Tag Archive » Santo Spirito

Home » Santo Spirito » Page 12
09 - Ott - 2020

XXVIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVIII Domenica T.O. (A)

(Is 25,6-10   Sal 22   Fil 4,12-14.19-20   Mt 22,1-14)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Regno di Dio (cioè la sua opera di vita e di salvezza) è come un banchetto di nozze. Così comincia il Vangelo di questa domenica. Non un banchetto qualunque, precisa Gesù, ma un banchetto da principe (perché si sposa il figlio del re): buoi, animali ingrassati, “un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (per usare le parole della prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia). Il Regno di Dio, il suo farsi presente nella storia e nella nostra vita, è descritto quindi come una festa meravigliosa, colma di abbondanza, di profumi e sapori buoni, un luogo di ebbrezza allegra, perché la morte (ogni morte) verrà eliminata, la vergogna scomparirà e ogni lacrima verrà asciugata.

In modo del tutto inaspettato, però, gli invitati ad un tale banchetto non vogliono andare, credono di avere di meglio da fare: chi il proprio campo, chi i propri affari. Alcuni sono talmente infastiditi dall’invito che percuotono e uccidono chi lo porta. Sembrerebbe assurdo, ma invece è l’ordinaria dinamica del dono d’amore. Quando infatti si ama qualcuno (vale per noi come per Dio) e gli si offre di condividere la nostra vita con quello che siamo, tale dono d’amore non giunge a buon fine (non si può fare festa!) se l’altro non l’accoglie (se non accetta l’invito). Anche Dio ci offre senza sosta la sua vita da condividere (la festa del suo figlio, le sue ricchezze), ma non può fare festa se noi non riconosciamo il valore del suo dono, se crediamo di avere di meglio da fare per vivere. E così la festa resta vuota e il dono sprecato.
Dio da parte sua non cessa di amare e di cercare, lascia però alle proprie scelte coloro che non sono degni dell’invito ricevuto. La loro indegnità non dipende dal fatto che siano cattivi (alla festa poi entrano buoni e cattivi ci dice la parabola), ma dal fatto che non vogliono essere amati perché incapaci di riconoscere nell’amore che gli viene offerto e nella vita che gli viene partecipata qualcosa che valga la pena di accogliere: non sanno dare valore cioè al dono che gli viene fatto. Dio li lascia a se stessi (continua la parabola), perché la libertà di ciascuno è inviolabile, e va a fare festa con quelli che sanno accogliere l’invito e sanno onorarlo (andare senz’abito nuziale vuol dire forse non aver compreso l’onore che ci è stato fatto). E se è vero (come meditavamo due domeniche fa) che è sempre possibile convertirsi e trovare un posto alla festa, è anche vero che il tempo perduto e l’amore non goduto ci fanno un danno incalcolabile e ci tagliano fuori dalla pienezza della vita (potremmo leggere così l’esercito che viene mandato a distruggere chi non accetta l’invito: semplicemente rifiutare i doni di amore non ci fa vivere).
Capita anche nelle relazioni umane. A volte qualcuno dimostra di non essere degno del dono che gli viene offerto: pensiamo ad un marito che picchia la moglie o ad un adulto che abusa di un giovane o di un amico che tradisce gravemente l’affetto di chi gli si è affidato. Il dono di amore che era stato loro rivolto non viene accolto ma calpestato come se l’altro e la sua vita non valessero nulla: in questo caso non si può far altro che constatare che non ne erano degni e offrire ad altri il proprio amore.
Paolo, al contrario, in questi pochi versetti della lettera ai Filippesi, ci testimonia di aver compreso il senso profondo di ogni dono, che non è avere qualcosa o avere potere su qualcuno (sono allenato a tutto, alla sazietà come alla fame), ma contemplare nel dono l’amore dell’altro per onorarlo adeguatamente corrispondendolo e quindi festeggiare la vita che si condivide. Questo è proprio lo sguardo che Dio ci chiede di avere quando ci offre il suo Regno e con esso ogni dono: contemplare nella bellezza di quanto ci viene dato il suo amore per ricambiarlo e godere così la festa della vita che ci unisce a lui. Allora potremo cantare con il salmista: non manco di nulla, l’anima mia è rinfrancata, non temo alcun male, davanti a me hai preparato una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghissimi anni.
01 - Ott - 2020

XXVII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVII Domenica T.O. (A)

(Is 5,1-7   Sal 79   Fil 4,6-9   Mt 21,33-43)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ancora una volta il Vangelo, per la terza settimana di seguito, ci parla di una vigna in cui bisogna lavorare. Se due settimane fa l’accento era posto sulla bontà del padrone che dona a tutti gli operai, anche a chi ha lavorato un’ora soltanto, quello che serve loro per vivere, la settimana scorsa ci veniva messa di fronte la risposta diversa dei due figli: uno che dice no e poi va a lavorare e l’altro che dice sì ma non ci va. Oggi ci troviamo di fronte dei vignaiuoli che sono al lavoro per i motivi sbagliati, similmente agli operai della prima ora che rimangono delusi della loro paga e similmente al figlio che non comprende il privilegio di poter lavorare nella vigna e che dice un sì senza consistenza.

