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30 - Apr - 2021

V Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

V Domenica di Pasqua (B)

(At 9,26-31   Sal 21   1Gv 3,18-24   Gv 15,1-8)
Domenica 2 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le vicissitudini della vita non sono sempre felici o non lo sono a lungo. La prima lettura tratta dal libro degli Atti ci narra che Saulo abbandona la sua posizione nel popolo di Israele per diventare discepolo del Signore, eppure gli altri non si fidano: il suo passato non viene ricordato per lodare l’opera di Dio, ma per gettare un sospetto su di lui. Anche dopo che Barnaba lo ha preso con sé, dandoci un esempio concreto di cosa significhi amare non a parole ma con i fatti e nella verità (secondo quanto leggiamo nella seconda lettura), e Paolo pieno di entusiasmo si mette a discutere con “quelli di lingua greca”, questi tentano addirittura di ucciderlo. Di nuovo l’amore dei discepoli, che osservano il comandamento dato dal Signore (come ci ricorda la seconda lettura tratta dalla prima lettera di Giovanni) di amarsi gli uni gli altri, lo salva, portandolo altrove. Così Paolo fin dall’inizio sperimenta le fatiche legate all’essere discepolo, i sospetti, le opposizioni, i pericoli e allo stesso tempo (da parte della stessa chiesa che sospetta di lui) riceve cura e amore fraterno. In questo amore riconosce l’amore di Dio per lui e riacquista rinnovato vigore che lo spinge ad amare a sua volta. Questo dinamismo ci è mostrato nella prima lettera di Giovanni, nella quale l’amore ricevuto e l’amore offerto si intrecciano continuamente in un unico movimento dello Spirito, che rimane in noi come un amore che ci avvolge (come l’abbraccio che i piccoli sanno cercare o che offriamo perché qualcuno non si senta solo: un abbraccio che abita le profondità dell’interiorità) e che ci permette di amare così come sappiamo di essere amati. Rimanere in questo amore permette di amare e quindi di vivere, anche se il nostro cuore ci rimproverasse cose terribili: infatti Dio è più grande del nostro cuore.

E proprio per questo Gesù ben sette volte in questi versetti del Vangelo di Giovanni ripete il verbo rimanere: non solo noi dobbiamo rimanere in lui, ma lui vuole rimanere in noi e questo accade proprio per opera dello Spirito. Lo stesso Spirito (lo stesso Amore) che ha spinto, ispirato e commosso lui, viene riversato in noi perché Cristo stesso possa rimanere dentro di noi e amare in noi e con noi, dandoci vita. L’unica accortezza che dobbiamo avere è di rimanere anche noi: la vite porta frutti solo nei tralci – il Signore ama e porta vita tramite noi – e noi possiamo essere colmi di vita e amore solo rimanendo attaccati a lui, perché i tralci offrono i grappoli solo finché sono un corpo solo con la vite.

Che succede ai tralci se soffia il vento forte, se grandina, se imperversa la siccità? Cosa succede se le vicissitudini della vita, come spesso accade, minacciano i frutti che con tanta cura ci eravamo preparati a dare? Ai tralci compete solo rimanere ed essere nutriti: alla vite, al Signore cioè, al suo Spirito riversato in noi e al Padre che tutto fa crescere, realizzare il miracolo della vita, sempre e comunque. Così alla fine della prima lettura, dopo tanti guai, leggiamo di una chiesa in pace, che si consolida, cammina in Dio e cresce di numero: potature e tagli non mancheranno, ma nemmeno i frutti. Vale per la chiesa, se rimane in Cristo, e vale per ciascuno e ciascuna di noi che può fare sue le parole del salmista: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: ecco l’opera del Signore”.

23 - Apr - 2021

IV Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

IV Domenica di Pasqua (B)

(At 4,8-12   Sal 117   1Gv 3,1-2   Gv 10,11-18)
Domenica 25 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La differenza fra il pastore e il mercenario è l’interesse che hanno: al pastore interessano le pecore, ai mercenari interessano i vantaggi che derivano dal prendersi cura del gregge. Se si tratta di soldi, o di altri beni personali, di fronte al rischio della vita (quando viene il lupo) non si può che fuggire, ma se si tratta di amore, se quelli che ci sono affidati sono “nostri” e vogliamo che vivano, allora si resta anche di fronte al pericolo, anche se questo ci dovesse costare la vita. Gesù è pronto a dare la sua vita per le pecore, perché non è un mercenario, non predica e non guarisce per avere un seguito, successo o affermazione di sé. Rifiuta ruoli, contesta il potere, fugge di fronte a chi lo vuole fare re o a chi lo cerca per i segni. Uno solo è il motivo per cui fa tutto quello che fa: vuole che le pecore abbiano la vita. In questo modo riversa sui suoi l’amore che riceve dal Padre. Fa proprio un parallelo fra la conoscenza (cioè l’intimità e l’amore) che c’è fra lui e il Padre e la conoscenza che c’è fra lui e le pecore, cioè i suoi. Ci rivela così fra l’altro che non c’è alcuna concorrenza fra l’amore di Dio e l’amore di quelli che lui ci dà: proprio perché siamo in intimità con Dio e conosciamo il suo amore, siamo nella medesima intimità con quelli che lui ci dà.

Il Signore ribadisce che la sua è una scelta libera: potrebbe abbandonare le pecore e salvarsi la vita, invece resta perché proprio nel dare la propria vita per le pecore la riprenderà di nuovo. E per questo suo dono d’amore, colmo di speranza e di fiducia nel Padre, il Padre lo ama. Sembrerebbe che Gesù trovi il senso del proprio esistere nel ricevere la vita dal Padre e nel donarla per quelli che non può sopportare di abbandonare. Ogni servizio civile o ecclesiale, ogni relazione e ogni impegno, trova il proprio discrimine in questo semplicissimo criterio: quando non conviene più, quando non porta vantaggi, onori, risorse, te ne vai abbandonando le pecore al loro destino, oppure resti per il loro bene, costi quello che costi? La prossimità, l’amore, la fraternità, tutto ciò che predichiamo si misura solo sui fatti concreti, su come e quanto facciamo vivere chi ci è affidato.

Vivere in questo modo conduce Gesù alla morte, viene scartato (così la prima lettura) dal suo stesso popolo, ma Dio fa di questo scarto una prima scelta, una pietra angolare, su cui tutti quelli per cui Gesù ha dato la vita possono poggiarsi, salvarsi, gustare l’amore del Padre tanto da essere chiamati figli di Dio (seconda lettura). E così mentre dei mercenari, del tutto disinteressati alla vita del gregge, scartano il pastore buono, Dio lo sceglie facendo proprio ciò che Gesù desidera: riempire di vita i suoi, noi, che già ora siamo figli di Dio ma attendiamo una tale bellezza che non sappiamo nemmeno descriverla, sappiamo solo che saremo simili a lui perché lo vedremo così com’è, pieno di amore e di vita.

Meglio dunque, come ci suggerisce il salmista, rifugiarsi nel Signore che cercare di essere scelti dagli uomini  e dai potenti che così spesso sono solo mercenari, da Dio infatti vengono la vita e la salvezza e ciò che i costruttori scartano diventa pietra angolare, fondamento e riparo per molti. Davvero il Signore è buono e il suo amore è per sempre.

16 - Apr - 2021

III Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

III Domenica di Pasqua (B)

(At 3,13-15.17-19   Sal 4   1Gv 2,1-5   Lc 24,35-48)
Domenica 18 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica sembra raccontarci in un altro modo l’episodio (letto domenica scorsa) di Tommaso, pur senza nominare l’apostolo. Gesù viene in mezzo ai suoi (gli Undici, i discepoli e le discepole). Questi avevano appena sentito il racconto dei due tornati da Emmaus, i quali a loro volta si erano sentiti dire che il Signore era apparso a Simone, eppure di fronte al mostrarsi di Gesù tutti provano di nuovo incredulità e paura. “Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” La domanda di Gesù cerca di ricordare loro quanto già hanno visto e ascoltato, poi li invita – con parole simili a quelle che Giovanni ci racconta rivolte a Tommaso – a guardare e toccare la sua carne e le sue ossa, in particolare là dove esse sono state ferite dai chiodi (mani e piedi). A questo punto è la gioia a renderli increduli – mentre Tommaso aveva fatto subito la sua professione di fede: mio Signore e mio Dio! – tanto che Gesù chiede loro da mangiare: un gesto semplice, quotidiano, che restituisca loro l’intimità nota e allo stesso tempo li faccia rendere conto che non sono di fronte a fenomeni paranormali o a stranezze di chissà quale tipo.

Adesso, sgombrato il campo dalla paura e dalle congetture bizzarre, Gesù indica l’unica via possibile per comprendere la sua vita e la sua Pasqua: scrutare le Scritture. Per la seconda volta in questo ventiquattresimo capitolo del Vangelo di Luca troviamo Gesù impegnato a spiegare le Scritture, che alla luce di quanto è successo mostrano tutta la propria verità e allo stesso tempo aprono oltre se stesse alla vita che sgorga dal fatto che esse si sono compiute. Nelle Scritture infatti (come Pietro spiega nel discorso che troviamo in parte riportato nella prima lettura) era stato preannunciato tutto ciò che in Gesù si è compiuto e quindi sono le Scritture che permettono di leggere fino in fondo nelle pieghe degli avvenimenti e riconoscere nel Risorto il Signore della storia, il servo che Dio ha glorificato. E una volta riconosciuto non si può che esserne testimoni, come Gesù espressamente dice ai suoi nel cenacolo (Vangelo) e come Pietro afferma di sé e degli altri (prima lettura).

Però, come quanto raccontato dalle Scritture trova compimento in Gesù, tanto che in lui si può dare di esse una piena intelligenza, così quanto vissuto da ciascuno (ogni storia) trova compimento in quanto viene testimoniato su Gesù, perché questo è capace di svelare il senso profondo di ogni esistenza e della storia intera. La sua vicenda, il suo Vangelo, ciò che i suoi hanno raccontato fin dall’inizio, diventa compimento per la storia di chi lo incontra oggi e che si trova a rileggere tutto di sé in modo nuovo: senza perdere nulla di quanto ha vissuto, si accorge che Gesù è ciò che lo compie e lo porta oltre.

Osservare la sua parola (come ci dice la seconda lettura tratta dalla prima lettera di Giovanni) fa sì che l’amore di Dio in noi sia perfetto, ma forse osservare la sua parola significa proprio lasciare che quanto ci viene raccontato di lui (il Vangelo) spieghi e compia la nostra storia, in modo che noi possiamo conoscerlo non nei contenuti e nei valori, ma nella concretezza del vivere e dell’amare: proprio per questa conoscenza concreta (e unica per ciascuno) diventiamo testimoni perché anche noi concretamente l’abbiamo incontrato risorto nelle vicende del nostro vivere. In questo modo, anche il peccato non fa più paura, perché non si tratta di mettere in pratica delle regole e quindi di essere giudicati in base alla prestazione che sappiamo tenere, si tratta invece di conoscerlo (o riconoscerlo come devono fare i primi discepoli) proprio nel lasciare che la fede in lui riscriva la nostra vita e il nostro fare. Se siamo su questa strada, se il nostro cuore è sincero in questo senso, anche il peccato che dovesse accadere sarà riletto alla luce del Signore Risorto e ci accorgeremo che proprio lui si fa nostro avvocato difensore (paraclito). Diciamo allora (così come suggerisce il versetto alleluiatico): Signore Gesù, facci comprendere le Scritture (e la nostra storia), arde il nostro cuore mentre ci parli.

09 - Apr - 2021

II Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

II Domenica di Pasqua (B)

(At 4,32-35   Sal 117   1Gv 5,1-6   Gv 20,19-31)
Domenica 11 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Giovanni chiude il suo Vangelo (l’ultimo capitolo è un’appendice successiva) dicendo di aver scritto perché noi credessimo e così potessimo avere la vita. La fede in Cristo Risorto infatti, riconoscerlo vivo e Signore, ci fa entrare nella vita: per questo la chiesa fin dal suo sorgere lo annuncia e per questo gli evangelisti hanno scritto. Perché il discorso non sembri teorico e lontano, la seconda lettura di questa domenica, tratta dalla prima lettera di Giovanni, ci spiega in che cosa consista la vita di chi crede e dove si possa sperimentare e vedere. Chi crede (dice Giovanni) è generato da Dio, cioè ama Dio e quelli che sono nati da lui, tanto che i comandamenti – che altro non sono che amare il prossimo – non ci sono gravosi. Tutto ciò non significa che non abbiamo debolezze o fatiche, ma che sperimentiamo in noi il gusto di amare, di fare il bene, di far vivere, di condividere. Anche la prima lettura (tratta dagli Atti degli apostoli) ci dice che la fede si traduce emblematicamente nel non riuscire più a considerare come proprie le cose che possediamo e possono essere di aiuto ad altri: tutto finisce per essere in comune, perché non si sopporta l’idea che l’altro sia nel bisogno. Lasciando stare quali possano essere le concretizzazioni che questa tensione interiore può avere, perché “vendere i propri beni” per provvedere ai bisogni di tutti si può realizzare in modi diversi e adatti ai nostri modi di vivere e alle nostre configurazioni sociali e legislative, resta il dato di fatto: la fede prende carne nell’amore e così vince il mondo, cioè l’egoismo, l’odio, la divisione, l’avidità, l’indifferenza. Solo lo Spirito ci può spingere gli uni verso gli altri al punto da essere un cuor solo e un’anima sola e vedere un amore così è una tale meraviglia da farci esclamare col salmista: la destra del Signore ha fatto prodezze, una meraviglia ai nostri occhi.

L’annuncio del Vangelo, quindi, è capace di suscitare la fede nel Risorto e questo ci introduce alla vita che solo l’amore è capace di generare. La fede, però, sorge dall’annuncio del Vangelo, cioè dalla testimonianza credibile di chi ci fa toccare con mano (metti qui il dito nel segno dei chiodi!) con la propria vita che l’amore di Dio è reale, fa rinascere, perdona, pacifica. In questo brano del Vangelo di Giovanni ci viene spiegato che non si dà alcun vantaggio fra noi, che possiamo solo ascoltare l’annuncio del Vangelo, e quelli e quelle che hanno visto Gesù risorto: il cammino è lo stesso. Di fronte ad un’esperienza capace di farci riconoscere il Signore (non hanno forse anche i discepoli faticato a riconoscere il Signore? Quanta incredulità, paura, fraintendimenti!) bisogna credere: non è l’evidenza dei fatti che convince i discepoli, ma proprio come accade a noi devono riconoscere in ciò che hanno davanti agli occhi la presenza del Vivente (non è un fantasma, non è un’allucinazione, non è solo un pellegrino che si ferma a cena…). Per questo Tommaso, che pure è uno dei testimoni apostolici e quindi ha le sue ragioni a voler vedere il Signore come era stato per le altre e gli altri, si sente dire che sono beati quelli che crederanno senza aver visto, perché l’essenziale non è quale sia l’esperienza in cui Dio si fa presente, ma la capacità di riconoscerlo come colui che è Risorto dai morti. Questa fede conduce alla vita e diventa carne nell’amore, carne ferita e rigenerata, nelle cui piaghe guarite altri possono infilare il dito per poter poi credere alla potenza del Dio vivente.

Il cammino è lo stesso: riconoscere il Signore e credere che Dio lo ha resuscitato dai morti, ascoltandone l’annuncio di pace. Molte volte però davanti a questa bellezza il nostro cuore rimane freddo, spaventato, ripiegato sulle sue meschinità e legato a perdite, sofferenze, persino a peccati: per questo il Signore comanda ai suoi la remissione dei peccati. Il male, dentro di noi e intorno a noi, non viene tolto: è vinto ma non cancellato. E questa vittoria si gioca proprio sulla nostra capacità di riconoscere l’amore sconfinato di Dio che sempre perdona, rigenera, ringiovanisce. I discepoli erano fuggiti via, anche le donne – sempre fedeli – avevano avuto paura davanti all’annuncio dell’angelo e avevano taciuto (così ci racconta Marco), Pietro aveva rinnegato: davanti a loro il Signore parla di perdono. Non nega il male o il tradimento che ci sono stati (il perdono non è fare finta di niente, parte piuttosto sempre dal riconoscere il male accaduto), ma dà a ciascuno una nuova possibilità, perché forte delle esperienze fatte – anche del proprio limite e del proprio peccato perdonato – porti a tutti l’annuncio della fede che vince il mondo. Come loro noi, oggi, per i quali Giovanni riserva le ultime parole del suo Vangelo: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto. Beati quelli che nelle ordinarie e terribili fatiche della vita hanno occhi e cuore per riconoscere e scegliere la vittoria di Dio su ogni male. Beati quelli che sanno che la morte, che pure così da vicino ci minaccia, è stata vinta.

02 - Apr - 2021

Domenica di Pasqua (B)

Pasqua

Domenica di Pasqua (B)

(At 10,34a.37-43   Sal 117   Col 3,1-4   Gv 20,1-9)
Domenica 04 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’abbondanza della Parola che risuona nella veglia pasquale non è commentabile e forse è bene così: come un fiume in piena deve travolgere i credenti che ascoltano. Come la confessione di un amore durato tutta la vita e raccontato solo alla fine, come il racconto che si fa ai figli di quello che ha significato vederli nascere e
crescere, come lo sguardo che i vecchi hanno troppo carico di persone ed eventi e quindi sempre pronto a commuoversi o a distrarsi: un fiume che sommerge tutto e tutti. Così va ascoltata la parola di questa
notte santa, lasciandole portare via ogni scoria, trattenendo una frase e perdendone mille, ma sapendo che è tutta l’acqua che ci scorre addosso a lavarci, anche se poi ci troviamo ad asciugarci dal corpo solo le ultime gocce.
Di questo fiume cui ciascuno e ciascuna attingerà come può e crede raccogliamo la poca acqua del Vangelo che verrà proclamato nella veglia. Lo commentiamo però integrato dell’ultimo versetto del brano che poco saggiamente è stato tagliato.
Marco, come tutti gli evangelisti, ci dice che sono state le donne ad andare al sepolcro. Prima di entrare nello specifico del suo racconto, notiamo che le donne sono state le prime a portare l’annuncio della resurrezione, cioè esse costituiscono il primo anello della tradizione apostolica, insieme agli altri (compresi i più vicini cui esse vengono espressamente inviate come apostole per annunciare ciò che hanno visto) ai quali Gesù si è mostrato solo successivamente. Esse hanno visto e hanno creduto.
Avevamo trovato queste stesse donne sotto la croce e due di esse a guardare da lontano dove Gesù veniva seppellito: Maria di Magdala
sempre indicata per prima, come quella più autorevole di tutte. Alla croce, al sepolcro che viene sigillato (si domandano infatti mentre
vanno alla tomba: chi ci rotolerà via la pietra?) e al sepolcro vuoto, troviamo sempre loro: testimoni di tutto. Entrano nel sepolcro aperto
e si spaventano nel trovare un giovane coperto da una veste bianca, ma questi – come sempre quando si è davanti ad una parola che viene da
Dio – le invita a non temere e poi dice loro di andare a dire a Pietro e agli altri che il Signore è risorto e li precede in Galilea. Da come
il testo è stato tradotto in italiano non è chiaro, ma la parola del giovane è rivolta anche alle donne: andate e dite a Pietro che il Signore vi precede in Galilea. Esse sono state testimoni di tutto, ricevono il compito di portare il primo annuncio e vengono ricomprese fra quei discepoli che devono tornare in Galilea (anch’esse infatti, ci ha detto Marco, venivano da lì). Le donne però si spaventano e non dicono niente a nessuno. Questo è quanto ci dice il versetto che è stato tagliato e che chiude il racconto. Le donne, fin ora cariche di caparbia fedeltà, si spaventano così tanto che sembrano venir meno proprio ora e tacciono l’annuncio più importante: così Marco chiude il proprio Vangelo, visto che i racconti delle apparizioni che seguono sono un’appendice successiva.

Perché, però, Marco sigilla nel silenzio delle donne l’annuncio della resurrezione? Perché finisce così il proprio Vangelo, quasi rimettendo
la pietra davanti al sepolcro? Forse per aiutare noi a fare nostra questa parola. La conclusione di Marco infatti, evidentemente, non racconta la fine della storia, perché – per forza – dobbiamo concludere che le donne hanno vinto la propria paura e sono andate a portare l’annuncio che era stato loro affidato. Se così non fosse stato, come tale annuncio sarebbe arrivato fino a noi? Nonostante questo Marco si ferma sulla loro paura e sul loro silenzio e si volge verso di noi: cosa ne facciamo dell’annuncio che abbiamo ricevuto? dove sono la gioia e lo stupore di questo giorno? chi ne annuncerà la straordinaria bellezza? Si può guardare il Signore vivere e morire, si può entrare nel sepolcro vuoto, comprendere che egli non è tra i morti, eppure rimanere spaventati e silenziosi. Se così fosse, se la buona notizia che è entrata nella nostra vita non venisse ripetuta ad altri, nessuno saprebbe, nessun altro potrebbe incontrare il Signore risorto, lui stesso affida la sua salvezza alla testimonianza dei suoi. In questo giorno in cui gioiamo della resurrezione del Signore, bisogna ricordarci che questa gioia non è per noi, ma per tutti, e così occorre che paura e stupore non ci zittiscano, ma che la vita che abbiamo incontrato racconti il Vangelo nelle nostre opere e nelle nostre parole. Solo così il mondo intero saprà che non c’è sepolcro che tenga, né pietra che non possa essere rotolata via: morte e vita
si sono affrontate a duello e il Signore è risorto e aspetta tutti e tutte altrove. Ora lo sappiamo, cosa faremo?

16 - Mag - 2020

VI Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

VI Domenica di Pasqua

(At 8,5-8.14-17   Sal 65   1Pt 3,15-18   Gv 14,15-21)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche in questa domenica la Parola ci offre uno stralcio del lungo discorso di addio che Gesù fa, così come è riportato dal Vangelo di Giovanni. E se domenica scorsa ci parlava del cammino per arrivare lì dove ci ha preparato un posto, indicando se stesso come via per andare al Padre e compiere le sue opere, oggi ci spiega che in questo cammino non saremo soli, perché lui stesso abiterà in noi.

Seguiamo il Vangelo nel quale il Signore dice: se mi amate, osserverete i miei comandamenti, io pregherò e il Padre vi darà un altro Paraclito, lo Spirito di verità, perché rimanga con voi per sempre. Chi ama Gesù ne segue i comandamenti, cioè ama come lui. Questo accade non per costrizione ma semplicemente per amore: quando si è amici di qualcuno si desidera ciò che l’amico desidera, si vuole renderlo felice, si osserva, cioè si rispetta, ciò che lui ritiene importante. Così accade quando si ama Gesù. A questo il Signore aggiunge un dono: a quelli che lo amano è promesso lo Spirito di verità. Questo Spirito è lo stesso che ha mosso Gesù, che ne ha ispirato le idee e le parole, che lo ha spinto ad amare e dare se stesso. Questo stesso Spirito ora viene dato a noi, rimane presso di noi ed è in noi. Per questo, una volta ricevuto lui in dono, possiamo dire che il Signore Gesù è in noi. Con lo Spirito infatti possediamo il segreto profondo della interiorità di Gesù, veniamo mossi a pensare, sentire, scegliere, vedere, amare come lui ha fatto, proprio perché in noi c’è lo stesso Spirito che ha abitato lui. Il mondo non può conoscere questa dinamica, perché non si trova nell’intimità dell’amicizia con il Signore e quindi non riconosce lo Spirito di lui, il suo amore in noi. Noi, invece, che abbiamo conosciuto il Signore possiamo accorgerci quando il suo Spirito ci muove a vivere come lui, cioè ci fa amare come lui.
Domenica scorsa il Signore ci aveva promesso di condurci al Padre, nel grembo del Padre, oggi ascoltiamo che ciò accade perché noi dimoriamo in Gesù e lui dimora nel Padre, portandoci con sé dentro di lui. A questo mistero già straordinario oggi si aggiunge la promessa dello Spirito che dimora in noi. Non solo noi dunque dimoriamo con Gesù nel grembo del Padre, ma siamo anche abitati dallo Spirito e quindi diventiamo dimora di Dio. Non solo Dio si fa spazio di vita per noi, ma vuole – nella reciprocità tipica di ogni amore – che noi ci facciamo spazio di vita per lui.
E così chi ama il Signore (cioè chi dimora in lui osservandone la parola e credendo in lui) sarà amato dal Padre e dal Signore (verrà ricoperto cioè dall’Amore del Padre e del Figlio che è lo Spirito Santo) e così riposerà nel grembo del Padre e allo stesso tempo porterà in sé lo Spirito che rende presente in noi Gesù, il quale sempre rende presente il Padre. Se amiamo Dio infatti dimoriamo in lui e lui, poiché ci ama, dimora in noi. Non si tratta di una relazione esteriore e formale, ma di una compenetrazione reciproca, al punto che noi viviamo in Dio anche quando non ce ne accorgiamo e lui vive in noi.
La vita cristiana non consiste nel credere in un Dio (anche buono) cui rendere conto e cui affidarsi, è un’intimità profonda con il mistero d’amore che Gesù ci ha rivelato, un’intimità che ci immerge in Dio stesso e che ci fa scoprire abitati da lui, illimitatamente amati.
Questa è la speranza che anima i cristiani e di cui dobbiamo essere sempre pronti a rendere ragione (come leggiamo nella prima lettera di Pietro) e questa speranza ci spinge ad operare il bene anche quando questo non ci dovesse portare vantaggi, perché lo Spirito che ci abita è lo stesso che ha abitato il Signore Gesù e così ci troviamo dentro lui stesso, che ci muove a vivere e ad amare. Senza questo Spirito non c’è vita cristiana, anzi non c’è vita. Per questo nel libro degli Atti ci vengono raccontate almeno tre Pentecosti, la seconda delle quali (di cui leggiamo oggi) accade ai samaritani, lontano da Gerusalemme e dai giudei ortodossi, perché lo Spirito scende ovunque trova cuori disposti a lasciarsi riempire dallo stesso amore che ha mosso Gesù e così poter vivere la vita di lui: “perché io vivo e voi vivrete”.
Davanti ad un tale dono, lasciamo la parola al salmista: “Venite e ascoltate, narrerò quanto per me ha fatto. Sia benedetto Dio, che non ha respinto la mia preghiera e non mi ha negato la sua misericordia”. Apriamoci, allora, allo stupore di essere abitati da Dio e di dimorare in lui, per essere in mezzo al mondo il segno dell’amore sconfinato del Padre.
09 - Mag - 2020

V Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

V Domenica di Pasqua

(At 6,1-7   Sal 32   1Pt 2,4-9   Gv 14,1-12)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Diventare cristiani vuol dire mettersi in cammino. Nel Vangelo di oggi Gesù, preparando i suoi al momento in cui non potranno più vederlo e parlarci così come sono abituati a fare, indugia sul cammino che essi (e noi) devono compiere. Anzitutto promette la meta: vado a prepararvi un posto. Siamo rimasti soli, il Signore se ne è andato, ma non si è allontanato, anzi è là dove dobbiamo andare a preparare il posto per noi, quindi tornerà a prenderci, anche se ci dice che già conosciamo la strada da fare per raggiungerlo. Alla domanda di Tommaso (che forse possiamo fare nostra) su come facciamo a conoscere la via se non sappiamo nemmeno dove va, Gesù risponde svelandoci che il luogo nel quale ci prepara un posto è il Padre (il grembo del Padre da cui lui è venuto è il luogo di vita in cui tutto è chiamato ad entrare) e che la via è lui, perché vivendo in lui (rimanendo in lui) siamo già una cosa sola col Padre e possiamo fin d’ora compiere le sue opere, cioè dare la vita al mondo.

