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08 - Ago - 2020

Assunzione della Beata Vergine Maria

Assunzione Beata Vergine Maria

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

Assunzione della Beate Vergine Maria

(Ap 11,19; 12,1-6.10   Sal 44   1Cor 15,20-26   Lc 1,39-56)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Leggiamo nella prima lettera ai Corinzi (seconda lettura) che come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita, ma ognuno a suo tempo: prima Cristo, poi quelli che sono di Cristo, infine, quando tutti avranno ricevuto la vita, Cristo riconsegnerà il Regno al Padre. Sembra la descrizione di un altro sabato: come Dio si era riposato dopo la creazione nel settimo giorno, così Cristo si riposerà, cessando ogni attività, dopo che ogni nemico, cioè ogni morte, sarà stata sottomessa ai suoi piedi. In questa lotta contro la morte, che la prima lettura ci presenta come un travaglio in cui la donna che partorisce rappresenta la chiesa, minacciata da ogni parte eppure capace di mettere al mondo la vita che è Cristo, Maria si trova in una posizione strategica, perché diviene segno del destino di tutti, chiamati a risorgere per vivere per sempre.

In lei il cammino di ogni discepolo e di ogni discepola viene svelato e portato a compimento offrendoci un anticipo del destino di tutti quelli che sono di Cristo e che Il Vangelo che viene proclamato in questa festa ci aiuta a ripercorrere nei suoi elementi essenziali. Proprio come è stato per Maria, il cammino comincia per tutti con la fede che fa nascere Cristo in noi per poi offrirlo agli altri. Nell’incontro con Elisabetta, questa svela che il motivo della beatitudine di Maria non consiste nella maternità di lei, pur straordinaria, ma nella fede: beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. Questa è la via per entrare nella vita di Cristo e quindi vivere di lui per risorgere con lui.
Questa fede permette di sperimentare la vittoria su molti diversi tipi di morte e ci fa sperare, proprio per questa esperienza, la vittoria anche sulla morte. Maria è ancora una ragazzina, incinta da poco tempo, non sa ancora nulla di cosa accadrà né di come si compiranno le parole in cui ha creduto, eppure nel Vangelo di Luca le viene messo in bocca il cantico del Magnificat, un grido di lode che dichiara la vittoria su ogni male che solo Cristo avrebbe realizzato e che ancora oggi intuiamo e speriamo pur nel travaglio e nel dubbio. La fede le schiude l’orizzonte di Dio e così contempla la realtà dal punto di vista di lui, che innalza i piccoli e ridimensiona i potenti, sfama i poveri e toglie l’avanzo a chi ha troppo, soccorre, salva e copre tutto di misericordia.
Accogliere la parola di Dio e lasciare che generi in noi la presenza del Signore, ci fa diventare come lei profeti che vedono e proclamano l’opera di lui nella storia, anche se questa appare oscura e faticosa come un parto davanti ad un drago (per usare l’immagine dell’Apocalisse nella prima lettura): Dio soccorre il suo popolo e lo libera dalla morte. A riprova di questa sua potenza di vita Dio ci ha donato la donna di Nazareth, povera, senza titoli né meriti, una donna del suo popolo, forte solo della propria fede e del proprio amore, una sorella che ci indica la strada ricordandoci le parole che tanto aveva meditato nel cuore. Mettendo i piedi dove li ha messi lei, nella sequela di Cristo, possiamo sperare la vittoria su ogni morte, perché se è vero che tutti muoiono in Adamo, è vero anche che tutti ricevono la vita in Cristo.
06 - Ago - 2020

XIX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIX Domenica T.O. (A)

(1Re 19,9.11-13   Sal 84   Rm 9,1-5   Mt 14,22-33)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il racconto di Gesù che cammina sulle acque si trova anche nel Vangelo di Marco e in quello di Giovanni, ma Matteo arricchisce l’episodio con il ruolo giocato da Pietro, sottolineando l’importanza di questo discepolo e allo stesso tempo offrendoci una possibilità di identificazione nel cammino che l’episodio ci chiede per giungere a riconoscere il Signore (cosa affatto scontata se Marco chiude il proprio racconto con l’incredulità dei discepoli che non avevano compreso il fatto della moltiplicazione dei pani e avevano il cuore indurito).

