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26 - Ott - 2019

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia di questa domenica continua a parlare della preghiera. Se la scorsa domenica ci aiutava a comprendere in che modo una preghiera autentica ci pone davanti a Dio e in che maniera si mescola con la concretezza della vita, questa domenica le letture ci svelano che, diversamente da come molte volte si pensa, una preghiera autentica dipende dalla relazione che abbiamo con gli altri. Essa non è dunque qualcosa che si risolve fra la persona e Dio, ma al contrario qualcosa che è del tutto condizionato dalla relazione con i fratelli e le sorelle. Se così non fosse la preghiera diventa la copertura per rassicurarci di quello che siamo e persino per giustificare devianze, anche terribili, o persino il male che facciamo agli altri, per i quali poi – senza rimediare in alcun modo al danno inferto – diciamo di pregare. La prova che davvero ci mettiamo davanti a Dio consiste nella giusta relazione con il fratello. Senza questa non si dà preghiera alcuna.

Gesù racconta la parabola di un fariseo che sale al tempio. Un uomo rispettoso della legge, un giusto quindi, ma anche un virtuoso perché digiuna due volte a settimana e paga la decima. Questo uomo ringrazia Dio per quello che è, facendo il confronto con l’altro al quale è ben contento di non assomigliare. “Grazie perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e nemmeno come questo pubblicano”. Sembra di vederlo voltarsi verso l’altro, persino indicarlo con un cenno del capo. Si percepisce il disprezzo che prova per il pubblicano e che gli permette di sentirsi migliore di lui.

In questa condizione non si può pregare. Ciò che impedisce di stare davanti a Dio non sono i peccati commessi – come dimostra proprio la preghiera del pubblicano –  ma il fatto di volersi sentire migliori dell’altro. Ciò che ci preoccupa infatti, in questo caso, non è aprire il nostro cuore perché Dio lo renda giusto, plasmato secondo la sua logica, ma ci preoccupiamo solo di noi stessi e di confermarci in quello che siamo. In fondo Dio, come l’altro che disprezziamo, non ci serve: ci bastiamo.
Quando invece si apre la propria interiorità a Dio senza veli, come fa il pubblicano, si vedono tutte le proprie mancanze e le proprie fatiche ma proprio in queste ci si scopre infinitamente amati e così si entra nella logica di Dio che ci insegna a guardare gli altri come lui guarda noi: amando sempre e comunque.
La prima lettura tratta dal Siracide ci dà una chiave per trovare una posizione che ci impedisca di disprezzare l’altro. Il disprezzo dell’altro infatti si manifesta ogni volta che ci si pone in posizione di forza, anche quando non si fa del male e ci si mostra magnanimi, perché è comunque un tipo di relazione in cui l’altro viene considerato inferiore. Fino a che si sta in questa relazione con il fratello la preghiera non è autentica, non attraversa le nubi, essa resta sulle nostre labbra e non viene ascoltata, perché si sta parlando solo con se stessi, si è soli e non ci si rivolge a nessuno. D’altra parte se davvero il cuore fosse aperto davanti a Dio e lo ascoltasse, non potrebbe che assumere la sua logica e quindi guardare all’altro come profondamente amabile.
Nella seconda lettera a Timoteo, infatti, dopo una vita trascorsa a servire gli altri annunciando il Vangelo e curandosi di loro, al momento di affrontare la morte, l’incontro con Dio viene pensato come una libagione, un vino versato sopra l’offerta preziosa, che sono proprio gli altri, quelli cui ci si è dedicati e per i quali si sono esaurite le forze. Quelli che abbiamo amato, dando loro vita, sono ciò che offriamo al Signore quando preghiamo. Ci sembrerà di aver fatto sempre troppo poco, perché l’altro meritava di più (ci batteremo il petto, forse per i fallimenti e le incapacità nel servirlo), ma comunque lo metteremo davanti a Dio come ciò che abbiamo di più prezioso, perché lui se ne rallegri.
Allora ameremo quelli che Dio ama e potremo benedirlo in ogni tempo, portando sulla bocca una lode autentica che il Signore ascolterà, liberandoci e facendosi vicino.
19 - Ott - 2019

XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dopo due domeniche di riflessione sulla fede – seguendo l’andamento del racconto di Luca – la liturgia si ferma ora sulla preghiera. Leggevamo nel Vangelo di domenica scorsa che di dieci lebbrosi guariti solo uno si salva, perché solo uno è capace di cogliere dentro il dono della guarigione l’amore del Padre e così torna da Gesù per rendere gloria a Dio. Potremmo dire che non tutti si accorgono che la salute, gli affetti, le capacità, la bellezza che abbiamo intorno, i sentimenti, l’intelligenza, le possibilità quotidiane, la vita insomma non è fine a se stessa, ma rimanda a Colui che (come dice il salmo) continuamente ci custodisce, non ci fa vacillare, ci fa da riparo. La fede è la condizione di chi non fa tanto attenzione ai doni, che pure sono importanti, ma al volto di Colui che nei doni ci ama.

La preghiera segue la stessa dinamica. Non prega veramente chi si aspetta qualcosa. Chi prega in questo modo smetterà, perché i doni che chiediamo molto spesso non arrivano e altre volte è facile e giusto procurarseli con l’impegno e l’intelligenza. La preghiera non consiste nel chiedere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Questo è un istinto naturale che somiglia all’atteggiamento dei nove lebbrosi che cercano la salute, ma la preghiera che viene dalla fede va compresa in altro modo.
Questa infatti, possibile solo a chi crede e per lui inevitabile, consiste nello stare costantemente davanti a Dio, senza coperture, aprendogli completamente la nostra interiorità mentre impariamo a guardarla proprio così come la guarda lui. Pregare quindi non significa chiedere ossessivamente qualche bene quanto piuttosto porsi continuamente davanti a Dio per ottenere la giustizia del nostro cuore, del cuore altrui e della realtà intorno a noi. Poiché si tratta di un atteggiamento continuo, non di qualche momento, l’insistenza della vedova nella parabola raccontata da Gesù è istruttiva: persino se chi ci può aiutare è malvagio non si smette di stargli davanti se si ha davvero bisogno, figuriamoci se sappiamo che egli ci ama infinitamente!
Se il cuore non si nasconde, non teme la conversione e l’amore, perché come la vedova sa che da questo dipende la sua vita (infatti ciò di cui abbiamo un bisogno estremo è solo vivere secondo la logica di Dio), Dio prontamente fa giustizia. Si tratta di una lotta, come ci ricorda la prima lettura: ci stanchiamo, abbiamo bisogno di sederci e di altri che ci aiutino. Non è facile reggere la verità della nostra storia e del nostro cuore (vale per i singoli, per la chiesa e per il mondo intero), vorremmo essere migliori, diversi, abbiamo paura di dove l’amore e la giustizia ci possono condurre, ma perseverare ci porterà alla vittoria.
La seconda lettura ci dice infine quale sia concretamente lo strumento che ci permette di fare tutto questo e quindi mettere il nostro vissuto davanti a Dio per essere resi giusti: la Scrittura. Quando si chiede qualcosa a Dio (anche di buono, come i nove lebbrosi) non si ascolta lui: la nostra vita e il nostro cuore restano quello che sono, sia che otteniamo il dono, sia che non lo otteniamo. Quando invece si scrutano le Scritture (beati quelli che come Timoteo l’hanno fatto fin dall’infanzia!), queste istruiscono, guidano, correggono, cambiano le prospettive, aprono percorsi, rinnovano…in un lavorio che rende “l’uomo (e la donna) di Dio completo e ben preparato in ogni opera buona”. E così la preghiera non diventa mai la copertura per le ingiustizie, una celebrazione di noi stessi o la frustrazione legata ai doni che non abbiamo, si mescola invece con la vita e con il cuore, perché l’ascolto credente delle Scritture trasforma i sentimenti, le idee e le azioni, innescando nella storia quel dinamismo di vita infallibile che conduce il mondo verso il Regno.
11 - Ott - 2019

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica può aiutarci a purificare le motivazioni che ci spingono a rivolgerci a Dio e a professarci cristiani, anzi può essere un vero e proprio banco di prova per rispondere alla domanda che un altro Vangelo in un altro momento pone sulle labbra di Gesù: chi cercate?

Dieci malati vanno da Gesù, dieci lebbrosi, e tutti e dieci vengono guariti. Uno solo torna indietro lodando Dio a gran voce per ringraziare Gesù e lo fa prostrato ai suoi piedi. Gesù non aveva comandato ai lebbrosi di tornare, ma di presentarsi ai sacerdoti, d’altra parte rimane stupito che sia tornato indietro uno solo: “non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E prosegue: “la tua fede ti ha salvato”. Tutti e dieci i malati sono andati per essere guariti, hanno pregato allo stesso modo e hanno obbedito alla parola di Gesù, ma solo uno di loro viene salvato. La guarigione, dunque, non coincide con la salvezza, almeno non nella logica di Gesù. Può darsi che molti, anche nella chiesa, cerchino Dio per essere guariti, per stare bene cioè, per essere rassicurati, per avere un aiuto, per sentirsi bravi e inseriti in un sistema di valori che ci dice che la nostra vita va bene così come è. Si può cercare Dio cioè per sentirsi meglio, per guarire dalle molte sofferenze che portiamo. Dio ascolta queste esigenze e le esaudisce anche, ma questa non è ancora la salvezza.
Per essere salvati occorre riconoscere l’amore di Dio nella vita e nei doni che riceviamo, scoprire in questo amore il senso della vita stessa, al punto da essere disposti a non rendere più gloria a nessun altro (come Naaman il Siro), cioè a non essere più disposti a cercare vita e benessere altrove. Se ricevendo i doni di Dio continuiamo a preoccuparci solo dei doni, allora serviremo chiunque altro sarà in grado di garantirceli e dimenticheremo Dio qualora non sembrasse più intenzionato a farci stare meglio (non è questa la logica di chi ritiene che siano i soldi o la salute o l’ordine sociale o essere stimati e amati ciò che conta davvero?). Oppure, Dio non voglia, potremmo essere tentati persino di usare il suo nome per procurarci doni, magari a scapito di altri, come succede quando in nome di Dio si vuole negare soccorso e ospitalità ai fratelli o difendere chi distrugge l’ambiente minacciando la vita di tutti.
Invece se, come il lebbroso samaritano, ricevendo i doni di Dio rimarremo affascinati dal Donatore, da come lui ama e da come vive, allora non ci importerà di altri possibili doni, ma vorremo dedicarci a lui solo e in questo scopriremo il senso di ogni dono possibile.
Gli innamorati sono grati dei doni e delle attenzioni ricevute, ma questi li riempiono di gioia solo perché vengono da colui/colei che amano. Se i doni non venissero più, soffrirebbero perché temono di non avere più l’amato non per i beni perduti. Così è con Dio: se sono i benefici che vengono da lui ad interessarci e non lui e quelli che lui ama, facilmente altri ci affascineranno oppure il nostro cuore, pur continuando a parlare di Dio, servirà altri padroni con altre logiche, purché ci diano i beni promessi.
La salvezza invece consiste nello stupito riconoscimento del volto di Dio che ci guarisce e ci fa vivere, perché non ci sarà più malattia né morte (nemmeno le catene come testimonia la seconda lettera a Timoteo) che ci potrà togliere la certezza che il Dio della vita ci ama e “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”, cioè non vuole smettere di essere Colui che ci ama (il suo amore per noi fa parte di lui).
Vivere in questa relazione grata e fiduciosa con Dio è già la salvezza. Così fin da ora, attraversando la vita senza preoccuparci di trattenerla ma di cogliere in essa l’amore del Padre, assaporiamo la vittoria sulla morte, che ci è promessa, e possiamo gioire con il salmista: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Si è ricordato del suo amore e della sua fedeltà”.
05 - Ott - 2019

XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Facciamo un tentativo spregiudicato e leggiamo la prima lettura di questa domenica (la lamentela accorata del profeta Abacuc perché le ingiustizie non finiscono) come un commento al Vangelo di domenica scorsa, cioè la parabola del ricco e del povero Lazzaro che elemosinava alla sua porta.
Di fatto il povero trascorre la vita nell’umiliazione e nella sofferenza. Dio parla, ama, eppure l’oppressione non finisce. Il profeta Abacuc di fronte a situazioni come queste dice: “Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese”. Dobbiamo aspettare la vita dopo la morte per vedere qualcosa di altro, come sembra suggerire il Vangelo di domenica scorsa? In realtà la parabola di Gesù sul ricco e sul povero Lazzaro è per i ricchi egoisti, per indicare loro la via della vita, la possibilità di ascoltare una parola che conduca alla conversione e alla salvezza. Ma per i poveri? “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido e non salvi?”, di nuovo sono le parole di Abacuc.
I poveri, coloro che non opprimono e non usano violenza, i giusti non hanno bisogno di convertire le loro vite, ma hanno bisogno di guardare meglio ciò che accade perché lo sconforto non li prenda distruggendo la speranza. Solo uno sguardo sulla realtà che viene dalla fede, può insegnare a distinguere ciò che è provvisorio per quanto terribile (il male, l’ingiustizia, la morte) da ciò che non passa e che vince tutto (l’amore, la giustizia e la vita). Avere questo sguardo cambia tutto e fa la differenza fra la vita e la morte.
Stamattina non stavo bene e non sono riuscita ad alzarmi presto come al solito, mentre mi rammaricavo di tutto quello che non riuscivo a fare, il mio figlio più piccolo si è infilato sotto le coperte e si è accoccolato vicino a me per molto tempo. Ha potuto farlo solo perché stavo male, altrimenti quando lui si sveglia io sono in piedi da tempo. Era felice, rassicurato, una specie di festa inaspettata. Quello che per me era stato un danno per lui era stato un regalo e lo è diventato anche per me. Gli occhi dell’amore vedono tutto in altro modo, scovano la vita ovunque, cancellano il male ricevuto, trasformano le sofferenze in occasioni, sperano la vita anche nella morte. La fede dona questi occhi sempre e su tutto, perché chi crede è una persona che vive costantemente consapevole di essere infinitamente amata da Dio, niente altro. Questo basta per vivere: il giusto vivrà per la sua fede. Non stupisce allora che la seconda lettera a Timoteo ci esorti a ravvivare il dono ricevuto, a custodirlo e a non vergognarsene: è tutto ciò che serve per vivere.
La fede dunque è una consapevolezza profonda dell’amore del Padre ed è capace di farci vivere in ogni situazione, anche quelle umanamente impossibili: questo vuol dire Gesù nel Vangelo usando l’immagine dell’albero che si sradica e si pianta nel mare. In fondo potremmo immaginarci come un albero che a volte perde la possibilità di affondare serenamente le proprie radici sulla terra, ma anche dovesse accadere la fede ci farebbe vivere e prosperare anche in mezzo alle onde del mare più inospitale.
Tutto ciò però – sembra ammonirci subito Gesù – può essere vissuto solo nell’umiltà. La consapevolezza di essere infinitamente amati e che questo amore è capace di farci vivere non può farci diventare superbi, oppure pretenziosi verso Dio quasi ci dovesse qualcosa o fosse nostro servitore, al contrario l’amore che sperimentiamo ci fa trascorrere i giorni servendo, scrutando intorno a noi per vedere se c’è rimasto qualcosa da fare per servire Dio e i fratelli. Vivremo questo continuo servire non come un vanto, ma come l’ovvio (i servi sono tali perché servono, è quanto devono fare, niente altro) e nonostante ciò lo sentiremo come un privilegio, perché sarà la nostra possibilità di corrispondere all’amore ricevuto. L’amore che ci fa vivere, la fede, non porterà frutto solo per noi allora, ma per tutti quelli che incontreremo e in questo modo si avvererà la sentenza del profeta Abacuc: è posto un termine all’ingiustizia e al dolore. E quando questi saranno debellati potremo guardarci intorno con una punta di rammarico: adesso siamo servi inutili, come possiamo amarti Signore?
28 - Set - 2019

XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche il Vangelo di questa domenica torna sul tema del corretto rapporto con la ricchezza e anche questa volta abbiamo una parabola, che ha come scopo di aiutare a riflettere su che cosa convenga davvero. Il ricco della parabola infatti prospera in un lusso descritto con dovizia di particolari ed è talmente immerso nel suo mondo da non accorgersi nemmeno delle sofferenze disumane di chi gli sta davanti alla porta e che quindi vede ogni volta che esce ed entra in casa. Questo personaggio si accosta a quelli che il profeta Amos chiama “gli spensierati di Sion” che banchettano, bevono, si ricoprono di unguento e improvvisano sulla cetra come fossero Davide (sembra di cogliere una sfumatura ironica che rimarchi come questi si pensino ben più di quello che sono, perché la ricchezza spesso fa sovrastimare chi la possiede). La colpa di questi, come del ricco della parabola, non sembra essere la ricchezza in sé ma il fatto che non si preoccupano gli uni della rovina di Giuseppe (cioè del popolo) e l’altro del povero che ha davanti casa.

Come già notato altre volte scorrendo il terzo Vangelo, si deve sottolineare che non è la ricchezza ad essere un problema, ma che facilmente può diventarlo, perché il cuore dell’uomo si attacca ad essa e pur di goderne e mantenerla non si cura più di chi soffre, perdendo la misura di sé e della propria vita. Ci si inganna, pensando di bastare a se stessi e di salvarsi grazie al denaro che si possiede, senza bisogno che gli altri vivano e senza preoccuparsene. Il monito di Amos è terribile: finiranno in esilio. L’immagine di Gesù è ancora più dura: il povero sperimenterà la pace e la gioia nella vita di Dio, il ricco privo di ogni pietà sarà nei tormenti. La storia finisce così con un “rovesciamento” delle sorti, tipico del Vangelo di Luca. Chi ha sofferto ora è nella gioia e chi ha goduto soffre, perché non ha saputo privarsi nemmeno delle briciole di cui l’altro si sarebbe accontentato.
Magari questo rovesciamento non riguarda solo la vita in Dio, ma anche il momento presente. Forse si può essere nei tormenti anche mentre si godono i lussi, perché in fondo il prezzo da pagare in disumanità è pesantissimo. Per vivere in questa condizione infatti bisogna arrivare ad ignorare le sofferenze altrui, a non percepire più l’ingiustizia, a non pensare più di se stessi se non in termini economici e di benessere. Chi vive così perde molto di sé e delle possibilità che la vita offre.
D’altra parte, sembra di sentire parlare delle nostre società, così ineguali e ingiuste e del sistema economico mondiale. Quanti popoli sono insensibili alle sofferenze di quelli che non hanno altre possibilità che soffrire? Quanti governi e aziende sono insensibili ai danni causati dall’inquinamento che già colpiscono tantissimi e rischiano di colpire tutti? Quanti benestanti ignorano le fatiche dei poveri e quanti che hanno risorse economiche in abbondanza sfruttano chi non ne ha tramite rapporti di lavoro non dignitosi?
A volte ci dà fastidio anche che ci chiedano le briciole. Ma il prezzo da pagare per questa insensibilità è l’isolamento, la paura, la distruzione dell’ambiente, l’incapacità di provare compassione e di soccorrere. Perdiamo molto, per guadagnare un banchetto o un coppa larga o per far sfoggiare ricche vesti? Ma tutto questo non dura e non salva.
L’invito di Gesù è a convertirsi, ad ascoltare la Parola per vivere secondo la logica dell’amore e della condivisione. Come se ci dicesse, usando le parole della prima lettera a Timoteo: “tu, donna o uomo di Dio, evita queste cose e tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza”. Così infatti combattiamo la buona battaglia della fede e non scambiamo una ricchezza che dura poco per quello che ci può salvare. Invece davanti ai bisognosi che incontriamo ciò che possediamo (denaro, tempo, capacità, affetto) diventa una vera ricchezza, perché possiamo investirla per far vivere.
Ci accorgiamo di questo però solo se crediamo alla Parola di Dio, perché questa, che sembra così fragile e leggera, è capace di aprirci gli occhi per poter vedere la realtà più profondamente fino a trasformarla e farci scoprire nei bisognosi la risorsa che non ci fa sciupare i nostri beni. Accogliere questa Parola ci salva, perché ci cambia la comprensione del mondo, la valutazione delle cose e lo stile di vita. Se il ricco della parabola avesse ascoltato la legge non avrebbe confidato in un’illusione e non avrebbe inflitto sofferenze. Una parola sembra niente ma fa la differenza fra l’entrare nella vita o rimanerne fuori.
21 - Set - 2019

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La parabola di oggi ritorna su un tema caro al Vangelo di Luca: le ricchezze. Il terzo evangelista descrive spesso la ricchezza come un pericolo, perché capace di ingannare il cuore dell’essere umano su ciò che è essenziale. Può succedere infatti che ci si illuda che possedere beni (o vivere in società avanzate) ci salvi dalla morte o dia pace all’esistenza. Un tale inganno è mortale perché non ci si accorge che per vivere occorre condividere, cioè impoverirsi perché chi non ha nulla abbia qualcosa, e per avere un’esistenza pacificata occorre riporre in Dio e nell’amore ogni speranza e ogni impegno.

Per aiutarci a comprendere questo il Vangelo ci presenta un personaggio scandaloso: un amministratore che sperpera gli averi del suo padrone. Non si dice che prendeva per se i soldi dell’altro, ma solo che non gli permetteva di accumulare, non facendo i suoi interessi. Chiaramente il padrone non può che cacciarlo, ma di fronte alla perdita del proprio lavoro l’amministratore reagisce come era abituato: sperpera ricchezza. Chiama infatti i debitori del suo padrone e abbassa loro il debito per farseli amici. Probabilmente nel fare così rinuncia alla propria parte di interesse sul debito – perché una parte spettava proprio all’amministratore – sperperando la propria ricchezza proprio in un momento di bisogno, ma così facendo si fa degli amici.
L’insegnamento di questa parabola viene condensato da Gesù stesso in poche parole, cioè “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta”, che potremmo ridire così “fate in modo che le persone vi siano grate usando la ricchezza ingiusta”.
Ogni ricchezza, d’altra parte, è ingiusta, non tanto perché guadagnata con disonestà, ma perché se qualcuno è ricco vuol dire che altri sono poveri, mentre le risorse della terra sono state date a tutti gli uomini perché tutti vivano. Se alcuni sono ricchi e altri poveri è colpa dei nostri sistemi sociali ed economici che creano ingiustizia, sfruttano la guerra, distruggono l’ambiente e così minacciano la vita di tutti: ricchi e poveri, anche se solo i poveri sanno cogliere il pericolo. Non c’è dunque ricchezza giusta, perché giustizia vuole che tutti condividano i beni che sono destinati a tutti. Davvero riteniamo giusto che i nostri figli mangino mentre tanti bambini muoiono di fame, magari mentre i loro genitori lavorano 12 ore al giorno nelle miniere che estraggono il materiale per il nostro ennesimo cellulare?
Le risorse della terra sono per tutti, i confini che ci siamo dati sono solo funzionali ad organizzarci se non diventano la scusa per arraffare ciò che erroneamente pensiamo sia nostro. Di chi è la foresta amazzonica? Se è dei paesi sud americani allora possono distruggerla e facilmente moriremo tutti. Oppure è di tutti e allora tutti dobbiamo condividere risorse per custodirla, facendo giustizia (per esempio) alle popolazioni che affamiamo con un commercio iniquo oppure piantando noi moltissimi alberi che compensino la deforestazione che in altre epoche abbiamo portato avanti per arricchirci.
Se però la ricchezza è sempre ingiusta, c’è un modo saggio di usarla e questo modo consiste nel considerarla qualcosa di poco conto, qualcosa che si può manipolare, trafficare, perdere, per alleggerire i debiti altrui e creare relazioni di amicizia. Non è qualcosa cui servire e cui affidarsi (non un altro dio come ci ammonisce la fine del Vangelo) ma qualcosa da usare per far vivere tutti, desiderando per sé, come ci suggerisce la prima lettera a Timoteo, solo una vita tranquilla, che ci permetta di dedicarci a Dio e di testimoniarlo.Che Dio ci doni una vita saggia, priva dell’illusione che ci si salvi arricchendosi o difendendo dai poveri la propria ricchezza, convinti di servire Dio solo con il culto ma pronti ad approfittarsi di chi è nel bisogno (come bene denuncia il profeta Amos). Molto più saggio è trafficare con i propri averi (e quelli di tutti) perché ogni creatura (noi compresi) abbia di che vivere.
14 - Set - 2019

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda (Mt 18,14). Così Gesù conclude la parabola della pecora perduta nel Vangelo di Matteo dandoci la chiave per entrare nel cuore stesso di Dio, nei suoi desideri più profondi: che nessuno (dei piccoli) si perda. Leggendo il capitolo in cui Luca raccoglie le tre parabole che raccontano di smarrimenti e perdite, occorre tenere lo sguardo sul sentire di Dio, sul suo desiderio cioè che neppure uno si perda. Tutte e tre le parabole parlano di gioia e di festa per ciò che era perduto ed è stato ritrovato, ma tutte e tre dicono anche che chi si rallegra (cioè Dio, rappresentato dal pastore, dalla donna e dal padre) non vuole rallegrarsi da solo: il pastore cerca amici e vicine, la donna amiche e vicine, il padre cerca il figlio maggiore, perché vuole che anche lui faccia festa e si rallegri.

Il cuore di Dio che Gesù ci racconta è il cuore di un Padre/Madre che non vuole perdere nessuno dei suoi piccoli, ma che non vuole nemmeno che i suoi figli si perdano fra di loro. Ciascuno deve sentire l’urgenza verso gli altri, la stessa urgenza che sente lui: che nessuno si perda. Si capisce però se davvero ci muove lo stesso desiderio di Dio, se, quando le persone che erano perdute hanno nuove possibilità di vita, noi ci rallegriamo oppure no. Se ci ingelosiamo, ci sembra ingiusto, vorremmo qualcosa in più per noi o comunque la difesa dei nostri diritti contro quelli che, se si sono persi, si sono persi per colpa loro (o almeno non per colpa nostra), allora non è il Padre quello che amiamo e serviamo ma solo i benefici che speriamo di avere da lui.
Dio, infatti, è il Dio della vita. Non è geloso di quello che ha e dona continue possibilità di vita, perché ciascuno è prezioso ai suoi occhi ed è offerto come un dono a tutti gli altri. Nessuno deve perdersi, perché altrimenti tutto si sciupa. Perdere una pecora su cento è come aver perso un figlio su due, per questo si va a cercarla: neppure uno si deve perdere perché tutti sono stretti in unica vita condivisa (sono parte della stessa famiglia).
Dio non vuole vivere senza i suoi figli e ci insegna a sentire allo stesso modo, perché non si vive se gli altri muoiono. Lo sa bene Mosè che non vuole avere un’altra nazione (così gli promette Dio di fronte al peccato del popolo), ma vuole salvare le persone che ha fatto uscire dall’Egitto: non si tratta di un bene che si può sostituire (una pecora non vale l’altra, una moneta non vale l’altra e – in questo caso l’immagine è molto più efficace – un figlio non vale l’altro). Mosè (nella prima lettura che racconta gli eventi relativi all’episodio del vitello d’oro) conosce il cuore di Dio, la preghiera di lui è un dire a voce alta ciò che Dio vuole, un ricordare a sé e a lui il suo sentire.
A volte ci si perde lontani da ciò che parla di Dio, si abbandona l’ovile e la casa, altre volte ci si perde immersi nelle cose di Dio, dentro casa cioè, come la moneta e il figlio più grande che è smarrito quanto il piccolo poiché non conosce il padre. Ma comunque ci si perda, quando si viene cercati e ritrovati, la persona ha la possibilità di ricominciare a vivere. Non sarà più come prima, la memoria di quanto accaduto le ricorderà sempre la propria miseria e la propria piccolezza, ma questa diventerà la sua forza, perché avrà toccato con mano e potrà testimoniare (come leggiamo in questo brano della prima lettera a Timoteo) che davvero Dio è venuto per salvare, per liberare, per far vivere.
La pecora, forse malconcia, in mezzo alle altre testimonia che il pastore non è uno che tiene conto dei numeri ma dei piccoli, la moneta impolverata e graffiata testimonia che anche ciò che sembra sciupato è prezioso agli occhi di Dio, il figlio più piccolo testimonia che anche distruggere il patrimonio del Padre non è sufficiente per smettere di essere figli. Il fratello maggiore dovrà decidere invece se avere un fratello vivo vale la metà del suo patrimonio, perché ora che il patrimonio è dimezzato, alla morte del padre verrà di nuovo ridiviso e a lui toccherà la metà di quanto poteva avere.
Quanto vale un fratello? Quanto valgono gli altri? Quanto valgono i poveri? Quanto i nostri figli? Lo scopriamo da quanta gioia abbiamo nel dividere ciò che possediamo purché vivano. Se siamo disposti a mettere risorse umane, tempo e soldi per alleviare le sofferenze e soccorrere i poveri, se siamo disposti a impoverirci e difendere l’ambiente perché anche i nostri figli possano vivere.
Dio non vuole che nessuno di questi piccoli si perda, perché altrimenti nessuno avrà la pienezza della vita. E noi, che forse siamo nella casa del Padre e lavoriamo con diligenza, siamo incantati dal suo cuore che ci chiede di ridividere le possibilità di vita anche con chi era perduto? Che non ci accada di stare vicino a lui e di pensare che, in fondo, è meglio (o che non ci importa) se alcuni si perdono perché così possiamo tenere per noi tutto quello che resta: beni, idee, possibilità, vita.
Sarebbe un grande inganno, perché nel mondo che Dio ha fatto sorgere, in un mondo che nasce dall’Amore, la vita è sempre e solo condivisa: nessuno si può perdere perché siamo ciascuno per gli altri e viviamo ciascuno con gli altri. Se uno si perde, tutto si perde.
07 - Set - 2019

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Una grande parte del Vangelo di Luca è dedicata al viaggio che Gesù intraprende verso Gerusalemme, che così viene raccontato come fosse una lunga parabola della vita cristiana in cammino dietro a Gesù, fino al momento cruciale. All’inizio di quel viaggio (di cui leggevamo diverse domeniche fa) abbiamo incontrato i detti di Gesù sulla sequela, nei quali insegna le esigenze della vita cristiana, cosa richieda e cosa significhi. A distanza di cinque capitoli (e di molte settimane) troviamo di nuovo Gesù impegnato a spiegare quali e quante siano le esigenze della sequela. La prima volta Gesù era solo con i discepoli e prende spunto per insegnare dalla domanda di un tale che si voleva unire al piccolo gruppo, ora prende l’iniziativa guardando quanti lo seguono: una folla numerosa infatti andava con lui. Sembra quasi che Gesù sia perplesso di questo successo: sono troppi quelli che lo seguono. Ha parlato del Regno come di un fuoco che divide, di una porta stretta, di una ricerca degli ultimi posti: come mai tutte queste persone?

Allora torna sulle esigenze della sequela e parla per i tanti, forse per noi, che si dichiarano suoi e gli vanno dietro pensando che questa sia un’impresa di poco conto, uno di quegli interessi o di quelle simpatie che si può coltivare senza cambiare tutto il resto e senza sconvolgere le proprie priorità. Ma qui abbiamo a che fare con una logica di tutt’altro genere: ci viene offerta una sapienza dall’alto (prima lettura), che raddrizza i pensieri e realizza la salvezza di quelli che hanno ragionamenti timidi e incerti, appesantiti dalla propria fragilità e pieni di preoccupazioni. Seguire Gesù non è qualcosa che si può fare continuando a vivere come niente fosse, magari più tranquilli perché l’amore di lui è un pensiero rasserenante, oppure continuando ad arrovellarsi per garantirsi la propria vita a prescindere da lui.
Seguirlo comporta amarlo più di ogni amato e di ogni amata, più di noi stessi. Questo non significa che il Signore vuole che misuriamo l’intensità dell’amore agli altri perché non superi quello che rivolgiamo a lui, ma significa che dobbiamo sentire di non voler amare né vivere se non come lui, desiderando di imparare i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Colui che porta la croce è colui per il quale la vita vale la pena di essere vissuta solo se continuamente plasmata dalla logica di Gesù, una logica di amore al punto che si può affrontare persino la morte senza temerla. Portare la croce addosso, vuol dire vivere tutto senza distogliere il cuore e il desiderio da come Gesù ha vissuto tutto.
Questo perché la vita di lui ci appare così bella e desiderabile che tutto quello che viviamo deve entrarci in relazione e venirne trasformato. Un po’ come quando si guarda un paesaggio alla fine di un temporale, quando l’oscurità lascia spazio alla luce moltiplicata dall’acqua ancora appoggiata ovunque. Questa luce che esalta ogni colore e fa brillare tutto è ciò che ci fa amare proprio il luogo in cui siamo, che ai nostri occhi ha appare di tutta un’altra bellezza.
Solo così si può seguire Gesù, sapendo che tutto – compresa la vita e gli affetti – ha valore solo in lui e a partire da lui e proprio in questa consapevolezza consiste la rinuncia del discepolo, che lascia andare ogni altra speranza e ogni altra possibilità di salvezza. Solo Cristo e la sua logica sono ciò per cui vale vivere e da cui la vita riceve senso e bellezza.
Fermatevi a pensare se vi conviene – sembra dirci il Signore -, perché non vi servirà a niente seguirmi senza questo innamoramento per quello che io sono. Finirete per essere ridicoli, gente che fa le cose a metà sprecando risorse solo per farsi ridere dietro, o finirete per rovinarvi, come chi comincia una guerra senza forze adeguate. Solo se io sono l’amore da cui prende senso ogni amore e la vita da cui prende senso la vostra stessa vita, è possibile seguirmi.
Gesù non si sofferma sui guadagni della sequela qui, ma possiamo averne un esempio nella seconda lettura (tratta dalla breve lettera a Filemone): diventando credente Filemone perde la possibilità di possedere uno schiavo e di usarne come meglio crede. Non è costretto a questo, ma la relazione con Cristo gli impedisce di guardare gli altri senza sapere che sono infinitamente amati da Dio e, in più, se uno schiavo diventa credente, non gli è possibile trattarlo con la disumanità che la schiavitù pretendeva. Rinuncia a questa ricchezza (allo schiavo appunto). Ciò che guadagna però è infinitamente di più, perché ha un fratello, uno che aveva perduto e che ora ha ritrovato. Compagnia, consolazione, aiuto, prossimità, amicizia. E, non solo, poiché viene inviato da Paolo è come se avesse vicino anche lui e la sua testimonianza.
Accade sempre così quando è la logica della croce a presiedere la nostra vita: i pensieri incerti e le preoccupazioni lasciano spazio ai pensieri di Cristo e questi ci insegnano a scegliere non le ricchezze che non danno vita, ma le altre, che valgono molto di più. La sapienza che viene dall’alto ci impedisce di sbagliarci anche se abbiamo pensieri timidi e preoccupazioni, perché la croce ci si appoggia addosso ovvero viviamo come Gesù, docili allo Spirito di lui che ci dà il suo stesso cuore, proprio qui e ora.
31 - Ago - 2019

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Di solito quando siamo invitati a pranzo e arriviamo al luogo dell’invito ci dedichiamo a salutare e a parlare, magari ci guardiamo intorno e aspettiamo che ci dicano dove sederci e come si procede. Anche Gesù fa tutto questo, ma nel guardarsi intorno nota il comportamento degli altri invitati e questo gli ispira due parabole. Entrambe queste parabole riguardano la ricerca di posizioni di prestigio: la prima prende in considerazione la situazione di quando si è invitati, la seconda di quando si invita qualcuno, ma in entrambi i casi la scelta è fra ciò che ci esalta (i primi posti nella prima parabola, invitati importanti di cui vantarsi e da cui ricevere il contraccambio nella seconda) e ciò che invece è umile, anzi ciò che umilia.

Gesù mette così a confronto due logiche diverse: quella umana largamente diffusa (cercare i primi posti e vantarsi di contatti importanti) e quella del Regno (nel quale entrano quelli che si umiliano e che scelgono per compagnia persone che non hanno alcuna ricchezza e potere). Nel Vangelo di Luca molte volte compaiono questi rovesciamenti, come bene fa vedere il Magnificat: i ricchi impoveriscono, gli affamati sono pieni di beni, i potenti sono abbassati, gli umili innalzati. Quale è la logica di questo rovesciamento però? Perché il Regno è accessibile a chi sceglie gli ultimi posti e si fa compagno degli ultimi?
Il punto è che la posizione che noi scegliamo di occupare ci dà una prospettiva sul tutto quello che guardiamo e quindi determina ciò che comprendiamo e le scelte che facciamo. I posti a teatro non costano tutti allo stesso modo, perché non in ogni posto si vede allo stesso modo. Il mio figlio più piccolo si sente molto basso di fronte ai suoi fratelli, ma nella sua classe si sente alto e così sa che sta crescendo bene anche quando è vicino al suo altissimo fratello maggiore. La posizione in cui ci mettiamo decide la prospettiva sulla realtà e su di noi.
Che cosa vede chi occupa i primi posti e cerca la compagnia dei “primi”? Guarda tutti dall’alto, si sente migliore e in questo modo finisce per provare  disprezzo per quelli che incontra, fino ad arrivare all’odio. Rimane solo, perché sulla vetta può stare solo uno. E se ci fosse qualcuno più sopra o di fianco sarebbe un nemico: se ciò che ci spinge è cercare di essere il primo, lui va ricacciato indietro e questo perché ci si crede più meritevoli, migliori. Subentra cioè la superbia e l’orgoglio, che conducono alla ricerca di una grandiosità che può persino fare paura (come prova a descrivere la prima parte del brano della lettera agli Ebrei). Gli altri, come nella seconda parabola, al massimo servono per sentirsi prestigiosi, per onorare il proprio primeggiare e niente di più. Cercando i primi posti non rimane nessuno spazio per il prossimo né per Dio e così non c’è nessuna festa.
Che cosa vede invece chi occupa gli ultimi posti e cerca la compagnia degli “ultimi”?
Questi hanno la prospettiva opposta, guardano tutti dal basso e così gli altri appaiono ai loro occhi degni di stima, desiderabili, amabili. Nel cuore sorge il desiderio, l’amore, l’amicizia. Mai l’altro è un rivale, ma un dono per arricchirsi, qualcosa di prezioso da custodire. Pur di stare insieme a lui siamo disposti a non avere altri vantaggi, ad occupare anche uno scampolo di sedia, perché non ci importa l’onore che riceviamo ma la compagnia dell’altro. Lo sa bene chi è innamorato, i genitori che non vedono i figli da tanto tempo, o chi ha perduto un amico prezioso: vederlo anche solo qualche minuto vale più di tutto. Da questa posizione si può aprire il cuore alla parola che Dio dice, perché non sorge l’orgoglio a chiuderci le orecchie: si ascolta e così si possono riconoscere le opere di Dio che solo la sua Parola ci può far vedere (per questo il libro del Siracide ci dice che l’umile glorifica Dio, perché solo l’umile ascolta la Parola che insegna a riconoscere la logica di Dio in azione).
Chi è in questa posizione si prepara ad una grande festa. Non per niente Gesù usa l’immagine del banchetto per parlare del Regno: un’adunanza festosa che vede raccolti intorno al Signore i suoi primogeniti (come leggiamo nel brano della lettera agli Ebrei). Questa è la festa di chi ha saputo scegliere la posizione migliore per guardare gli altri e il mondo, una posizione nella quale avremo la gioia di vederlo venire fino a noi e sentirlo dire: Amico vieni più avanti…e noi andremo, ma solo dopo esserci assicurati che questo non ci faccia lasciare indietro nessuno.
24 - Ago - 2019

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Sono pochi quelli che si salvano? Forse questa domanda che un tale fa a Gesù lungo la strada sottintendeva la ricerca di una rassicurazione, perché se quelli che si salvano sono pochi le possibilità di essere fra questi diminuiscono. Questa voce intimorita dovrebbe sorgere in ciascun credente, perché è indice del fatto che ci siamo resi conto di quanto la salvezza sia decisiva per la realizzazione della nostra esistenza e di quanto non si possa aspettare che essa ci accada senza fare nulla. Salvarsi dovrebbe essere ciò per cui ci sforziamo, come l’immagine della porta stretta e piccola dice bene: c’è un’apertura, si può passare, ma per farlo occorre pigiarsi, spingere, graffiarsi, depositare tutto ciò che ci portiamo addosso e che ci ingombra. La via della salvezza non è l’autostrada larga sulla quale si guida senza nemmeno pensare, lasciando magari che i moderni sistemi di assistenza alla guida regolino velocità e distanze, la via della salvezza è invece un’affascinante e tortuoso percorso montano, per stare sul quale bisogna mettere tutto il nostro impegno certi del valore della meta e allo stesso tempo catturati dalla bellezza dei paesaggi che ci offrono davanti.

La salvezza consiste nel Regno, cioè nell’amore, nella pace, nella giustizia, nella condivisione, nella pienezza della vita: è qualcosa cui di cui si può fare esperienza fin d’ora e proprio questa esperienza ci fa sperare in un destino di vita piena, anche di fronte alla morte. A tutto questo però, seppure donato con generosa liberalità da Dio, non si giunge senza l’impegno della strada e senza riconoscere il privilegio di camminare su una strada così impegnativa.

Quelli che ricevono la parola che salva, ma non la onorano con la fatica che chiede, da primi diventano ultimi, perché si distraggono con ciò che è facile e finiscono per imboccare altre vie solo perché sono larghe. Queste vie, a volte, sono ammantate di religiosità, per cui in nome di Dio ci si dedica a tutt’altro da quello che Dio ama e chiede: si può partecipare alla vita della chiesa, accalorarsi per alcuni dei “valori” che riteniamo cristiani, promuovere attività ecclesiali e persino essere ministri o persone impegnate nella chiesa evitando la porta stretta e cercando nella fede la comodità delle moderne autostrade, al punto che nemmeno ci si accorge più di camminare.

Se si fa così, da primi si finisce ultimi. Gli ultimi invece, come Israele considerava i pagani, diventano primi, perché quando sentono l’annuncio della parola del Signore si mettono in viaggio con ogni mezzo – nella prima lettura ci viene descritta una carovana variegata e numerosa – per arrivare al monte santo di Gerusalemme, immagine privilegiata della salvezza che Dio prepara. Tutte le genti lodano Dio, tutte le genti lo ascoltano, da tutte le genti sorgono fratelli. Israele disprezzava i pagani, eppure essi – considerati come vasi colmi dell’ira di Dio perché lontani da lui – diventano vasi puri che portano l’offerta nel tempio. Erano ultimi e diventano primi, perché riconoscono il dono straordinario della salvezza e per essa si mettono in viaggio. Quanti di quelli che oggi disprezziamo come lontani da Dio ci passano avanti?

Se il cammino è impervio, è facile che porti con sé sofferenze e paure, che però non devono farci pensare di essere sulla strada sbagliata, perché il Signore non ci ha indicato gli itinerari più comodi. Le sofferenze non contraddicono la validità del cammino della salvezza, quindi, e per questo l’autore della lettera agli Ebrei ci suggerisce di pensare ad esse come a delle correzioni, non qualcosa che ci fa del male, ma che ci rende migliori. Tutto ciò non significa che Dio ci manda delle sofferenze per farci imparare qualcosa, ma che persino le sofferenze, alla luce del Vangelo e per l’azione vivificante dello Spirito, diventano un luogo per scoprirsi amati, per crescere e per vivere. In ogni momento infatti è all’opera con noi e per noi il Dio della salvezza, perché forte è il suo amore per noi e la sua fedeltà dura per sempre.

Coraggio allora, rinfranchiamo le mani inerti e le ginocchia fiacche perché dobbiamo camminare per sentieri impegnativi e spingerci con gioia dentro una porta piccola oltre la quale è già cominciata la festa della vita.