripide si allontanano dalla piana immersa nella nebbia e improvvisamente, dietro una curva, scoprono il cielo sereno e tutti i colori del mondo. Certe luci non si impogono bisogna cercarle: si può pensare che la nebbia sia ovunque, che abbia vinto tutto, che non nasca niente di nuovo e rimanere così fermi, oppure si possono avere occhi acuti e osservare nel cielo scuro della notte il brillare di una stella e seguirla.
Così i magi ci appaiono maestri di speranza e di desiderio. Scrutano le tenebre cercando una luce. Viaggiano, chiedono e alla fine offrono doni, grati di aver visto ciò per cui valeva la pena tentare l’avventura: vedono l’umanità rinata in questo bambino, luce in un mondo di tenebra in cui regnano potenti irresponsabili e violenti, avvinti dal potere che li domina. Riconoscono la speranza di Israele, loro che erano pagani, e per primi vedono le tenebre raccorciarsi. Dio invade la storia.
Questa promessa di luce è per noi. Il mistero del Vangelo (seconda lettura), che fa rinascere ogni essere umano, li costituisce tutti fratelli e sorelle abbattendo ogni diversità, mettendo fine ad ogni violenza e ad ogni devastazione per avviare un mondo dove regni la logica di Dio. Tutto questo non accade con violenza, imponendosi, quasi per magia, eppure accade in noi e intorno a noi, proprio ora, mentre la tenebra ricopre la terra e nebbia fitta ricopre i popoli. Sta a noi scegliere se avere gli occhi di Erode, che ama le tenebre che lo cullano nella sua meschinità, o avere gli occhi dei magi, rivolti, attenti, assetati, pronti a cogliere il brillio della luce là dove tutto sembra spento. E la luce era la vita degli uomini.
01 - Gen - 2021

II Domenica dopo Natale

Presepe dal Messale

II Domenica dopo Natale

(Sir 24,1-4.12-16   Sal 147   Ef 1,3-6.15-18   Gv 1,1-18)
Domenica 3  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

In questa seconda domenica dopo Natale, il mistero dell’incarnazione viene ripreso direttamente, ripresentando lo stesso Vangelo del giorno di Natale: il prologo di Giovanni. Stavolta però la prima lettura (dal libro del Siracide) fa come da trama al testo del quarto evangelista, quasi che questi lo avesse riscritto. La Sapienza, che sta da sempre davanti a Dio, che ha con lui un rapporto unico e ne dice le parole, ora ha piantato la tenda in mezzo agli esseri umani, ha posto le radici in mezzo al popolo e ha preso dimora nell’assemblea. Questa Sapienza è quella Parola (questo significa “Verbo”) che sta da sempre presso Dio, una cosa sola con il Padre (è nel suo grembo, ci dice Giovanni) e allo stesso tempo rivolta (ogni parola riflette chi parla ma è inviata a chi l’ascolta) a coloro che Dio ama. Questa Sapienza-Parola non solo è rivolta, non solo pianta la propria tenda in mezzo al popolo che Dio si sceglie, ma diventa carne, diventa umana, al punto da poter dire che Dio, che nessuno ha mai visto, ora è stato visto.

Possiamo però fare un ultimo passo. La Sapienza ha posto la dimora in mezzo al suo popolo: questo per gli israeliti significa il dono della legge, parola uscita dalla bocca di Dio (quella legge, ci dice Giovanni, data per mezzo di Mosè). La legge poi diventa carne nella vita di coloro che la osservano e così la Sapienza vive nel popolo, prende dimora nell’assemblea dei santi. Giovanni aggiunge poi che per mezzo di Cristo, cioè la Parola fatta carne, abbiamo la grazia e verità, cioè abbiamo la radice stessa della legge e di ogni dono di Dio: il suo amore e la sua vita.
Accogliere questa vita ci fa rinascere come figli di Dio, abitati da quello Spirito di sapienza (così il brano della lettera agli Efesini) che ci fa accorgere del suo amore, ce lo fa desiderare e corrispondere “nella fede in Dio e nell’amore verso tutti i santi”. Lasciandoci sedurre dall’amore che è stato riversato nei nostri cuori, quella grazia e quella verità che abbiamo visto nella carne di Cristo, noi siamo come lui figli del Padre e così chi ci vede amare vede il Padre. Non per niente nella sua prima lettera Giovanni scriverà, riprendendo solo una parte del versetto scritto nel prologo, “Dio nessuno l’ha mai visto” per continuare poi non parlando del Figlio incarnato ma di noi: “ma se ci amiamo gli uni gli altri l’amore di Dio in noi è perfetto”. Per vedere e toccare ciò che la carne di Gesù fa vedere e toccare, ora bisogna immergersi in mezzo a quelli e quelle che sono rinati da lui e che sono animati dallo Spirito di lui.
Dio illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati e quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi!