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06 - Nov - 2020

XXXII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXXII Domenica T.O. (A)

(Sap 6,12-16   Sal 62   1Ts 4,13-18   Mt 25,1-13)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nelle ultime tre domeniche dell’anno liturgico leggeremo l’intero capitolo 25 di Matteo che riporta l’ultimo grande discorso di Gesù (secondo il racconto del primo evangelista). Proveremo quindi a commentare le letture di queste settimane seguito, come se fossimo in un’unica lunga domenica, lasciando aperte domande e prospettive che tenderanno all’ultima domenica che, con la solennità di Cristo Re, chiuderà l’anno liturgico.

Questa domenica il Vangelo ci propone la parabola delle dieci vergini. Dieci ragazzine (perché le vergini erano le ragazze che non erano mai state sposate, quindi poco più che bambine, considerate le usanze del tempo) aspettano di notte che arrivi lo sposo per entrare alla festa. Che si addormentino (con la facilità e la serenità dei giovanissimi oltretutto!) è più che normale. In modo del tutto simile può accadere che noi, travolti dalle vicissitudini della vita, dagli impegni, dal tumulto interiore, dagli eventi del nostro tempo, ci assopiamo, smettiamo di pensare allo sposo che viene, non teniamo presente che stiamo aspettando il Regno, non scrutiamo la realtà per cogliere la presenza di Dio, piangiamo per i morti (come ci dice Paolo nella seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Tessalonicesi) come fanno quelli che non conoscono la resurrezione (non solo soffrendo la mancanza, come è ovvio, ma non sperando nulla). Può succedere a tutti, anzi, seguendo la parabola delle dieci ragazzine, succede proprio a tutti.

Poi lo sposo arriva e qui si vede la differenza fra le ragazzine sagge e quelle stolte, si scopre cioè se il nostro vivere, pure a volte inevitabilmente assopito, è stato saggio o stolto. Sembra che l’unica differenza sia come le ragazzine si sono attrezzate per andare ad aspettare lo sposo: cinque hanno pensato a ciò che stavano facendo, l’hanno valutato, hanno impiegato tempo ed intelligenza per decidere cosa poteva servire e quali potevano essere gli imprevisti, altre – per leggerezza o per scarsa considerazione di ciò che stavano per fare – sono andate così come erano, senza pensare ciò che stavano facendo né ricercare ciò che poteva essere di aiuto per riuscire nell’impresa.
Viene mostrato con questa immagine quale atteggiamento esistenziale (cioè quale sapienza) bisogna avere: vivere desiderando di capire, impegnandoci per provvedere ciò che può servire per il bene che ci viene chiesto. La sapienza, in fondo, altro non è che un modo di guardare la vita capace di scoprire le tracce del bene possibile e ciò che serve per farlo crescere. Nella prima lettura (tratta dal libro della Sapienza) si dice che per chi desidera raggiungere questo atteggiamento, per chi lo desidera, è facilissimo trovarlo. Non è richiesta alcuna fatica: è la sapienza stessa ad andare loro incontro in ogni progetto, a farsi trovare per la strada o seduta alla porta.
Chi la cerca, dunque, trova la sapienza, e così non va ad aspettare lo sposo senza olio, cioè vive procurandosi ciò che serve per l’incontro essenziale della vita, per scoprire Dio nell’oggi, nelle persone, nell’interiorità e un giorno nella pienezza del Regno. Anche si addormentasse o perdesse di vista, nella frenesia dei giorni, quale è il motivo per cui viviamo e cosa ci attende, chi ha cercato la sapienza l’ha trovata certamente e così si è procurato ciò che è essenziale per vivere ed entrare alla festa. Basta svegliarsi dal torpore e andare.
La parabola non ci dice che cosa sia quest’olio che bisogna procurarsi (le interpretazioni sono le più disparate), forse non era nell’intenzione dell’evangelista indicare cosa esso rappresenti, forse l’intento della parabola è semplicemente suscitare in noi il desiderio della sapienza che ci fa vivere consapevoli di che cosa stiamo aspettando e ci istruisce a non rimanere sprovvisti del necessario. Credo sarà la parabola che leggeremo domenica prossima a dirci quale olio non dobbiamo trascurare di portare sempre con noi. Per oggi invece ci viene insegnato (usando le parole del salmo) a cercare, ad avere sete, a desiderare, a vegliare per pensare come prepararci all’incontro con Dio che ci attende sempre, un incontro colmo di benedizioni, cibi e gioia, perché la sua grazia vale più della vita. Oggi dobbiamo lasciarci colmare dal desiderio dell’incontro: solo così non trascureremo di avere con noi l’essenziale perché ciò che tanto attendiamo si realizzi.
30 - Ott - 2020

Solennità di tutti i Santi

Santi

Solennità di tutti i Santi

(Ap 7,2-4.9-14   Sal 23   1Gv 3,1-3   Mt 5,1-12)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

In questa solennità che sostituisce la XXXI domenica del tempo ordinario, la chiesa celebra l’opera di Dio: quella già perfettamente compiuta nella schiera smisurata dei santi e delle sante e quella ancora in atto in ciascun essere umano che vive su questa terra. Il brano dell’Apocalisse riportato nella prima lettura, infatti, si chiude con un grande canto di lode intonato dagli angeli davanti al trono dell’Agnello, un grande canto di lode per i 144000 (12x12x1000: questo numero così composto indicava una grande quantità di salvati provenienti da Israele) e per la moltitudine immensa di quelli che, pur avendo dovuto attraversare la grande tribolazione (la vita cioè con tutto quello che comporta), erano stati salvati. Viene, cioè, lodata l’opera meravigliosa di Dio, che si realizza e si mostra in modo del tutto singolare in coloro che, riempiti dal suo amore, si lasciano condurre alla pienezza della vita. Dio non viene quindi lodato in se stesso per le sue qualità o perfezioni, ma per quelli che lui conduce alla vita e alla santità.

Sembra impossibile che Dio compia tutto questo in noi e viene da chiedersi col salmista: chi potrà salire al monte del Signore? Chi starà nel suo luogo santo? Nessuno: dovremmo rispondere. Perché nessuno ha mani pure e tutti abbiamo idoli. Il brano della prima lettera di Giovanni (seconda lettura) ci rassicura però: se è vero che ancora non vediamo la vita che ci attende, sappiamo però di essere figli di Dio, riempiti del suo amore. Non gustiamo ancora quello che siamo, ma sappiamo di esserlo e quindi possiamo vivere nell’attesa di un dono certo e prepararci: come i bambini la sera di Natale, come i fidanzati alla vigilia delle nozze, come una donna che entra in sala parto. Giovanni ci dice infatti che vivere nella speranza di questo dono ci purifica, ci prepara cioè al dono stesso, perché la speranza della vita ci fa allontanare da ogni morte e ci fa cercare, giorno dopo giorno, le tracce di quello che ci è stato promesso.
Questa vita segnata dalla speranza viene descritta nel Vangelo di oggi tramite la straordinaria pagina delle beatitudini, infatti chi (anche in profondità nascoste e inespresse) sa di essere figlio di Dio vive secondo un’altra logica, perché vede tutto alla luce del dono che lo attende, e comincia così a godere fin d’ora (anche se solo nella speranza) della pienezza della vita. Per questo costoro non cedono alla smania di sentirsi ricchi o felici, non hanno bisogno di imporsi e non sanno darsi pace davanti alle ingiustizie. Essi non legano chi fa loro del male al proprio errore e non mistificano né manipolano, ma costruiscono la pace e sono disposti persino a farsi perseguitare pur di custodire la giustizia e testimoniare il l’amore.
In tutti questi e in noi, quando facciamo nostra la logica di Cristo, si mostra l’opera straordinaria di Dio per cui tutto l’universo si inchina e lo loda. Egli si rivela come il Dio della vita, mentre ci salva non per i nostri sforzi o per le nostre capacità, ma per la forza travolgente del suo amore sovrabbondante che ci conduce lontano da ogni male e da ogni morte. Affidarsi a Dio e confidare nella sua salvezza non significa dunque abdicare alla nostra libertà e alla nostra responsabilità aspettando che lui ci sistemi la vita mentre noi cerchiamo di essere più bravi possibile, ma vivere pienamente tutto quello che siamo e, poi, di fronte alla nostra pochezza, al fallimento, al male a volte irrimediabile che ci troviamo fra le mani e di fronte alla morte da cui non sappiamo difenderci, rimanere comunque in piedi davanti a lui certi che egli ci donerà senza esitazione tutta la vita che non riusciamo a darci né a meritare, ma che il nostro cuore desidera proprio perché lui ce l’ha promessa.
23 - Ott - 2020

XXX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXX Domenica T.O. (A)

(Es 22,20-26   Sal 17   1Ts 1,5-10   Mt 22,34-40)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Da domenica scorsa il Vangelo di Matteo ci racconta le dispute che Gesù si trova a fare con farisei, sadducei e altri (domenica prossima interromperemo la serie per la solennità dei Santi), ma prima – se ricordiamo – avevamo avuto una serie di parabole che Gesù racconta, usando l’immagine della vigna o del banchetto, per mettere in guardia il suo popolo (ma dobbiamo pensare queste parole rivolte a noi) dal rischio di perdere il dono che veniva loro fatto: dire sì ma non lavorare nella vigna, oppure lavorarci ma come usurpatori che distruggono, oppure ignorare l’invito al banchetto della vita che Dio prepara.

Dopo aver tanto ammonito il suo popolo dal rischio di perdere il dono che viene loro fatto, comincia una serie di tentativi per mettere alla prova Gesù e farlo cadere (il primo domenica scorsa). Questo ci dice che le parabole di Gesù non sono state accolte, anzi, chi le ha ascoltate si è indurito e si è così stancato di sentirsi ammonire in questo modo che vuole zittire Gesù con ogni mezzo. Può succedere anche a noi (come singoli o come chiesa) proprio perché sappiamo che le esigenze del Vangelo sono alte e molto poco rassicuranti, vogliamo che il Signore stia zitto, sappiamo già tutto quello che dobbiamo fare e siamo a posto: casomai i cattivi sono altri.
Nel Vangelo di oggi, però, il trabocchetto del dottore della legge è un dono per noi e per tutti, perché – in mezzo ai tanti dubbi che il mondo ci pone, in mezzo alle difficoltà di una realtà tanto complessa, in mezzo persino alle spaccature ecclesiali su valori e modalità di azione – Gesù stesso ci dice da che cosa dipende tutto, ci dice cosa dobbiamo osservare e seguire se vogliamo vivere secondo Dio.
E ciò da cui dipende tutto è l’amore. Risponde alla domanda su quale sia il più importante dei comandamenti come avrebbe risposto ogni pio israelita: amare Dio con ogni parte di sé, con ogni aspetto della propria vita, cioè passando ogni attimo al suo cospetto e riconoscendo lui come la Bellezza cui tendere e per cui vivere. Gesù però non si accontenta e aggiunge un altro comandamento, che lui dice essere simile al primo. Che comandamento ci può essere anche solo lontanamente paragonabile a quello dell’amore per Dio così totalizzante e pieno? L’amore per il prossimo, cioè per chi ti sta vicino. La citazione è tratta dal Levitico e si riferisce espressamente allo straniero che viene ad abitare nella tua terra, ma si può estendere a tutti coloro che abbiamo di fianco. Gesù dischiude così ai nostri occhi il fondamento stesso della vita cristiana: non si può amare Dio senza amare gli altri, l’amore per lui e l’amore di lui in noi ci spingono verso tutti, ci fanno fermare se hanno bisogno, chinare, soccorrere, condividere.
Non è un’idea, una filantropia, un vago sentire, ma una vita operosa (ne parlavamo domenica scorsa cercando di dire che cosa possa significare dare a Dio quello che è di Dio). La prima lettura ci aiuta ad essere concreti: non molestare lo straniero, non maltrattare quelli che sono in condizione di debolezza, non approfittarti della condizione di bisogno di chi ti chiede per guadagnarci sopra, preoccupati di restituire anche quello che ti spetterebbe tenere se questo permette all’altro di vivere. L’amore si misura sul bene fatto, sui gesti che hanno dato vita, sulle parole che hanno aiutato. L’amore che viviamo si misura sulla vita di chi ci sta di fianco: vive di più o muore accanto a noi?
Credere in Dio e non essere desiderosi ed impegnati ad amare così, equivale ad essere senza Dio. Al contrario (lo vedremo al capitolo 25 del Vangelo di Matteo) chi non crede in Dio ma ama il prossimo, sta servendo Dio stesso e verrà da lui accolto come un amico. D’altra parte (facciamo così un cenno alla seconda lettura) che cosa è che rende credibile il nostro annuncio? Cos’è che fa risuonare la parola senza nemmeno parlarne? La vita vissuta nell’amore dell’altro, vita che sorge dall’amare Dio come unico Signore. Solo chi vede i cristiani amare così, crede che il Vangelo sia vero.
Allora ogni volta che non riusciamo a fare il bene e a far vivere la sorella o il fratello che abbiamo vicino può venirci in aiuto la preghiera del salmista perché possiamo attingere l’amore che ci serve dall’amore per Dio e richiamarlo così al nostro cuore: Ti amo, Signore mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mia rupe in cui trovo riparo, mio scudo, mio potente baluardo. Concedimi la vittoria di amare come ami tu, di compiere gesti di bene, di dire parole che nutrano, dammi la forza di far vivere tutti, sempre, come te.
16 - Ott - 2020

XXIX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIX Domenica T.O. (A)

(Is 45,1.4-6   Sal 95   1Ts 1,1-5   Mt 22,15-21)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Chi è l’unico Signore, colui al di fuori del quale non c’è alcun dio? Potremmo riscrivere così le parole della prima lettura (tratta dal profeta Isaia) e porle come una domanda che risuoni in ciascuno di noi: chi è l’unico cui riconosciamo il diritto di regnare su di noi?

I farisei, che tengono consiglio per cogliere in fallo Gesù e gli mandano i propri discepoli con gli erodiani perché gli tendano una trappola, pensano di avere Dio come unico Signore, tanto è vero che scelgono come banco di prova per Gesù una questione tecnica “da gente religiosa”, una disputa relativa alla legge. Si chiedevano se fosse lecito maneggiare denaro che ha impressa l’immagine di un uomo che si fa Dio e se bisognasse riconoscergli il diritto di riscuoterlo. Non si trattava solo di una questione politica (già grave perché pagare le tasse voleva dire in qualche modo collaborare con gli invasori) ma religiosa: riconoscere un altro come signore significava tradire la fede in Dio.
I farisei erano convinti di avere Dio come unico Signore eppure hanno la moneta in tasca e sono pronti a complottare contro Gesù per metterlo in difficoltà con l’inganno. Chi è veramente il loro unico Signore? Perché da quello che fanno non sembra essere Dio.
Facciamoci anche noi la stessa domanda. Per sapere chi è il nostro unico Signore non dobbiamo guardare le nostre convinzioni e i nostri buoni sentimenti, né il nostro ruolo civile o ecclesiale, ma le nostre azioni. Ciò che facciamo dice chi siamo molto più di tutto il resto. Nella prima lettura Ciro è al servizio di Dio senza nemmeno saperlo, quasi a dire che Dio può esercitare il suo regno di vita sul mondo tramite ogni essere umano che viva secondo giustizia e faccia bene ciò che è chiamato a fare, anche se questa persona nemmeno lo conosce. Al contrario saranno gli uomini devoti e dediti alla legge a volere e ottenere la morte ingiusta di Gesù.
Ciò che facciamo ci fa vedere chi serviamo. L’esordio della prima lettera ai Tessalonicesi (seconda lettura) ce lo conferma: che il Vangelo sia stato accolto da questi credenti con potenza dello Spirito e profonda convinzione si vede nella operosità della loro fede (dal fatto cioè che il loro credere in Dio si traduce in opere), nella fatica della loro carità (perché chi crede ama e amare non è mai una dichiarazione di intenti ma un fattivo affaticarsi per il bene altrui) e nella lotta che si deve fare per tenere ferma la propria speranza in mezzo alle diverse vicissitudini, scegliendo di comportarsi come chi davvero attende la pienezza della vita.
A questo punto proviamo ad ascoltare la risposta di Gesù alla domanda che gli viene fatta: è lecito pagare il tributo a Cesare? Prima di rispondere Gesù chiede loro di mostrargli la moneta. Quando la tirano fuori, Gesù fa loro una domanda: di chi è l’immagine che è impressa sulla moneta? L’immagine è di Cesare, rispondono. Allora ridategli ciò che è suo, ma non dimenticate di dare a Dio ciò che invece appartiene a lui. Gesù sposta la questione dalle dispute politiche o religiose al cuore dell’esistenza umana: mette tutti davanti a Dio perché si chiedano chi vogliono servire, di chi portano impressa l’immagine.
Poiché uno solo è il Signore di tutta la terra, non è un problema dare ad altri ciò che spetta loro (tasse, rispetto delle leggi, lavoro, ecc…) purché si dia a Dio ciò che invece spetta a lui, anzi purché tutto ciò che si dà ad altri si dia come servi di Dio: cercando la giustizia, prendendosi cura degli altri, rispettando il bene di tutti, testimoniando la bellezza dell’amore. Dio non è geloso di ciò che diamo agli altri (al contrario: vuole che diamo loro tutto di noi), purché lo diamo tenendo lui come Signore e, quindi, donando tutto nel modo in cui lo farebbe lui. Non si tratta di essere impeccabili o inappuntabili, ma di spendersi (come una moneta) amando (cioè portando impressa nel nostro povero vivere quotidiano l’immagine dell’amore di lui), così come ha fatto Gesù, che ha reso a Dio tutto se stesso, amando i suoi fino alla fine, e così ci ha mostrato l’immagine del Padre impressa in ogni fibra della sua carne e spesa in ogni attimo della sua vita.
09 - Ott - 2020

XXVIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVIII Domenica T.O. (A)

(Is 25,6-10   Sal 22   Fil 4,12-14.19-20   Mt 22,1-14)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Regno di Dio (cioè la sua opera di vita e di salvezza) è come un banchetto di nozze. Così comincia il Vangelo di questa domenica. Non un banchetto qualunque, precisa Gesù, ma un banchetto da principe (perché si sposa il figlio del re): buoi, animali ingrassati, “un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (per usare le parole della prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia). Il Regno di Dio, il suo farsi presente nella storia e nella nostra vita, è descritto quindi come una festa meravigliosa, colma di abbondanza, di profumi e sapori buoni, un luogo di ebbrezza allegra, perché la morte (ogni morte) verrà eliminata, la vergogna scomparirà e ogni lacrima verrà asciugata.

In modo del tutto inaspettato, però, gli invitati ad un tale banchetto non vogliono andare, credono di avere di meglio da fare: chi il proprio campo, chi i propri affari. Alcuni sono talmente infastiditi dall’invito che percuotono e uccidono chi lo porta. Sembrerebbe assurdo, ma invece è l’ordinaria dinamica del dono d’amore. Quando infatti si ama qualcuno (vale per noi come per Dio) e gli si offre di condividere la nostra vita con quello che siamo, tale dono d’amore non giunge a buon fine (non si può fare festa!) se l’altro non l’accoglie (se non accetta l’invito). Anche Dio ci offre senza sosta la sua vita da condividere (la festa del suo figlio, le sue ricchezze), ma non può fare festa se noi non riconosciamo il valore del suo dono, se crediamo di avere di meglio da fare per vivere. E così la festa resta vuota e il dono sprecato.
Dio da parte sua non cessa di amare e di cercare, lascia però alle proprie scelte coloro che non sono degni dell’invito ricevuto. La loro indegnità non dipende dal fatto che siano cattivi (alla festa poi entrano buoni e cattivi ci dice la parabola), ma dal fatto che non vogliono essere amati perché incapaci di riconoscere nell’amore che gli viene offerto e nella vita che gli viene partecipata qualcosa che valga la pena di accogliere: non sanno dare valore cioè al dono che gli viene fatto. Dio li lascia a se stessi (continua la parabola), perché la libertà di ciascuno è inviolabile, e va a fare festa con quelli che sanno accogliere l’invito e sanno onorarlo (andare senz’abito nuziale vuol dire forse non aver compreso l’onore che ci è stato fatto). E se è vero (come meditavamo due domeniche fa) che è sempre possibile convertirsi e trovare un posto alla festa, è anche vero che il tempo perduto e l’amore non goduto ci fanno un danno incalcolabile e ci tagliano fuori dalla pienezza della vita (potremmo leggere così l’esercito che viene mandato a distruggere chi non accetta l’invito: semplicemente rifiutare i doni di amore non ci fa vivere).
Capita anche nelle relazioni umane. A volte qualcuno dimostra di non essere degno del dono che gli viene offerto: pensiamo ad un marito che picchia la moglie o ad un adulto che abusa di un giovane o di un amico che tradisce gravemente l’affetto di chi gli si è affidato. Il dono di amore che era stato loro rivolto non viene accolto ma calpestato come se l’altro e la sua vita non valessero nulla: in questo caso non si può far altro che constatare che non ne erano degni e offrire ad altri il proprio amore.
Paolo, al contrario, in questi pochi versetti della lettera ai Filippesi, ci testimonia di aver compreso il senso profondo di ogni dono, che non è avere qualcosa o avere potere su qualcuno (sono allenato a tutto, alla sazietà come alla fame), ma contemplare nel dono l’amore dell’altro per onorarlo adeguatamente corrispondendolo e quindi festeggiare la vita che si condivide. Questo è proprio lo sguardo che Dio ci chiede di avere quando ci offre il suo Regno e con esso ogni dono: contemplare nella bellezza di quanto ci viene dato il suo amore per ricambiarlo e godere così la festa della vita che ci unisce a lui. Allora potremo cantare con il salmista: non manco di nulla, l’anima mia è rinfrancata, non temo alcun male, davanti a me hai preparato una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghissimi anni.
01 - Ott - 2020

XXVII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVII Domenica T.O. (A)

(Is 5,1-7   Sal 79   Fil 4,6-9   Mt 21,33-43)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ancora una volta il Vangelo, per la terza settimana di seguito, ci parla di una vigna in cui bisogna lavorare. Se due settimane fa l’accento era posto sulla bontà del padrone che dona a tutti gli operai, anche a chi ha lavorato un’ora soltanto, quello che serve loro per vivere, la settimana scorsa ci veniva messa di fronte la risposta diversa dei due figli: uno che dice no e poi va a lavorare e l’altro che dice sì ma non ci va. Oggi ci troviamo di fronte dei vignaiuoli che sono al lavoro per i motivi sbagliati, similmente agli operai della prima ora che rimangono delusi della loro paga e similmente al figlio che non comprende il privilegio di poter lavorare nella vigna e che dice un sì senza consistenza.

Questa volta Gesù parla della vigna facendo evidentemente riferimento al suo popolo e riprendendo così un’immagine (cara al Primo testamento) che nella prima lettura del profeta Isaia ci viene ripresentata in modo ricco ed estremamente poetico, quasi la vigna fosse un’innamorata custodita e curata in ogni modo, ma incapace di rispondere all’amore ricevuto con frutti adeguati. Nella parabola di Gesù, però, l’attenzione non è sulla vigna che non produce frutto, ma sui vignaiuoli, cioè su coloro che sono stati mandati dal padrone a lavorare nella vigna che lui ha tanto a cuore.
Forse Gesù si riferisce qui ai capi di Israele che non l’hanno saputo custodire, oggi potremmo applicarlo a tutti coloro che hanno responsabilità ecclesiali o civili, ma anche a ciascun credente al quale viene affidata la vigna del Signore, cioè l’umanità intera, le persone che ha di fianco, la propria vita e l’ambiente in cui tutti viviamo. Dio ha piantato la vita ovunque, l’ha custodita (la circondò con una siepe) e sorvegliata (ha costruito una torre), ma i servi cui l’ha lasciata non si sono preoccupati di mostrare a lui i frutti di ciò che lui aveva piantato, anzi hanno malmenato e ucciso tutti quelli (compreso il Figlio) che, per conto del Signore, venivano a ricordare che ciò che era stato loro affidato doveva  prosperare (questo significa fare frutti).
Non serve lavorare nella vigna, allora, senza ricordare che questa è stata piantata da Dio e che ci è stata affidata perché viva e sia feconda. Inutile dire sì, inutile persino andare a lavorare, inutile faticare sotto il sole fin dalla prima ora, se invece di servire perché tutto cresca, deprediamo perché tutto muoia: la nostra vita e quella intorno a noi. Se facciamo così, Dio interverrà, questo è il monito di Gesù, toglierà i doni fatti dalle mani di chi li distrugge e li darà a chi saprà custodirli. Ciascuno di noi, cui è affidato un tralcio della vigna del Signore, non può fare a meno di domandarsi di fronte a questa parola se stia facendo vivere ciò che gli è affidato o se lo stia devastando.
Forse la seconda lettura (ancora la lettera ai Filippesi) ci aiuta a sintonizzare il cuore sugli atteggiamenti giusti per assumere il lavoro della vigna, così come ha fatto Gesù (per avere i suoi sentimenti, leggevamo domenica scorsa): non angustiatevi (perché l’angoscia porta a fare violenza pur di sentirsi rassicurati) ma presentate a Dio tutti i vostri bisogni e lasciate che i vostri pensieri siano  pieni solo di ciò che giusto, nobile, vero, amabile, mettendo in pratica quanto ascoltato. Lasciandoci riempire cioè dai doni che Dio fa e dalle parole che li accompagnano, potremo godere di quella pace che viene da Dio e che non toglie le fatiche e i timori, ma ce li fa affrontare sapendo che la vita non dipende da noi, che la vigna non è nostra, ma che noi dobbiamo solo prendercene cura perché viva e così rallegri noi e il Padre che tanto la ama.
Oggi è la festa di Francesco di Assisi, che ha vissuto proprio così, sperimentando e offrendo una pace non priva di sofferenze e tormenti, ma, in mezzo a questi, solidamente radicata nella certezza di essere immerso nell’amore del Padre che tutto fa vivere e che lo chiamava a voler anche lui far vivere tutto e tutti, ad essere un vignaiolo gioioso e operoso, circondato da tutto ciò che cresce e vive grazie al quotidiano e umile impegno di ogni giorno.
25 - Set - 2020

XXVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVI Domenica T.O. (A)

(Ez 18,25-28   Sal 24   Fil 2,1-11   Mt 21,28-32)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Quando Dio guarda i suoi figli e le sue figlie, quando guarda ciascuno di noi, non emette mai un giudizio, né ci dà un’etichetta che ci classifichi. Quando Dio ci guarda vede il nostro cammino, vede i nostri slanci, le nostre cadute, il bene che abbiamo saputo fare, i tradimenti. Quando ci guarda Dio vede la trama della nostra storia e non dà per scontato il finale, anche quando noi non siamo nemmeno capaci di pensare che possiamo cambiare o aprici al nuovo. Così (rileggendo la prima lettura del profeta Ezechiele) Dio spera che il malvagio si converta trovando la via che lo fa vivere e quando vede che il giusto invece se ne allontana, comincia a sperare che si ravveda, indicandogli (come canta il salmo) la via giusta: continuamente, insistentemente, senza stancarsi.

Nel Vangelo questo modo di essere di Dio ci viene dipinto nell’immagine del Padre che dice ai figli di lavorare nella propria vigna (richiamandoci la parabola di domenica scorsa). Un figlio dice di no al padre, ma poi si pente e va. L’altro invece dice di sì, ma poi non va a lavorare. Ogni genitore ha fatto questa esperienza, sentendo il cuore allargarsi quando trova il proprio figlio o la propria figlia a fare ciò che prima si era rifiutato di accogliere. A volte lo fanno quando ci sembrava di non crederci più, ma poi quando li vediamo compiere il bene ci accorgiamo che in fondo l’avevamo sperato, perché sappiamo che i nostri figli hanno la capacità di scegliere il bene. Così dobbiamo immaginare il cuore di Dio, colmo di compiacimento per quelli che ama quando si pentono di averlo rifiutato. Sembra di sentirlo mormorare sollevato: lo sapevo…discreto e felice come un genitore che piano si allontana dalla porta, dopo aver visto il proprio figlio immerso nel compito che aveva detto non avrebbe fatto. Dio crede in noi. Sempre. E spera sempre che il nostro no diventi sì.  Anche il rimprovero duro di Gesù ai sacerdoti e agli anziani dice tutta la speranza del Padre: li scuote perché si accorgano che non stanno lavorando nella sua vigna e nel fare questo aspetta che il no diventi un sì.
Egli vuole infatti (e qui merita di essere letta e meditata con cura la seconda lettura che ci comincia a proporre la lettera ai Filippesi) che abbiamo gli stessi sentimenti di Cristo, che non si è mai rifiutato di lavorare nella vigna del Padre (così potremmo rileggere la sua obbedienza senza limiti fino alla morte di croce), non preoccupandosi del proprio interesse o di voler primeggiare, quanto invece di amare e di chinarsi sull’altro. Lavorare nella vigna del Padre, infatti, altro non è che assumere la postura di Cristo, che si fa più piccolo dei suoi fratelli e delle sue sorelle per poterli servire in modo che essi possano vivere. Per questo Dio lo ha esaltato, perché il suo sì è stato tale da condurre alla vita chiunque lo voglia. A lui possiamo guardare e lui possiamo seguire, per essere figli e figlie capaci di lavorare nella vigna del Padre. E se il suo sì è stato pieno e senza cedimenti al contrario del nostro così inaffidabile e stentato, il suo amore e il suo mettersi al nostro servizio ci mostrano ciò che il Padre vede e cioè che nessuna storia è già decisa, nessun no è definitivo, nessun cammino impedisce di fare il prossimo passo in un’altra direzione. Il Padre lo sa, lo spera e ci attende. “Fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”.
19 - Set - 2020

XXV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXV Domenica T.O. (A)

(Is 55,6-9   Sal 144   Fil 1,20-24.27   Mt 20,1-16)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna in momenti diversi (siamo arrivati al capitolo 20 del primo Vangelo) ci dice qualcosa su Dio, ma soprattutto su di noi e su che cosa è necessario per vivere secondo la logica del Regno, ovvero da fratelli e sorelle. Domenica scorsa la parabola del servo spietato ci mostrava un Dio che abbuona i debiti, contro il proprio interesse, e ci metteva in guardia contro il nostro senso di giustizia che, pure a ragione, pretende il debito degli altri. Sapere di essere sulla stessa barca di tutti, sapere di essere uno/a cui anzitutto è stato rimesso un debito enorme, ci può aiutare a porci di fronte all’altro/a in debito secondo la logica del Regno: abbuonando il debito stesso, come Dio fa con noi. Meglio guadagnare il fratello o la sorella, che i pochi spiccioli che ci deve o l’affermazione di una giustizia che poi non è mai così certa.

La parabola di questa domenica sembra proseguire sulla stessa linea: Dio non sa fare i conti, non sa guadagnare, non sa capitalizzare, né ottimizzare le spese. Non sembra un bravo imprenditore, oppure è il migliore, secondo altre regole da quelle che abbiamo imparato noi. A ciascuno che si mette al lavoro per lui (lavoro che, come ci descrive la lettera ai Filippesi, dovrebbe coincidere con il nostro stesso vivere totalmente teso a portare frutto per qualcuno) Dio dà un salario che permette di vivere. Non misura il tempo trascorso al suo servizio, non si preoccupa della quantità del lavoro svolto, si preoccupa che chi ha voluto lavorare nella sua vigna abbia la vita.
Questo perché (bellissima la prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia) le sue vie non sono le nostre vie e i suoi pensieri non sono i nostri. Noi facciamo classifiche che vogliamo scalare e cerchiamo il guadagno personale, come l’affermazione di noi stessi tramite le nostre prestazioni e le opere che lasciamo. Abbiamo bisogno di porci sopra gli altri e di saper guadagnare di più o fare le cose meglio o vivere meglio di loro e avere più successo. Tutto questo ci lascia in bocca il sapore della soddisfazione e crediamo che Dio ragioni così, o meglio: non è più importante ciò che Dio pensa perché ci siamo costruiti vita e salvezza con le nostre mani mentre gli altri, almeno alcuni, sono certamente meno meritevoli e questo ci rassicura sul nostro valore, costruito però sull’allontanamento e la differenza con l’altro.
Questa pagina di Vangelo, al contrario, ci insegna di nuovo la fraternità (e la sororità): Dio non vuole che nessuno si perda, vuole che tutti siano nella sua vigna (li cerca in continuazione, a tutte le ore, non gli importa se l’impresa vale il guadagno) e vuole che tutti finiscano la giornata con quello che serve per vivere. Vuole che tutti vivano. A noi è chiesto di assumere lo sguardo del Padre: riconoscere l’altro come uno che non va perduto, che va portato ad ogni costo al lavoro nella vigna perché non senta l’amarezza e la solitudine, che va gratificato con ciò che serve per vivere, perché sopra ad ogni giustizia, al di là di ogni logica contabile, non vogliamo perdere nessuno e vogliamo che tutti vivano.
Si può avere questo cuore, solo quando ci si accorge che Dio ha trattato noi con questa stessa generosità, che non abbiamo alcun vanto davanti a lui, che le opere che abbiamo fatto o le relazioni che abbiamo non sono frutto anzitutto del nostro impegno e delle nostre capacità, ma un dono, un lavoro nella vigna che ci è stato offerto quando nessuno ci aveva preso, come se fossimo noi gli ultimi a dover meritare una ricompensa. Così saremo i primi, cioè quelli che pensano con i pensieri di Dio e percorrono le sue vie, quelli che hanno il suo cuore la cui grandezza smisurata (come ci invita a riconoscere il salmo) si vede nella misericordia e nella pietà, nell’amore e nella tenerezza, che sono l’unica giustizia che lui conosca, l’unico capitale che valga la pena accumulare o contare.
11 - Set - 2020

XXIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIV Domenica T.O. (A)

(Sir 27,33-28,9   Sal 102   Rm 14,7-9   Mt 18,21-35)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il capitolo diciottesimo del Vangelo di Matteo, la cui lettura abbiamo cominciato la settimana scorsa, si conclude con la parabola del servo spietato. Si tratta di una parabola straordinaria costruita per suscitare lo scandalo in chi legge, che spontaneamente assume la posizione dei compagni del servo maltrattato, i quali vanno dal padrone per denunciare chi aveva ricevuto pietà ma non ne aveva usata. Se però usciamo dalla straordinaria capacità di coinvolgimento della parabola, possiamo farci una domanda: il fatto che a me sia stato condonato un debito, toglie il debito a colui di cui io sono creditore? Facciamo finta che la banca mi abbuoni una rata del mutuo, allora il cliente che non mi ha ancora pagato può considerarsi libero da ogni debito? Verrebbe da dire di no. Allora perché questo servo ci appare (e giustamente!) tanto crudele con il suo compagno?

Perché i discepoli si devono relazionare (questa è la logica di tutto il capitolo) facendosi piccoli l’uno di fronte all’altro, nell’accorato tentativo di non perdere nessuno e per mostrarsi reciprocamente l’amore del Padre. Se è così (se è questo stile che permette di radunarsi nel nome di Gesù), di fronte al peccato dell’altro (e in ogni occasione) il primo atteggiamento sarà farsi piccoli, riconoscendo che se è vero che l’altro ha peccato (e magari ha peccato contro di me), è vero anche che io ho peccato in modo infinitamente più grande. Si può pensare questo quando il peccato dell’altro ci sembra – oggettivamente – più grave di quelli che facciamo noi? Sì, perché mentre non sappiamo valutare il grado di responsabilità degli altri, se ci guardiamo con un po’ di onestà, il nostro peccato ci appare sempre spropositato, come la cifra esorbitante messa in campo dal Vangelo di oggi.
A questo punto, consapevole di essere un debitore insolvente, incapace di ripagare il debito e rimesso al mondo solo dal perdono di Dio che libera dal peso che il peccato ci lascia addosso, il discepolo può rapportarsi nel modo giusto con l’altro che pecca, facendosi più piccolo di lui. Non si perdona infatti dall’alto verso il basso, con la spocchiosa benevolenza di quanti si sentono giusti, ma si perdona nella posizione di quelli che sanno quanto è stato loro perdonato e così, guardando la realtà alla luce di Dio (consapevoli che se viviamo viviamo per il Signore e se moriamo moriamo per il Signore), sanno di non essere migliori di nessuno e vedono nell’altro un fratello da non perdere.
Torna qui il monito presente in questo capitolo del primo Vangelo: poiché il Padre non vuole che nessuno si perda, i discepoli non si devono reciprocamente scandalizzare, ma cercarsi, correggersi e, infine, perdonarsi.
D’altra parte l’esperienza ci dice che quando amiamo qualcuno siamo ben felici di perdonarlo, perché vuol dire che ci siamo capiti su quello che è successo, che ci siamo compresi e pentiti, che la relazione può rinascere e ciascuno di noi è sciolto dal male fatto. In una parola: quando perdoniamo, vuol dire che non abbiamo perso l’altro, che non viene chiuso in prigione, ma resta a servizio con noi.
Chi guarda se stesso e gli altri con gli occhi di Dio (così come vediamo scritto nella prima lettura che spiega bene come chi guarda le relazioni con gli altri a partire dalla propria relazione con Dio non può serbare rancore), non vuole perdere chi ha imparato a considerare parte di sé (i credenti sono membra gli uni degli altri) e così condona ogni debito. Se guardiamo bene: a che ci servono i pochi spiccioli dell’altro dopo che Dio ha con un colpo solo cancellato la cifra che noi dovevamo a lui? E così alla giustizia (hai un debito devi pagare) preferiamo la fraternità (siamo sulla stessa barca, condono a te come a me è stato condonato), sapendo che uno solo è il Padre nei cieli e che lui perdona tutte le colpe, guarisce le infermità, salva dalla fossa e circonda di bontà e misericordia. Tanto è bello questo amore che ci ricopre e ci rimette al mondo ogni volta, che non possiamo che viverlo gli uni nei confronti degli altri, rimettendo anche noi al mondo il fratello o la sorella amati , solo per averli con noi, così come il nostro cuore desidera.
04 - Set - 2020

XXIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIII Domenica T.O. (A)

(Ez 33,1.7-9   Sal 94   Rm 13,8-10   Mt 18,15-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica (purtroppo cominciando dalla metà) leggiamo il quarto discorso del Vangelo di Matteo, dedicato alle relazioni che si danno fra i credenti. Al cuore di questo discorso leggiamo “dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, come a dire che le relazioni vissute nel nome di Gesù, cioè secondo la sua logica, sono capaci di renderlo presente.

Per capire quale sia questa logica il brano ci parla delle situazioni di conflitto, quando qualcuno pecca contro di noi. In questo caso (similmente a quanto si legge nella prima lettura secondo la quale è nostra responsabilità andare dal malvagio ad avvisarlo che sta facendo il male) ciò che muove coloro che si riuniscono nel nome di Gesù non è la vendetta, né la difesa di se stessi, né l’allontanamento del male, ma ciò che muove i discepoli è fare di tutto perché l’altro non si perda.

Per questo quando un altro mi fa del male, mentre soffro il male subito, soffro anche per l’altro (perché ha fatto il male e perché questo male ci allontana) e, poiché non voglio perderlo né che si perda, lo vado ad ammonire. Sappiamo, però, che spesso le parole non vengono ascoltate. Il salmo grida lo sconforto di tante parole di Dio cadute nel vuoto: se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore! C’è da aspettarsi allora che la correzione di chi pecca contro di noi fallirà, ma non bisogna arrendersi. Il Vangelo (ricalcando alcune prassi ebraiche) suggerisce di cercare qualcun altro che si unisca a noi e renda il nostro richiamo più convincente per chi ci ha fatto del male. E se anche questo non bastasse, suggerisce di chiamare tutta la comunità, rendere pubblico il dolore e la vergogna (nostra e altrui) pur di aiutare l’altro e di riguadagnarlo nella relazione, perché solo il riconoscimento del male fatto e il perdono possono sciogliere chi ha fatto il male e chi l’ha subito dal laccio che quanto accaduto ha stretto intorno a loro, impedendo la relazione. Se poi anche il coinvolgimento della comunità dovesse risultare inutile, allora occorre allontanare chi pecca, ma solo per poterlo cercare di nuovo (come Gesù faceva con i pubblicani), accordandosi con gli altri nella preghiera perché Dio ci restituisca il fratello che abbiamo perduto (abbiamo allontanato lui ma non il desiderio che ci venga restituito).
Perché una tale ossessione nel cercare chi fa il male, nel non volerlo perdere, nel voler recuperare l’intimità e l’unità? Così fa Dio, così ha fatto Gesù, così deve fare la chiesa se vuole renderlo presente. Ma perché?
Perché (e qui prendiamo spunto dalla seconda lettura) l’unico debito sensato da avere con l’altro è l’amore. Un amore vicendevole (perché ciascuno di noi è ora vittima e ora carnefice) che si misura sul bene concreto che facciamo agli altri (non sulla correttezza dei nostri comportamenti, che l’osservanza di regole e comandamenti ci può garantire, ma sulla vita che diamo a quelli che diciamo di amare) e sul desiderio che abbiamo di loro. L’amore è vedere la bellezza di qualcuno e per questa bellezza volere che viva e che condivida con noi il suo cammino. Chi ama desidera l’altro e il bene dell’altro e per questo si fa piccolo di fronte all’amato, bisognoso e umile, al punto che se quello pecca contro di lui, prende l’iniziativa per correggerlo, non per rimproverare o insegnare, ma solo per non perdere l’altro e ritrovare quell’accordo fra fratelli che solo è capace di rendere presente il Signore Risorto. Vivendo così si realizza quello stesso amore che Dio ha per ciascuno, un amore che contempla sempre la bellezza dell’amato e di fronte ad ogni rottura chiede il riconoscimento della colpa solo per ritrovare l’accordo e l’intimità. Alla nostra capacità di vivere secondo questa logica è consegnata la possibilità per gli esseri umani di vedere come Dio li ama, proprio dentro il concreto, ferito, umanissimo amore di chi non si rassegna a perdere il proprio fratello.