A questo punto la seconda lettura, tratta ancora dalla prima lettera di Pietro, ci aiuta a comprendere come “rimanere” in Cristo e come compiere le opere del Padre tramite l’immagine dell’edificio. Cristo, la sua parola, la sua vita, il suo stile, è la pietra angolare alla quale lo Spirito, se lo assecondiamo, ci stringe, costruendoci insieme come pietre vive, stretti gli uni agli altri e fondati su di lui fino ad essere appunto un edificio “spirituale” (dello Spirito cioè). Questa è la chiesa: i credenti cementati dallo Spirito ed edificati sul Signore risorto e il suo Vangelo. Perché, però, la chiesa possa essere l’edificio spirituale che offre se stesso (sacerdozio regale) per umanizzare il mondo (nazione santa) annunciando il Vangelo con la vita e le parole (e compiere così le opere del Padre), occorre che essa custodisca l’unità.
E quindi di fronte agli inevitabili problemi che fanno sorgere conflitti (come vediamo raccontato nella prima lettura tratta dal libro degli Atti) essa, proprio per custodire l’unità che ha ricevuto, deve confrontarsi, cercare soluzioni condivise, decidere insieme, cambiare o ideare ciò che serve a vivere (questa prima chiesa istituisce un ministero nuovo, il collegio dei sette, semplicemente perché serviva alla vita dei credenti).
Questa unità concreta e reale, fatta di vita, di scontri, di incomprensioni, di sincerità, di amore reciproco e ricerca del bene, di condivisione di scelte e responsabilità, rende la chiesa capace di moltiplicarsi perché ciò che annuncia appare immediatamente evidente nella vita di coloro che testimoniano il Vangelo: solo Dio può raccogliere in unità uomini e donne tanto diversi, che pur fra mille difficoltà desiderano essere un corpo solo, responsabilmente e attivamente, per porsi a servizio del mondo anche quando questo li respingesse. Chi vede questo non può non riconoscere come vero ciò che viene annunciato. Si compie così la parola del Signore che chiude il Vangelo di questa domenica: “Chi crede in me, anche egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi”.
01 - Mag - 2020

IV Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

IV Domenica di Pasqua

(At 2,14.36-41   Sal 22   1Pt 2,20-25   Gv 10,1-10)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel capitolo decimo del Vangelo di Giovanni Gesù usa due allegorie per parlare di sé: quella del pastore (che questa domenica troviamo solo nel versetto del canto al Vangelo, nel salmo e in fondo alla seconda lettura) e quella della porta dell’ovile, immagine cui è dedicato il Vangelo di oggi. Gesù è la porta dalla quale uscire e trovare vita. Non possiamo negare che leggere questo in un periodo in cui siamo chiusi in casa, ma ci avviamo almeno in parte ad uscire, è suggestivo, come se il Signore ci desse la speranza che usciremo per trovare vita e non morte. Ma a prescindere da questa contingenza che ci tocca, il brano richiama l’essenziale della vita della chiesa: tutti quelli che hanno accesso al gregge (tutti quelli cioè che vogliono parlare col popolo, prendersi cura del popolo, guidarlo, consigliarlo o anche solo rivolgersi ad esso) o sono ladri e briganti oppure passano dalla porta. Non ci sono altre possibilità: o è un ladro che viene a fare danno al popolo o passa dalla porta. E la porta è Gesù.

Chiunque viene al popolo come un pastore che conduce alla vita (non intendo qui solo i ministri ordinati, ma tutti quelli che si curano del popolo e che lo cercano) annuncerà Gesù (ogni vero pastore del popolo fa questo fin da quel primo discorso di Pietro riportato nella prima lettura: “Dio ha costituito Signore quel Gesù che avete crocifisso”) e insegnerà lo stile di lui (come leggiamo nella prima lettera di Pietro riportata nella seconda lettura) che ha portato le sofferenze ingiuste con pazienza, cioè affidandosi a Dio e disponendosi ad aspettare per vedere la giustizia, senza cedere alla violenza e alla vendetta.
Forse per comprendere ancora meglio questa lettura può essere utile richiamare la XIII ammonizione di san Francesco, nella quale questo maestro di vita spirituale ci dice – in sintesi – che sapremo se siamo umili e pazienti non quando la vita ci dà soddisfazione, ma quando non ci verrà dato ciò che ci spetta. Allora, davanti alla privazione di ciò che ci serve per vivere, se reagiremo con umiltà, facendoci piccoli e quindi restando nel bisogno invece che pretendere e rivendicare, e se reagiremo con pazienza, dando a Dio il tempo di darci quello che ci serve e sperando nel suo amore, allora sapremo di fare lo stesso cammino di Cristo.
Chi passa dalla porta per condurre il gregge alla vita, però, non solo parla di Gesù e insegna ad essere come lui, ma ancora di più ha lo stile di Gesù, perché passare dalla porta vuol dire fare di Gesù la propria via e il proprio cammino, prenderne la forma. Chi vive così va dal gregge per condurlo alla vita, perché mentre il ladro viene per distruggere, il Signore, di cui il pastore prende lo stile, è venuto perché abbiamo la vita. Su questa vita che Dio vuole per noi si ferma il salmo con molte bellissime immagini: pascoli erbosi, acque tranquille, riposo, guida nel cammino, sicurezza nel buio, cibo, vino, olio, un luogo per vivere a lungo.
Quando gli uomini e le donne comprendono questo – perché i pastori (ripeto: non solo i ministri ordinati ma tutti quelli che vogliono andare dal gregge) vivono e parlano passando per la porta che è Gesù -, allora ascoltano la voce di chi parla, perché il suo messaggio diventa credibile e carico di buone notizie. Altri, anche se vengono in mezzo al gregge, non li ascolteranno.
Anche noi in questo momento, sulla soglia della casa in cui siamo chiusi da tanto, sentiamo molte voci: quali di queste parlano di Gesù e hanno il suo stile, mite, paziente e pronto a dare se stesso perché gli altri abbiano vita? Il Vangelo ci chiede di fare discernimento, per poter entrare, uscire e trovare pascolo.
24 - Apr - 2020

III Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

III Domenica di Pasqua

(At 2,14.22-33   Sal 15   1Pt 1,17-21   Lc 24,13-35)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Molte volte, mentre lo metto a letto, il mio figlio più piccolo mi chiede come facciamo a credere che uno è risorto dai morti. Mi fa mille intelligenti domande, cui io cerco di dare qualche risposta almeno accettabile. Proviamo ad ascoltare con l’animo trasparente dei bambini, ma anche con la loro intelligenza fresca, pronti a mettere in discussione per comprendere, l’annuncio che la chiesa ripete fino allo sfinimento in questi cinquanta giorni: “Questo Gesù Dio lo ha resuscitato” (anche la prima lettura di questa domenica ripete questo annuncio, quello risuonato per la prima volta sulla bocca di Pietro dopo che tutti i discepoli e le discepole che erano nel cenacolo erano usciti e avevano proclamato le grandi opere di Dio e i presenti li avevano sentiti parlare ognuno nella propria lingua).

Come è possibile credere una cosa del genere? Facciamo attenzione a quella fede troppo veloce, che somiglia all’affidamento cieco degli scaramantici: non posso capire ma ci credo perché mi fa sentire meglio. Se facciamo così – e a volte lo facciamo tutti, è umano e comprensibile – rischiamo di credere qualcosa che non ci cambia la vita, che non la tocca: allora può succedere che viviamo come se non avessimo alcuna speranza anche se diciamo di credere.

Nella seconda lettura Pietro cerca di farci rendere conto della portata dell’annuncio che abbiamo ricevuto: avevamo ereditato una condotta vuota incapace di darci la vita piena e siamo stati liberati dalla Pasqua di Cristo. La morte e la resurrezione di lui ci danno una speranza che ci rivolge a Dio e che ci fa camminare nella storia consapevoli che questa non è la nostra patria. Non è, infatti, la logica del mondo quella che dobbiamo assumere né la sua disperazione o il confidare nella violenza e nel potere, ma come stranieri attendiamo che il cammino ci conduca alla vita che ci è stata promessa e (come leggiamo nel salmo) sappiamo che il Signore ci porterà infallibilmente alla meta e che non ci abbandonerà: ciò che ci attende è il sentiero della vita, gioia piena alla presenza di lui, dolcezza senza fine.
Tutto questo è vero se è vero l’annuncio del Vangelo. Ma come facciamo a crederci? “Come facciamo, mamma, a sapere che non è una storia inventata da qualcuno per sentirsi meglio, perché la morte fa paura?”. Così il mio figlio più piccolo, ma lo hanno chiesto anche gli altri a loro tempo e ancora oggi hanno altre domande che chiedono – giustamente! – le ragioni di questa speranza.
Per trovare queste ragioni possiamo andare al Vangelo di domenica. I discepoli di Emmaus sono disillusi: avevano sperato che fosse Gesù a liberare Israele, ma i capi lo avevano fatto condannare a morte e lui era morto come tutti. Come se non bastasse delle donne – ma si sa: le donne sono facili a parlare e non sono affidabili (questa la mentalità del tempo, sperando che non sia più la nostra) – avevano parlato di resurrezione, ma come si fa a credere a questo? Questi discepoli sono stati con Gesù, lo hanno conosciuto, hanno ricevuto l’annuncio dalle testimoni che Gesù si è scelto, eppure non riescono a credere: dai morti non si risorge, lo sanno tutti. Gesù ascolta, di fianco a loro, i loro discorsi. Ascolta anche noi, le nostre farneticazioni, le nostre paure, le nostre incomprensioni. Tanto noi ci stanchiamo di ascoltare le chiacchiere e quelle che ci sembrano le stupidaggini degli altri, tanto lui è paziente. Ascolta. E poi, con grande schiettezza, ci dà degli stolti. Non crediamo all’annuncio del Vangelo, non ci sembra possibile (oppure ci crediamo con affidamento cieco senza farlo veramente nostro) perché non conosciamo le Scritture, non ci affidiamo cioè a ciò che Dio dice, al suo modo di leggere la storia e di spiegare le cose. E senza le Scritture siamo stolti, senza sapienza. Se ascoltassimo la Parola di Dio e guardassimo la vita alla luce di questa parola, ci accorgeremmo che la vita non muore, che Dio fa risorgere continuamente…e così l’annuncio della resurrezione di Gesù non ci sembrerebbe così incredibile.
Poi, però, se si prende il gusto di ascoltare questa parola, allora non si vorrebbe mai smettere: resta con noi. Dovrebbe essere la nostra richiesta struggente ogni volta che ascoltiamo la Parola, come diremmo ad un amico che amiamo e che sappiamo che non rivedremo per tanto tempo: resta ancora un po’.
Le Scritture ci istruiscono a cogliere la logica profonda di Dio, ci fanno comprendere i suoi pensieri, ci mostrano la nostra vita e tutta la realtà così come le vede lui, allora, quando queste ci hanno aperto le orecchie, siamo pronti anche per riconoscere il Signore vivo in mezzo a noi, per vederlo. I discepoli infatti, colmi della Parola ascoltata, si mettono a tavola con Gesù e lui spezza il pane: questo gesto, per i loro cuori nutriti dall’ascolto della Parola, diventa un’evidenza e lo riconoscono.
Quali sono, allora, i gesti in cui noi possiamo riconoscere il Risorto vivo in mezzo a noi? Quelli che lui ha scelto: spezzare il pane insieme per essere fratelli e sorelle, lavarci i piedi gli uni gli altri. Ogni volta che vediamo questo, istruiti dalla Scrittura, i nostri occhi si aprono e noi riconosciamo il Signore presente e vivo. Ogni volta sapremo che lui è vivo e che l’annuncio della resurrezione è vero. La nostra stessa vita, liberata dalla morte e diventata luogo in cui spezzare il pane e lavare i piedi, ne è la prova. Io guardo il mio bambino (e i miei figli tutti) ogni sera e so che il Signore è vivo per l’amore che mi è dato di vivere, per il pane condiviso, per i piedi lavati, e per una parola che dà senso a tutto e che, scritta duemila anni fa, racconta per filo e per segno le mie giornate. Questo è vero per ogni credente.
Allora, come i due pellegrini di Emmaus, andiamo entusiasti dal resto della chiesa e ci sentiamo fare di nuovo l’annuncio: davvero il Signore è risorto! Ma questa volta crederemo, perché lo sappiamo già. Lo abbiamo incontrato, lo abbiamo ascoltato e lo abbiamo riconosciuto mentre spezzava il pane.
17 - Apr - 2020

II Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

II Domenica di Pasqua

(At 2,42-47   Sal 117   1Pt 1,3-9   Gv 20,19-31)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tempo di Pasqua ci offre l’opportunità di meditare non tanto sulla resurrezione del Signore, ma su come possiamo sperimentare la sua presenza. A questo scopo, i Vangeli (per lo più tratti da Giovanni) si accompagnano alla prima lettera di Pietro, che spiega in cosa consista la vita cristiana iniziata con il battesimo e come questa si dispieghi nel tempo della prova, e agli Atti degli apostoli, in cui la prima chiesa impara, guidata dallo Spirito, a porre gesti e parole nei quali quello che è stato vissuto con Gesù possa essere di nuovo un’esperienza concreta da fare insieme e da trasmettere ad altri.

Il Vangelo di questa domenica ci insegna il passaggio fra la fede che sorge dall’aver visto il Signore (attenzione che si tratta sempre di fede: le apparizioni del Risorto non costringono, non dimostrano nessuna verità in modo inconfutabile, ma chiedono di credere) e la fede che sorge senza aver visto. D’altra parte solo chi aveva conosciuto Gesù prima della sua passione poteva credere vedendolo risorto: cosa avrebbero potuto riconoscere e comprendere dell’apparizione del Risorto quelli che non l’avevano seguito?
Il Vangelo ci racconta che Tommaso non era presente quando Gesù si mostra ai discepoli e (come biasimarlo?) se ne rammarica: non è anche lui uno di quelli che sono stati con lui? Lui può credere vedendolo: perché gli deve essere negato? Infatti Gesù si mostra al suo discepolo otto giorni dopo e Tommaso professa subito e senza toccare (al contrario di quanto aveva detto in un primo momento) la propria fede: mio Signore e mio Dio. Gesù però prende lo spunto da qui per insegnare che da questo momento in poi, per quelli che verranno, la fede nascerà non dal vedere, ma dall’ascolto dell’annuncio. Infatti il quarto evangelista in quella che è la conclusione del suo Vangelo (prima dell’ultimo capitolo che è di fatto un’appendice) spiega che il libro che stiamo leggendo (e con esso i libri del Nuovo testamento e tutta la predicazione di questi discepoli) è stato scritto perché crediamo e credendo abbiamo la vita nel nome di Gesù. Da questo momento in poi la chiesa ripete le parole di Gesù e su Gesù perché gli esseri umani credano e, riconoscendolo vivo in mezzo a loro e per loro, abbiano la vita.
Non solo le parole, però, rendono presente il Signore, perché la fede che nasce dall’annuncio porta a compiere gesti e si trasforma in vita vissuta. Così gli Atti degli apostoli (seppure in modo stilizzato e forse idealizzato) ci presentano la prima comunità che ascolta l’annuncio, prega, spezza il pane, condivide i beni. I credenti imparano così che il Risorto è presente in ciò che loro vivono e condividono: parole che parlano di lui, parole rivolte insieme a Dio, pane condiviso nella preghiera e nella vita, perdono dei peccati (gesto menzionato da Gesù che compare in mezzo ai suoi discepoli, tutto preoccupato di annunciare la pace e la riconciliazione: non era tornato per giudicare chi l’aveva abbandonato o tradito o ucciso, ma per dare la vita).
Le parole e i gesti del Risorto, quindi, lo rendono presente e così i cristiani diventano consapevoli – con una gioia immensa che il salmo ci invita con forza ad esprimere – di avere una speranza che non può essere distrutta, qualsiasi prova li affligga (arriviamo così alla prima lettera di Pietro). Abbiamo infatti, anche in mezzo alle tribolazioni, che le vicende della storia e gli esseri umani ci impongono, la possibilità di incontrare il Risorto, di ascoltarne le parole e vederne i gesti. E così, fermi nella fede, le prove della vita diventano, paradossalmente, l’occasione per purificare le scorie che ancora rimangono e vedere poi risplendere, come l’oro passato nel fuoco, il dono che ci è stato fatto.
Siamo in un tempo di pandemia, molti soffrono, troppi muoiono, il lavoro è minacciato, gli affetti difficili, non possiamo vederci, muoverci, celebrare: quali scorie dobbiamo bruciare in questo fuoco? Quali ingiustizie? Quali sprechi? Quali disuguaglianze? Quali freddezze e indifferenze? Quali prassi ecclesiali oramai inutili o dannose per l’annuncio del Vangelo e per la realizzazione di una fraternità vera? Il male non viene mai da Dio, ma Dio può – se assecondiamo la potenza del suo Spirito – ribaltare il male in altro, rendendo persino la morte un’opportunità di vita: Gesù affronta la morte ingiusta subita dagli uomini in questo modo, sperando che Dio la trasformi in resurrezione per tutti. Un fuoco che purifica la fede e la vita, in attesa che la gloria di Dio si manifesti finalmente e trionfi su ogni male.