Questa volta Gesù parla della vigna facendo evidentemente riferimento al suo popolo e riprendendo così un’immagine (cara al Primo testamento) che nella prima lettura del profeta Isaia ci viene ripresentata in modo ricco ed estremamente poetico, quasi la vigna fosse un’innamorata custodita e curata in ogni modo, ma incapace di rispondere all’amore ricevuto con frutti adeguati. Nella parabola di Gesù, però, l’attenzione non è sulla vigna che non produce frutto, ma sui vignaiuoli, cioè su coloro che sono stati mandati dal padrone a lavorare nella vigna che lui ha tanto a cuore.
Forse Gesù si riferisce qui ai capi di Israele che non l’hanno saputo custodire, oggi potremmo applicarlo a tutti coloro che hanno responsabilità ecclesiali o civili, ma anche a ciascun credente al quale viene affidata la vigna del Signore, cioè l’umanità intera, le persone che ha di fianco, la propria vita e l’ambiente in cui tutti viviamo. Dio ha piantato la vita ovunque, l’ha custodita (la circondò con una siepe) e sorvegliata (ha costruito una torre), ma i servi cui l’ha lasciata non si sono preoccupati di mostrare a lui i frutti di ciò che lui aveva piantato, anzi hanno malmenato e ucciso tutti quelli (compreso il Figlio) che, per conto del Signore, venivano a ricordare che ciò che era stato loro affidato doveva  prosperare (questo significa fare frutti).
Non serve lavorare nella vigna, allora, senza ricordare che questa è stata piantata da Dio e che ci è stata affidata perché viva e sia feconda. Inutile dire sì, inutile persino andare a lavorare, inutile faticare sotto il sole fin dalla prima ora, se invece di servire perché tutto cresca, deprediamo perché tutto muoia: la nostra vita e quella intorno a noi. Se facciamo così, Dio interverrà, questo è il monito di Gesù, toglierà i doni fatti dalle mani di chi li distrugge e li darà a chi saprà custodirli. Ciascuno di noi, cui è affidato un tralcio della vigna del Signore, non può fare a meno di domandarsi di fronte a questa parola se stia facendo vivere ciò che gli è affidato o se lo stia devastando.
Forse la seconda lettura (ancora la lettera ai Filippesi) ci aiuta a sintonizzare il cuore sugli atteggiamenti giusti per assumere il lavoro della vigna, così come ha fatto Gesù (per avere i suoi sentimenti, leggevamo domenica scorsa): non angustiatevi (perché l’angoscia porta a fare violenza pur di sentirsi rassicurati) ma presentate a Dio tutti i vostri bisogni e lasciate che i vostri pensieri siano  pieni solo di ciò che giusto, nobile, vero, amabile, mettendo in pratica quanto ascoltato. Lasciandoci riempire cioè dai doni che Dio fa e dalle parole che li accompagnano, potremo godere di quella pace che viene da Dio e che non toglie le fatiche e i timori, ma ce li fa affrontare sapendo che la vita non dipende da noi, che la vigna non è nostra, ma che noi dobbiamo solo prendercene cura perché viva e così rallegri noi e il Padre che tanto la ama.
Oggi è la festa di Francesco di Assisi, che ha vissuto proprio così, sperimentando e offrendo una pace non priva di sofferenze e tormenti, ma, in mezzo a questi, solidamente radicata nella certezza di essere immerso nell’amore del Padre che tutto fa vivere e che lo chiamava a voler anche lui far vivere tutto e tutti, ad essere un vignaiolo gioioso e operoso, circondato da tutto ciò che cresce e vive grazie al quotidiano e umile impegno di ogni giorno.
26 - Set - 2020

Per riflettere sulla Chiesa in vista del nuovo Anno Pastorale

Card.Gualtiero Bassetti

 

Alcune domande che il nostro cardinale ha voluto condividere in seno alla Chiesa Italiana affinchè lo Spirito Santo che custodisce ognuno, ci guidi in un cammino comunitario di Salvezza: “Camminare insieme su strade nuove”.

 

 

 

  • Come proporre un nuovo incontro con il Vangelo, come annunciarlo con parole e gesti credibili?
  • Come aiutarci a superare rassegnazioni e luoghi comuni, per rileggere da una prospettiva di fede anche questa stagione di angoscia e desolazione?
  • Attorno a quale nucleo essenziale ripensare nelle nostre comunità ecclesiali percorsi possibili di catechesi e di maturazione della fede?
  • Quali aspetti curare maggiormente nella formazione permanente dei nostri sacerdoti, quali processi favorire?
  • Quali passi ci attendono per vivere maggiore collegialità episcopale e comunione ecclesiale?
  • Quale contributo assicurare alla società italiana per rimuovere le cause della povertà, favorire l’inclusione di vecchi e nuovi poveri e far sì che nessuno sia escluso o resti indietro?
  • Al di là di ogni tentazione di chiusura difensiva e autoreferenziale, come valorizzare al meglio i circuiti relazionali in cui siamo immersi e costruire alleanze tra soggetti e istituzioni?
  • A cinque anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, quale approfondimento proporne e quali scelte assumere per recuperare un rapporto buono con sé, con gli altri, con il creato e con Dio?
25 - Set - 2020

XXVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVI Domenica T.O. (A)

(Ez 18,25-28   Sal 24   Fil 2,1-11   Mt 21,28-32)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Quando Dio guarda i suoi figli e le sue figlie, quando guarda ciascuno di noi, non emette mai un giudizio, né ci dà un’etichetta che ci classifichi. Quando Dio ci guarda vede il nostro cammino, vede i nostri slanci, le nostre cadute, il bene che abbiamo saputo fare, i tradimenti. Quando ci guarda Dio vede la trama della nostra storia e non dà per scontato il finale, anche quando noi non siamo nemmeno capaci di pensare che possiamo cambiare o aprici al nuovo. Così (rileggendo la prima lettura del profeta Ezechiele) Dio spera che il malvagio si converta trovando la via che lo fa vivere e quando vede che il giusto invece se ne allontana, comincia a sperare che si ravveda, indicandogli (come canta il salmo) la via giusta: continuamente, insistentemente, senza stancarsi.

Nel Vangelo questo modo di essere di Dio ci viene dipinto nell’immagine del Padre che dice ai figli di lavorare nella propria vigna (richiamandoci la parabola di domenica scorsa). Un figlio dice di no al padre, ma poi si pente e va. L’altro invece dice di sì, ma poi non va a lavorare. Ogni genitore ha fatto questa esperienza, sentendo il cuore allargarsi quando trova il proprio figlio o la propria figlia a fare ciò che prima si era rifiutato di accogliere. A volte lo fanno quando ci sembrava di non crederci più, ma poi quando li vediamo compiere il bene ci accorgiamo che in fondo l’avevamo sperato, perché sappiamo che i nostri figli hanno la capacità di scegliere il bene. Così dobbiamo immaginare il cuore di Dio, colmo di compiacimento per quelli che ama quando si pentono di averlo rifiutato. Sembra di sentirlo mormorare sollevato: lo sapevo…discreto e felice come un genitore che piano si allontana dalla porta, dopo aver visto il proprio figlio immerso nel compito che aveva detto non avrebbe fatto. Dio crede in noi. Sempre. E spera sempre che il nostro no diventi sì.  Anche il rimprovero duro di Gesù ai sacerdoti e agli anziani dice tutta la speranza del Padre: li scuote perché si accorgano che non stanno lavorando nella sua vigna e nel fare questo aspetta che il no diventi un sì.
Egli vuole infatti (e qui merita di essere letta e meditata con cura la seconda lettura che ci comincia a proporre la lettera ai Filippesi) che abbiamo gli stessi sentimenti di Cristo, che non si è mai rifiutato di lavorare nella vigna del Padre (così potremmo rileggere la sua obbedienza senza limiti fino alla morte di croce), non preoccupandosi del proprio interesse o di voler primeggiare, quanto invece di amare e di chinarsi sull’altro. Lavorare nella vigna del Padre, infatti, altro non è che assumere la postura di Cristo, che si fa più piccolo dei suoi fratelli e delle sue sorelle per poterli servire in modo che essi possano vivere. Per questo Dio lo ha esaltato, perché il suo sì è stato tale da condurre alla vita chiunque lo voglia. A lui possiamo guardare e lui possiamo seguire, per essere figli e figlie capaci di lavorare nella vigna del Padre. E se il suo sì è stato pieno e senza cedimenti al contrario del nostro così inaffidabile e stentato, il suo amore e il suo mettersi al nostro servizio ci mostrano ciò che il Padre vede e cioè che nessuna storia è già decisa, nessun no è definitivo, nessun cammino impedisce di fare il prossimo passo in un’altra direzione. Il Padre lo sa, lo spera e ci attende. “Fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”.
19 - Set - 2020

XXV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXV Domenica T.O. (A)

(Is 55,6-9   Sal 144   Fil 1,20-24.27   Mt 20,1-16)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna in momenti diversi (siamo arrivati al capitolo 20 del primo Vangelo) ci dice qualcosa su Dio, ma soprattutto su di noi e su che cosa è necessario per vivere secondo la logica del Regno, ovvero da fratelli e sorelle. Domenica scorsa la parabola del servo spietato ci mostrava un Dio che abbuona i debiti, contro il proprio interesse, e ci metteva in guardia contro il nostro senso di giustizia che, pure a ragione, pretende il debito degli altri. Sapere di essere sulla stessa barca di tutti, sapere di essere uno/a cui anzitutto è stato rimesso un debito enorme, ci può aiutare a porci di fronte all’altro/a in debito secondo la logica del Regno: abbuonando il debito stesso, come Dio fa con noi. Meglio guadagnare il fratello o la sorella, che i pochi spiccioli che ci deve o l’affermazione di una giustizia che poi non è mai così certa.

La parabola di questa domenica sembra proseguire sulla stessa linea: Dio non sa fare i conti, non sa guadagnare, non sa capitalizzare, né ottimizzare le spese. Non sembra un bravo imprenditore, oppure è il migliore, secondo altre regole da quelle che abbiamo imparato noi. A ciascuno che si mette al lavoro per lui (lavoro che, come ci descrive la lettera ai Filippesi, dovrebbe coincidere con il nostro stesso vivere totalmente teso a portare frutto per qualcuno) Dio dà un salario che permette di vivere. Non misura il tempo trascorso al suo servizio, non si preoccupa della quantità del lavoro svolto, si preoccupa che chi ha voluto lavorare nella sua vigna abbia la vita.
Questo perché (bellissima la prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia) le sue vie non sono le nostre vie e i suoi pensieri non sono i nostri. Noi facciamo classifiche che vogliamo scalare e cerchiamo il guadagno personale, come l’affermazione di noi stessi tramite le nostre prestazioni e le opere che lasciamo. Abbiamo bisogno di porci sopra gli altri e di saper guadagnare di più o fare le cose meglio o vivere meglio di loro e avere più successo. Tutto questo ci lascia in bocca il sapore della soddisfazione e crediamo che Dio ragioni così, o meglio: non è più importante ciò che Dio pensa perché ci siamo costruiti vita e salvezza con le nostre mani mentre gli altri, almeno alcuni, sono certamente meno meritevoli e questo ci rassicura sul nostro valore, costruito però sull’allontanamento e la differenza con l’altro.
Questa pagina di Vangelo, al contrario, ci insegna di nuovo la fraternità (e la sororità): Dio non vuole che nessuno si perda, vuole che tutti siano nella sua vigna (li cerca in continuazione, a tutte le ore, non gli importa se l’impresa vale il guadagno) e vuole che tutti finiscano la giornata con quello che serve per vivere. Vuole che tutti vivano. A noi è chiesto di assumere lo sguardo del Padre: riconoscere l’altro come uno che non va perduto, che va portato ad ogni costo al lavoro nella vigna perché non senta l’amarezza e la solitudine, che va gratificato con ciò che serve per vivere, perché sopra ad ogni giustizia, al di là di ogni logica contabile, non vogliamo perdere nessuno e vogliamo che tutti vivano.
Si può avere questo cuore, solo quando ci si accorge che Dio ha trattato noi con questa stessa generosità, che non abbiamo alcun vanto davanti a lui, che le opere che abbiamo fatto o le relazioni che abbiamo non sono frutto anzitutto del nostro impegno e delle nostre capacità, ma un dono, un lavoro nella vigna che ci è stato offerto quando nessuno ci aveva preso, come se fossimo noi gli ultimi a dover meritare una ricompensa. Così saremo i primi, cioè quelli che pensano con i pensieri di Dio e percorrono le sue vie, quelli che hanno il suo cuore la cui grandezza smisurata (come ci invita a riconoscere il salmo) si vede nella misericordia e nella pietà, nell’amore e nella tenerezza, che sono l’unica giustizia che lui conosca, l’unico capitale che valga la pena accumulare o contare.
11 - Set - 2020

XXIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIV Domenica T.O. (A)

(Sir 27,33-28,9   Sal 102   Rm 14,7-9   Mt 18,21-35)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il capitolo diciottesimo del Vangelo di Matteo, la cui lettura abbiamo cominciato la settimana scorsa, si conclude con la parabola del servo spietato. Si tratta di una parabola straordinaria costruita per suscitare lo scandalo in chi legge, che spontaneamente assume la posizione dei compagni del servo maltrattato, i quali vanno dal padrone per denunciare chi aveva ricevuto pietà ma non ne aveva usata. Se però usciamo dalla straordinaria capacità di coinvolgimento della parabola, possiamo farci una domanda: il fatto che a me sia stato condonato un debito, toglie il debito a colui di cui io sono creditore? Facciamo finta che la banca mi abbuoni una rata del mutuo, allora il cliente che non mi ha ancora pagato può considerarsi libero da ogni debito? Verrebbe da dire di no. Allora perché questo servo ci appare (e giustamente!) tanto crudele con il suo compagno?

Perché i discepoli si devono relazionare (questa è la logica di tutto il capitolo) facendosi piccoli l’uno di fronte all’altro, nell’accorato tentativo di non perdere nessuno e per mostrarsi reciprocamente l’amore del Padre. Se è così (se è questo stile che permette di radunarsi nel nome di Gesù), di fronte al peccato dell’altro (e in ogni occasione) il primo atteggiamento sarà farsi piccoli, riconoscendo che se è vero che l’altro ha peccato (e magari ha peccato contro di me), è vero anche che io ho peccato in modo infinitamente più grande. Si può pensare questo quando il peccato dell’altro ci sembra – oggettivamente – più grave di quelli che facciamo noi? Sì, perché mentre non sappiamo valutare il grado di responsabilità degli altri, se ci guardiamo con un po’ di onestà, il nostro peccato ci appare sempre spropositato, come la cifra esorbitante messa in campo dal Vangelo di oggi.
A questo punto, consapevole di essere un debitore insolvente, incapace di ripagare il debito e rimesso al mondo solo dal perdono di Dio che libera dal peso che il peccato ci lascia addosso, il discepolo può rapportarsi nel modo giusto con l’altro che pecca, facendosi più piccolo di lui. Non si perdona infatti dall’alto verso il basso, con la spocchiosa benevolenza di quanti si sentono giusti, ma si perdona nella posizione di quelli che sanno quanto è stato loro perdonato e così, guardando la realtà alla luce di Dio (consapevoli che se viviamo viviamo per il Signore e se moriamo moriamo per il Signore), sanno di non essere migliori di nessuno e vedono nell’altro un fratello da non perdere.
Torna qui il monito presente in questo capitolo del primo Vangelo: poiché il Padre non vuole che nessuno si perda, i discepoli non si devono reciprocamente scandalizzare, ma cercarsi, correggersi e, infine, perdonarsi.
D’altra parte l’esperienza ci dice che quando amiamo qualcuno siamo ben felici di perdonarlo, perché vuol dire che ci siamo capiti su quello che è successo, che ci siamo compresi e pentiti, che la relazione può rinascere e ciascuno di noi è sciolto dal male fatto. In una parola: quando perdoniamo, vuol dire che non abbiamo perso l’altro, che non viene chiuso in prigione, ma resta a servizio con noi.
Chi guarda se stesso e gli altri con gli occhi di Dio (così come vediamo scritto nella prima lettura che spiega bene come chi guarda le relazioni con gli altri a partire dalla propria relazione con Dio non può serbare rancore), non vuole perdere chi ha imparato a considerare parte di sé (i credenti sono membra gli uni degli altri) e così condona ogni debito. Se guardiamo bene: a che ci servono i pochi spiccioli dell’altro dopo che Dio ha con un colpo solo cancellato la cifra che noi dovevamo a lui? E così alla giustizia (hai un debito devi pagare) preferiamo la fraternità (siamo sulla stessa barca, condono a te come a me è stato condonato), sapendo che uno solo è il Padre nei cieli e che lui perdona tutte le colpe, guarisce le infermità, salva dalla fossa e circonda di bontà e misericordia. Tanto è bello questo amore che ci ricopre e ci rimette al mondo ogni volta, che non possiamo che viverlo gli uni nei confronti degli altri, rimettendo anche noi al mondo il fratello o la sorella amati , solo per averli con noi, così come il nostro cuore desidera.
04 - Set - 2020

XXIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIII Domenica T.O. (A)

(Ez 33,1.7-9   Sal 94   Rm 13,8-10   Mt 18,15-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica (purtroppo cominciando dalla metà) leggiamo il quarto discorso del Vangelo di Matteo, dedicato alle relazioni che si danno fra i credenti. Al cuore di questo discorso leggiamo “dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, come a dire che le relazioni vissute nel nome di Gesù, cioè secondo la sua logica, sono capaci di renderlo presente.

Per capire quale sia questa logica il brano ci parla delle situazioni di conflitto, quando qualcuno pecca contro di noi. In questo caso (similmente a quanto si legge nella prima lettura secondo la quale è nostra responsabilità andare dal malvagio ad avvisarlo che sta facendo il male) ciò che muove coloro che si riuniscono nel nome di Gesù non è la vendetta, né la difesa di se stessi, né l’allontanamento del male, ma ciò che muove i discepoli è fare di tutto perché l’altro non si perda.

Per questo quando un altro mi fa del male, mentre soffro il male subito, soffro anche per l’altro (perché ha fatto il male e perché questo male ci allontana) e, poiché non voglio perderlo né che si perda, lo vado ad ammonire. Sappiamo, però, che spesso le parole non vengono ascoltate. Il salmo grida lo sconforto di tante parole di Dio cadute nel vuoto: se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore! C’è da aspettarsi allora che la correzione di chi pecca contro di noi fallirà, ma non bisogna arrendersi. Il Vangelo (ricalcando alcune prassi ebraiche) suggerisce di cercare qualcun altro che si unisca a noi e renda il nostro richiamo più convincente per chi ci ha fatto del male. E se anche questo non bastasse, suggerisce di chiamare tutta la comunità, rendere pubblico il dolore e la vergogna (nostra e altrui) pur di aiutare l’altro e di riguadagnarlo nella relazione, perché solo il riconoscimento del male fatto e il perdono possono sciogliere chi ha fatto il male e chi l’ha subito dal laccio che quanto accaduto ha stretto intorno a loro, impedendo la relazione. Se poi anche il coinvolgimento della comunità dovesse risultare inutile, allora occorre allontanare chi pecca, ma solo per poterlo cercare di nuovo (come Gesù faceva con i pubblicani), accordandosi con gli altri nella preghiera perché Dio ci restituisca il fratello che abbiamo perduto (abbiamo allontanato lui ma non il desiderio che ci venga restituito).
Perché una tale ossessione nel cercare chi fa il male, nel non volerlo perdere, nel voler recuperare l’intimità e l’unità? Così fa Dio, così ha fatto Gesù, così deve fare la chiesa se vuole renderlo presente. Ma perché?
Perché (e qui prendiamo spunto dalla seconda lettura) l’unico debito sensato da avere con l’altro è l’amore. Un amore vicendevole (perché ciascuno di noi è ora vittima e ora carnefice) che si misura sul bene concreto che facciamo agli altri (non sulla correttezza dei nostri comportamenti, che l’osservanza di regole e comandamenti ci può garantire, ma sulla vita che diamo a quelli che diciamo di amare) e sul desiderio che abbiamo di loro. L’amore è vedere la bellezza di qualcuno e per questa bellezza volere che viva e che condivida con noi il suo cammino. Chi ama desidera l’altro e il bene dell’altro e per questo si fa piccolo di fronte all’amato, bisognoso e umile, al punto che se quello pecca contro di lui, prende l’iniziativa per correggerlo, non per rimproverare o insegnare, ma solo per non perdere l’altro e ritrovare quell’accordo fra fratelli che solo è capace di rendere presente il Signore Risorto. Vivendo così si realizza quello stesso amore che Dio ha per ciascuno, un amore che contempla sempre la bellezza dell’amato e di fronte ad ogni rottura chiede il riconoscimento della colpa solo per ritrovare l’accordo e l’intimità. Alla nostra capacità di vivere secondo questa logica è consegnata la possibilità per gli esseri umani di vedere come Dio li ama, proprio dentro il concreto, ferito, umanissimo amore di chi non si rassegna a perdere il proprio fratello.
28 - Ago - 2020

XXII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXII Domenica T.O. (A)

(Ger 20,7-9   Sal 62   Rm 12,1-2   Mt 16,21-27)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Si può andare dietro al Signore per molti motivi, che poi hanno come filo conduttore quello di trovare se stessi: trovare serenità, trovare la propria realizzazione, trovare una consonanza con quelli che sono i nostri valori, trovare senso alla vita e rassicurazione davanti al pericolo. Tutti motivi buoni che hanno però un comune denominatore: trovare se stessi. Forse Pietro aveva fatto la sua professione di fede (letta domenica scorsa) ancora pieno di questa ricerca di sé: in fondo lui era uno di quelli che andava dietro al Messia, c’è di che vantarsi. Da pescatore a uomo scelto di colui che avrebbe instaurato il Regno: si era trovato alla grande.

Il Signore, però, ci chiede di seguirlo non per trovare se stessi (anche se questo inevitabilmente accadrà proprio seguendolo) ma per amore di lui, della sua logica che lo conduce al dono di sé fino allo spreco assurdo della croce.
D’altra parte chi di noi vorrebbe essere amato (seguito) da chi amandoci cerca solo se stesso, il suo interesse o il suo benessere? L’amore non è questo perdersi, a volte disperatamente e impotentemente, davanti alla bellezza di qualcuno che ci è dato? Quando si ama, ci si dimentica di sé e di quello che ci fa trovare noi stessi, perché ci sembra che fare il bene di chi amiamo sia il motivo stesso per cui vale la pena stare al mondo e di altro non ci importa.
Così Gesù ci chiede di seguirlo, innamorati del suo stile, delle sue parole, delle sue scelte, desiderosi di stare con lui senza stare più a calcolare che cosa ci convenga, fino al punto di perderci, come è accaduto a lui, sulla croce.
Mi sembra che questa sia anche l’esperienza testimoniata da Geremia nella prima lettura: il Signore, con la sua bellezza, l’ha sedotto e ora non riesce a smettere di amarlo e servirlo anche se questo gli causa vergogna e scherno. “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di trattenerlo ma non potevo”. Perché quando si ama, inevitabilmente si vive per chi si ama.
Usando le parole del bellissimo brano della lettera ai Romani potremmo dire che questo amore per Dio, per ciò che lui è e dice, questo amore che non è possibile trattenere nelle ossa, prende concretezza nei nostri corpi, perché noi viviamo la nostra quotidianità come un’offerta a Dio, una consacrazione a lui, un sacrificio spirituale in ogni cosa che facciamo: viviamo tutto con il cuore invaso dall’amore che ci ha sedotto, anche quando questo ci fa sentire esclusi o soli o amareggiati o, addirittura, ci mette in pericolo.
Solo chi si perde così, si troverà, perché solo chi si perde così ama. Altrimenti a nulla serve seguire Gesù che, come a Pietro, dovrà dirci: mi sei di scandalo, pensi secondo gli uomini non secondo Dio. Vienimi dietro. Amami e (riprendendo ancora la seconda lettura) lascia che il tuo modo di pensare sia trasformato, smetti di adottare gli schemi del mondo e scegli quelli di Dio imparando ciò che per lui è buono. Allora, sedotti dall’amore al punto da non pensare più a noi stessi, pregheremo col salmista: la mia carne ti desidera come terra arida, senz’acqua, poiché il tuo amore, Signore, vale più della vita.
21 - Ago - 2020

XXI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXI Domenica T.O. (A)

(Is 22,19-23   Sal 137   Rm 11,33-36   Mt 16,13-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il brano di Vangelo che ci troviamo di fronte questa domenica si può leggere a diversi livelli. Si tratta infatti della professione di fede di Pietro e della beatitudine che Gesù gli riferisce oltre a riconoscergli alcuni compiti che riguardano però la chiesa intera (al capitolo diciotto si ritrova, per esempio, come attribuita a tutti i credenti la capacità di legare e sciogliere che poteva significare sia la capacità di perdonare sia quella di individuare ciò che è da credere fra diverse possibilità). Le chiese a lungo si sono chieste in che modo questo particolare riconoscimento di Pietro potesse continuare dopo la sua morte, finendo per riconoscerlo – con il tempo, la riflessione e l’esperienza – come donato a colui che presiede la chiesa di Roma, suggellata proprio dal martirio di Pietro (e di Paolo).

Ma oltre alle questioni ecclesiologiche, questo brano si occupa della fede di ciascuno di noi offrendoci di nuovo Pietro come discepolo emblematico. Due domeniche fa questo era stato protagonista dell’episodio in cui tenta di camminare sulle acque e affonda, sentendosi chiamare da Gesù “uomo di poca fede”. Lo stesso termine era stato rivolto ai discepoli nell’episodio della tempesta sedata e ancora viene usato da lui pochi versetti prima dell’episodio di questa domenica: durante una discussione Gesù chiede ai discepoli “gente di poca fede” se non hanno compreso il fatto dei pani. I discepoli – e fra questi Pietro – diversamente dalla donna cananea che abbiamo incontrato domenica scorsa sembrano avere poca fede, come noi probabilmente.
Gesù però non si scoraggia e li interroga facendo loro riferire ciò che sentono in giro, per passare poi alla domanda diretta: e voi chi dite che io sia? A questo punto Pietro riconosce Gesù come Messia, come colui che doveva venire, e come Figlio di Dio. Finalmente – e infatti Gesù esulta e sottolinea le parole di lui con una beatitudine – Pietro riconosce l’identità di Gesù e professa la propria fede in lui.
Non si è condannati a restare gente di poca fede dunque, il cammino può essere percorso e il Signore (le cui vie sono inaccessibili, cui nessuno può dare suggerimenti o qualcosa per primo, come leggiamo nella seconda lettura) può donarci la capacità di riconoscerlo e di credere in lui. Questa fede è quella su cui la chiesa viene costruita. Non solo la fede di Pietro, primo tassello (secondo Matteo) della costruzione che Dio edifica, ma la fede di ciascuno e ciascuna è ciò che permette alla chiesa di esistere e crescere. Questo edificio spirituale non verrà sconfitto dalle forze del male, anzi possederà le chiavi del Regno, perché la fede permette di fronteggiare persino le porte degli inferi e di aprire sempre una porta che conduca alla vita. Chi condivide la fede di Pietro, tutta la chiesa cioè come una casa scavata in questa roccia, ha le chiavi per aprire la porta del Regno.
Che non ci accada, quanto Gesù rimprovera a scribi e farisei, quando gli dice che con le chiavi che avevano in mano hanno chiuso la porta del Regno e non hanno fatto entrare nessuno, oltre a non entrare loro stessi. Non basta infatti avere la conoscenza di Dio e l’autorità per professarla per aprire agli uomini il Regno dei cieli, occorre una testimonianza credibile, una vita che dichiari quanto viene professato e consegnarsi ad esso. Certamente questo è vero per ogni credente e per tutta la chiesa, ma con maggior serietà è vero per quelli, come Pietro, che sono chiamati a servire la chiesa perché questa possa dare la propria testimonianza e solo per questo viene data loro una qualsiasi autorità.
I ministri infatti (un’immagine dei quali si può vedere nella prima lettura in cui uno viene posto in posizione di potere per prendersi cura, per essere padre del popolo, suo appoggio) hanno la responsabilità di custodire, corroborare e servire la fede della chiesa perché questa ne possa dare testimonianza. In questo modo le chiavi offerte a Pietro spalancano la porta della vita davanti ad ogni essere umano che di fronte alla fede dei credenti dirà con noi a Gesù: tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, colui che aspettavo per comprendere chi sono, ricevere il perdono e offrire la mia vita per tutti.
Non siamo condannati all’incredulità dunque, né intrappolati nei nostri tradimenti (non sarà Pietro quello che rinnegherà Gesù?), possiamo invece essere una pietra di questa casa scavata nella roccia della fede che Pietro, per rivelazione del Padre, ha professato per primo davanti al Signore. Una casa di pietre vive offerta al mondo perché viva.
11 - Ago - 2020

XX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XX Domenica T.O. (A)

(Is 56,1.6-7   Sal 66   Rm 11,13-15.29-32   Mt 15,21-28)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il fatto che i pagani potessero entrare a far parte della famiglia di quelli che credevano in Gesù fu un’acquisizione molto faticosa per la chiesa. La loro partecipazione alla salvezza di Dio (come troviamo descritto nella bellissima prima lettura) era intesa come un loro venire ad Israele, al Signore e al suo monte santo, per essere suoi servi. Si comprendeva già che la misericordia e la vita di Dio non potevano essere riservate ad un solo popolo, ma comunque, in qualche modo, si pensava che da questo bisognasse passare: per questo i pagani restavano “altro” e in qualche modo “secondi”.