Il dialogo fra Pietro e Gesù che Matteo ci racconta è particolarmente interessante perché evoca un altro episodio sul mare, riportato anche da Marco e Luca, cioè la tempesta durante la quale Gesù dorme sulla barca e viene svegliato dai suoi impauriti. Nel racconto di questo fatto Matteo usa per i discepoli lo stesso termine che usa per Pietro nell’episodio di questa domenica e che si può tradurre “persona di poca fede”. Il primo evangelista quindi nasconde qui un richiamo all’episodio della tempesta domata, come a dirci che i discepoli, in particolare Pietro, non riescono ancora a fidarsi del Signore anche se lo hanno già visto sgridare il vento e calmare il mare. Il cammino della fede non è immediato, non si dà una volta per tutte, chiede passi continui, conosce regressi, dubbi, continue necessità di conferma e bisogno di cura, come ogni rapporto di amore. Pietro in questo episodio diventa per noi un segno di consolazione.
Anche noi infatti siamo di notte in alto mare. Il vento è contrario. Facciamo fatica e la barca è agitata. In questa situazione il Signore che ci viene incontro non è riconoscibile. Si tratta di un altro elemento pauroso: chi è costui che si avvicina? che cosa è mai questa presenza o questa parola? Si tratta di qualcosa di troppo sfuggente e noi siamo in una situazione troppo difficile: è normale concludere che sia un fantasma, qualcosa che ci inganna, che non ci può essere di nessun aiuto. Nella situazione in cui siamo (e in cui il mondo è) ci aspetteremmo un intervento più deciso, come sembra insinuare la prima lettura che ha per protagonista il profeta Elia. Ci aspetteremmo una presenza potente, un vento impetuoso che spacca i monti, un terremoto, un fuoco, ma il Signore invece si fa presente in una brezza leggera, un vento appena percettibile, un’ombra sul mare di notte.
Diversamente da Elia, ci sembra troppo poco, non lo riconosciamo e abbiamo paura tanto da gridare. A questo punto nei Vangeli Gesù rassicura i suoi: sono io, non abbiate paura. Cerca di farsi riconoscere. In quanti modi! Si offre a noi nella bellezza del mondo e nel calore delle relazioni d’amore, si fa presente nella lucidità dell’intelligenza e nella forza del corpo, si mostra nell’umanità ferita e indomita, nelle intuizioni dell’arte e nel mistero invaso dai ricercatori, si dischiude nella storia e nella parola che raccontano ciò che ha operato per noi e che la chiesa continuamente celebra, annuncia e vive. In quanti modi ci ripete: sono io, non abbiate paura!
Allora, attingendo coraggio da questo timido riconoscimento, qualche discepolo prova ad avventurarsi sul mare: se sei tu, comandami di venire da te sulle acque. Che cosa muove Pietro? E cosa muove chi di noi tenta l’impresa? Vuole vedere se è davvero il Signore? Vuole metterlo alla prova? Comincia ad avere fede che può anche lui domare il mare se unito a Gesù? Oppure è l’euforia di fare grandi imprese che lo spinge? Forse anche Gesù era curioso di saperlo perché gli comanda di andare, ma presto Pietro si impaurisce per il vento e comincia ad affondare. Allora Gesù gli svela la verità del suo cuore: uomo di poca fede. Come di poca fede erano stati i discepoli che avevano svegliato Gesù durante la tempesta. Tante parole e tanti segni (qualcosa di simile a quanto accade ad Israele di cui Paolo ci racconta nella seconda lettura: tanti privilegi, doni e prodigi, non erano ancora bastati ad Israele per riconoscere il Signore) eppure la fede resta poca.
Può essere che anche noi siamo così: tanto cammino e tanti doni a fronte di una fede così piccola che il vento subito ci fa affondare davanti a Gesù che ci chiama a camminare verso di lui. A questo punto non resta che gridare, Signore salvami!, perché la sua mano sarà pronta a prenderci e farci salire sulla barca dove il vento cessa.
Solo ora, senza imprese eroiche da vantare, senza una fede da additare ad esempio, uomini e donne paurosi e dubbiosi così come siamo, potremo prostrarci davanti al Signore che fa cessare il vento e calma il mare: Davvero tu sei il Figlio di Dio. Approderemo così alla riva della consegna umile e povera di noi stessi, nella quale quello che siamo sarà sempre un dono ricevuto da lui che continuamente ci trae dalle acque della vita e della nostra incredulità. Forse perché si dia un riconoscimento autentico del Signore che ci ama e ci salva, occorre sperimentare fino in fondo la fragilità di ciò che siamo e la poca consistenza della nostra fede, perché nella verità di noi stessi, senza poter confidare in ciò che crediamo di essere, possiamo conoscere davvero chi è colui che sa camminare sul mare, placare ogni tempesta e condurci al riparo. Forse Pietro ha imparato proprio in questo momento quanto poco avesse da vantare, cominciando così a seguire veramente colui da cui tutto poteva sperare.
31 - Lug - 2020

XVIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVIII Domenica T.O.(A)

(Is 55,1-3   Sal 144   Rm 8,35.37-39   Mt 14,13-21)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La fame, il limite, la paura, il bisogno, fanno parte dell’esperienza umana. Molto spesso passiamo la vita a negare tutto questo o a fuggirlo (da un bene all’altro, da una rassicurazione all’altra) ma la fragilità appartiene all’essere umani. Anche Gesù la sperimenta. Quando sente che Giovanni è stato ucciso, si ritira in un luogo deserto. Non è un buon momento per i profeti: chi dice la parola di Dio, muore. Gesù percepisce di essere anche lui fragile, limitato, esposto alla violenza e all’odio e si sottrae ad essi.

Gesù sembra sentire il proprio limite e la propria fragilità; li ascolta e li accoglie, ritirandosi in disparte, ma non se ne lascia dominare. Infatti quando la folla lo segue, ascoltando il richiamo non detto (che la prima lettura esplicita) di raccogliersi intorno a lui per farsi nutrire e dissetare e quindi vivere, Gesù la guarisce e la sfama. L’uomo Gesù, consapevole della propria fragilità, guarda la fragilità degli altri (le infermità, la fame…) e, invece di chiudersi nella ricerca egoistica del proprio interesse, si apre ai loro bisogni e se ne prende cura. Perché fa così? Cosa lo spinge?
Dice Matteo che Gesù ebbe compassione della folla. Il verbo usato è quello che la Scrittura utilizza per parlare della misericordia di Dio e indica la contrazione delle viscere materne, come se la misericordia fosse quel misto di tenerezza e bisogno di curare che prende le madri quando vedono i propri figli in difficoltà: uno stato d’animo che le donne non riescono ad ignorare perché le prende non solo interiormente, ma fisicamente e totalmente. Gesù sente dentro di sé, fin nelle viscere, la fragilità delle folle e così si dimentica della propria, o semplicemente la lascia in secondo piano chinandosi su quelli che può curare e sfamare.
Quando un neonato piange, il corpo materno produce più latte. I seni si gonfiano e si induriscono fino a fare male, al punto che la donna ha bisogno di allattare quanto il piccolo ha bisogno di essere allattato. Così il Signore (ma anche Dio nell’appello accorato della prima lettura) non può resistere a donare ciò che serve per far vivere, deve nutrire con la propria vita e sollevare le fatiche altrui: il grido (anche inespresso degli uomini) lo spinge scuotendolo fin nelle profondità del suo essere. Gesù sa che ascoltare questo grido lo condurrà alla morte (per il Battista era stato così), ma non può farne a meno: lui, come il Padre, ama e così quando gli amati hanno bisogno non può che chinarsi. Ne sente il bisogno viscerale, come la madre che non può non allattare perché il suo corpo risponde al pianto del bambino ancora prima di lei.
Chi ci separerà da questo amore? Quale fragilità o limite? Quale potere o creatura? Niente e nessuno, perché il Signore è misericordioso e pietoso, la sua tenerezza si spande sopra di noi, sente il nostro desiderio e lo sazia aprendo la mano, ascolta il nostro grido e si fa vicino. Così più sarà acuto il nostro bisogno e più evidente il nostro limite, più lui provvederà cibo e guarigione, fino ad insegnarci a portare la nostra fragilità senza fuggirla, per poter fare spazio, come Gesù, alla fragilità altrui e fare di noi (e delle nostre fragilità) il dono possibile qui ed ora che guarisce e sfama. E accadrà di nuovo come allora: mangeranno moltitudini di uomini, donne e bambini.
24 - Lug - 2020