Che Israele abbia un ruolo strategico nella salvezza di tutti è ribadito, d’altra parte, anche in questo passo della lettera ai Romani (seconda lettura) nel quale – in estrema sintesi – Paolo dice che tale è la chiamata di Dio (tali i suoi doni e la sua grazia) che anche la chiusura di Israele era diventata un dono di salvezza, infatti proprio questa chiusura era stata l’occasione perché i discepoli predicassero il Vangelo ai pagani, cosa che in un primo momento nessuno pensava di fare. Vedendo questo, Paolo si domanda: se persino la chiusura di Israele è stata l’occasione di salvezza per tanti, che cosa accadrà quando si convertirà al Regno?
Il Vangelo di questa domenica ci testimonia poi che anche Gesù è arrivato gradualmente a comprendere che la salvezza potesse toccare i pagani e così ci consola perché spesso anche noi (anche la chiesa) non riusciamo a vedere in quelli che ci sembrano in qualche modo “sbagliati” persone nelle quali Dio opera. Gli esempi potrebbero essere molti: le persone che hanno commesso delitti, ma anche i portatori di handicap, le persone che hanno alle spalle un matrimonio che si è concluso o anche le persone omosessuali, i bambini e gli anziani, per non parlare degli stranieri, dei poveri, delle persone di altra razza e, molto spesso, anche delle donne, che pur essendo chiesa non vengono ancora pensate e trattate pienamente come tali. Abbiamo sempre degli ottimi argomenti (o almeno così ci sembrano) per ritenere che questi altri non godano appieno della salvezza e addirittura riteniamo che sia così per volontà di Dio. L’episodio di questa domenica può essere allora illuminante per convertire il nostro sguardo.
Gesù è un pio israelita, osserva la legge a la ama. Vive in mezzo al suo popolo, il popolo che Dio si è scelto. Quando questa donna pagana gli grida dietro ci mostra un volto che non vorremmo vedere: non le rivolge nemmeno una parola. I discepoli lo pressano solo perché la donna grida forte, forse si vergognano. Ma Gesù è netto: non è stato mandato per portare la salvezza ai pagani. Così facendo però si ferma e la donna ne approfitta. Ella non è interessata alle speculazioni sulla salvezza, né le importa di essere trattata con durezza: nella mente e nelle viscere ha fisso il volto sofferente della sua bambina. Ella sembra sapere che c’è un Dio in Israele e che questo rabbì ha con questo Dio una relazione privilegiata, infatti si prostra davanti a lui e lo chiama Signore. Già questo deve aver incrinato la posizione così ferma di Gesù, che a questo punto parla con la donna, seppure in modo estremamente duro: non è bene dare il pane dei figli ai figli dei cani (perché era così che i giudei chiamavano i pagani). Gesù sta forse dicendo che non può offrire la salvezza a quelli che non la possono comprendere (non date perle ai porci!), perché per questi la guarigione sarebbe solo un prodigio che porta loro un beneficio, non il segno in cui riconoscere l’opera di Dio. E Gesù non è venuto per fare prodigi o per risolvere tutte le sofferenze della terra, ma per far conoscere il Padre ed è convinto che i pagani non lo possano conoscere.
La risposta della donna però gli dimostra altro: anche i figli dei cani si saziano delle briciole che cadono dal tavolo. Ella dimostra di credere nel Dio buono che ha fatto tutto, che sceglie Israele per beneficare tutti, e sembra sapere che anche poche briciole di questa salvezza sono capaci di dare la vita. E Gesù la loda per la sua fede, per ciò che conosce di Dio e per come lo ama e le accorda che accada ciò che lei desidera.
E così se Pietro era stato un uomo di poca fede e era affondato nel mare dopo aver visto le opere di Gesù e averne sentito gli insegnamenti, questa donna straniera, appartenente ad un popolo nemico, dimostra di riconoscere il Signore che ai suoi era sembrato un fantasma e di credere in lui, nonostante le parole dure ne avessero velato il volto misericordioso.
Si comincia a profilare qui l’annuncio del Vangelo ad ogni essere umano, ai pagani, come agli schiavi, alle donne come agli eunuchi, ai giudei e ai ricchi, come ai poveri e ai peccatori, che costituiscono con tutti quelli che credono un solo corpo vivo. Nel Vangelo di Matteo Gesù lo dirà espressamente solo alla fine, quando manderà i suoi a tutte le genti, ma molto probabilmente è in questo giorno, fissando il volto invincibile di questa madre pagana e perdendosi nei suoi occhi colmi di amore e di dolore, che comincia ad intuire che il Padre che è nei cieli è padre di tutti e che – come aveva appena insegnato – non è ciò che gli esseri umani mangiano a renderli puri (differenza essenziale fra giudei e pagani…alla quale potremmo aggiungere oggi altre differenze, cui prima accennavo) ma ciò che esce dal loro cuore: solo ciò che hanno nel cuore.