XVII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVII Domenica T.O.(A)

(1Re 3,5.7-12   Sal 118   Rm 8,28-30   Mt 13,44-52)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

“Chiedimi ciò che vuoi io ti conceda”. Questo è quello che Dio dice a Salomone che è appena diventato re. Che cosa chiederemmo noi? Quale desiderio ci sorge spontaneamente nel cuore all’idea di sentire rivolte a noi queste parole da parte di Dio? Salomone chiede di diventare adulto, è solo un ragazzo e chiede di saper distinguere il bene dal male per governare con giustizia. Chiede di essere reso responsabile di ciò che gli viene affidato. Non cerca il proprio vantaggio o qualche forma di affermazione personale, ma la capacità di farsi carico di altri per farli vivere. A lui che cerca di vivere la propria responsabilità con giustizia Dio concede il dono di una sapienza unica.

Forse la stessa dinamica spirituale è quella che coinvolge i protagonisti delle prime due parabole raccontate nel Vangelo di questa domenica. Sia colui che scopre il tesoro nel campo, sia chi trova la perla preziosa, sono persone adulte impegnate nelle proprie responsabilità: uno molto probabilmente lavorava il campo dove trova il tesoro e l’altro era in cerca di perle per mestiere. Il regno dei cieli non casca dall’alto mentre ci si trastulla in vite irresponsabili o mentre ci si approfitta degli altri senza far vivere nessuno, il regno dei cieli si incontra mentre ci si carica delle responsabilità che la vita ci chiede, quando scegliamo di essere adulti e cioè di distinguere il bene dal male per fare il bene. Chi vive così sa accorgersi di quanto valgano il bene e l’amore che Dio offre, del tesoro o della perla che meritano tutto ciò che possediamo, proprio perché, come Salomone, non vuole altro che vivere facendo il bene di coloro che gli sono affidati (in famiglia, sul lavoro, nella società, nella chiesa…).
Possiamo scoprire allora immersi nel laborioso e responsabile impegno quotidiano che alla radice e alla fine di ogni nostro gesto e di ogni nostro sentire c’è un mistero prezioso di amore che ci si offre, che diventa (come dice il salmo) la nostra consolazione, la nostra vita e l’intelligenza dei semplici. Con questi occhi riusciremo a vedere sul mondo e su di noi il disegno bellissimo di Dio, la sua volontà d’amore che ci conosce, ci chiama per essere come Cristo figli suoi, ci giustifica e ci conduce alla gloria: così san Paolo nel brano della lettera ai Romani proposto per questa domenica. Dio ha un disegno di amore per il quale (riprendendo le parabole) vale la pena vendere tutto ciò che si ha (cioè far girare tutta la nostra vita intorno a questo amore). E questo amore è così invincibile che Paolo arriva ad affermare che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio. Tutto.
Eppure esiste il male: anche l’ultima parabola, così simile a quella della zizzania, ci parla di pesci buoni e pesci cattivi insieme, ricordandoci il rischio serio di smarrirsi nella propria ricerca, incapaci di riconoscere il valore del tesoro e della perla. Ma se esiste il male come può concorrere tutto al bene?
Non certo attribuendo a Dio il male, per cui Dio manderebbe le sciagure o permetterebbe i nostri crimini per poi ricavare il bene. Voi cosa pensereste di qualcuno che compie o permette una strage per ottenere un qualsiasi bene sociale? Sembra la logica dei terroristi e Dio non è certo così. Dio non provoca né usa il male né lo vuole (mai!), lo vince piuttosto. Per questo il male cambia di segno, non perché diventa un bene (il male resta male), ma perché l’amore invincibile di Dio trova vie straordinarie per vincere ogni pena, ogni peccato, ogni morte, e rinnovare sempre la vita. Chi intuisce la profondità e la bellezza di questo amore, non può che vendere tutti i propri averi, anche fosse ciò che ha costruito in una vita, per godersi con gioia quello che vale più di tutto e ci fa dire con il salmista: la mia parte è il Signore, bene per me è la legge della tua bocca più di mille pezzi d’oro e d’argento. Più di tutte le ricchezze e le vittorie. Più di tutto, più della nostra stessa vita.
17 - Lug - 2020

XVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVI Domenica T.O.(A)

(Sap 12,13.16-19   Sal 85   Rm 8,26-27   Mt 13,24-43)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche questa domenica (e ancora sarà così per la prossima) leggiamo il tredicesimo capitolo del Vangelo di Matteo, in cui vengono concentrate le parabole del Regno in quello che è il terzo discorso (su cinque) del primo Vangelo.

Alla parabola del seminatore, che si chiude con i frutti abbondanti del terreno buono (ora il 30 ora il 60 ora il 100), fa seguito la parabola della zizzania. Proprio quando finalmente vediamo il grano biondeggiare abbondante (dopo uccelli, sassi e spine) e tutto sembra andare per il meglio, ci accorgiamo che nel campo cresce anche la zizzania. Dopo tante fatiche per accogliere la parola, per liberare il cuore dall’incostanza e dagli affanni, proprio ora che potevamo raccogliere qualche frutto, dobbiamo vedere il campo infestato dalla zizzania? La reazione dei servi è comprensibile: vuoi che andiamo a toglierla? Vogliamo i frutti buoni e niente altro. La risposta data dal padrone del campo sembra riecheggiare quanto leggiamo nella seconda lettura (pochi versetti della lettera ai Romani, ancora al capitolo ottavo): non sappiamo come pregare in modo conveniente, non sappiamo, cioè, nemmeno cosa chiedere. Se infatti cercassimo di estirpare la zizzania, continua la parabola, rischieremmo di perdere anche il grano buono.
Il punto è che il grano buono, il seme, la parola, deve crescere e portare frutto proprio in mezzo a quelli che non sono figli del Regno. Per chi è la parola che accogliamo e annunciamo? Per chi è la nostra vita spesa in opere di giustizia e di pace? Per chi è la testimonianza della chiesa, se non per quelli il cui cuore è stato seminato da altre parole, buone o malvage (come nell’esempio della parabola)? Non solo non dobbiamo strapparli via, ma dobbiamo crescere vicino a loro e per loro.
Può capitare di sentirsi fuori luogo in mezzo a coloro che non sono figli del Regno, ma questo non è un problema per i cristiani, anzi le parabole del granello di senape e del lievito ci insegnano proprio la logica del Regno che pur essendo estraneo al mondo riesce a beneficarlo. Nella parabola del granello di senapa (che secondo i rabbini non poteva essere seminato nell’orto e quindi è fuori posto nel campo in cui cresce) proprio il seme che non doveva esserci, che è anche il più piccolo di tutti, offre riparo agli uccelli. E nella parabola del lievito, proprio ciò che è considerato avariato (perché il lievito si faceva con la pasta che cominciava il processo di deterioramento) è ciò che fa crescere tutto ciò al quale si mescola.
Non solo dunque non bisogna estirpare coloro che non sono figli del Regno, ma occorre offrire loro riparo e farli vivere tramite la testimonianza del Vangelo e una vita vissuta di conseguenza. Questi sono i desideri dello Spirito (lettera ai Romani) e questo è lo stile di Dio descritto nella prima lettura (libro della sapienza): la forza di lui è nell’indulgenza e nella cura perché spera (e questa speranza insegna agli uomini) che dopo il peccato giunga il pentimento e l’apertura al Dio che è pieno di misericordia, che compie meraviglie, che è lento all’ira e ricco nell’amore. Di tutte le cose lui si prende cura: di ogni cuore, qualunque terreno sia, e di ogni pianta, perché attende fiducioso e fedele che tutti si volgano a lui per avere la vita e diventino così grano buono.
10 - Lug - 2020

XV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XV Domenica T.O.(A)

(Is 55,10-11   Sal 64   Rm 8,18-23   Mt 13,1-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ascoltare e vedere, come anche comprendere ciò che vediamo e sentiamo, non è un’operazione ovvia, per cui se una cosa è davanti ai nostri occhi certamente la vedremo così come è. In effetti molto di ciò che vediamo, ascoltiamo e capiamo dipende da ciò che noi vogliamo vedere, sentire e comprendere. Le parole, ma anche la realtà che si pone davanti ai nostri occhi, non si impongono, si offrono davanti a noi e possono aprirci una comprensione nuova, ma ciò non accadrà se chi guarda non decide di vedere e chi ascolta non decide di voler sentire.

Parlare in parabole permette a Gesù di provare ad aggirare alcuni dei muri, delle precomprensioni, dei pregiudizi, che impediscono il nostro ascolto. Infatti se si fosse messo a parlare (nel caso della parabola del seminatore) della docilità all’ascolto della parola di Dio, tutti sarebbero stati pronti a dire di essere buoni ascoltatori (anche noi forse), invece parla di un seme e di diversi tipi di terreno e così, mentre ci concentriamo sulla logica del seme e delle condizioni del terreno, non poniamo in atto le difese che ci impediscono di prendere sul serio ciò che ci sta insegnando e cioè: se è vero che la parola è sempre in grado di portare il suo effetto (come ci ricorda il profeta Isaia nella prima lettura) è anche vero che questo effetto dipende dal cuore che la accoglie. E così il messaggio ci colpisce prima che possiamo trovare mille espedienti per non ascoltarlo: che terreno sei?
Nella parabola i diversi casi della crescita del seme ci portano a vedere una piantina sempre più alta, come se ogni volta potessimo sperare che sia quella buona. Se infatti il seme gettato lungo la strada viene portato via subito senza spuntare per nulla, quello gettato sul terreno sassoso spunta un po’ ma non dura, perché è senza radici. Allora guardiamo con speranza alla terza semina, quando la pianta cresce fino a che però non la vediamo soffocata dalle spine, per arrivare finalmente al seme che cresce dando frutto abbondante, anche se non sempre in egual misura. Forse il nostro cuore sperimenta tutte queste fasi e forse la parabola ci vuole insegnare che perché arrivino i frutti ci vuole la pazienza di occuparsi del terreno, perché, se il terreno è sgombro, poi il seme farà ciò per cui è stato gettato.
Magari a volte il nostro cuore è così duro che la parola non riesce ad attecchire in nessun modo, è come una strada battuta continuamente, che non lascia al seme alcuna possibilità. Altre volte si lascia fecondare, ma poi le sofferenze e le persecuzioni ci spingono a rifugiarci in altre parole e la parola seminata in noi si secca, incapace di produrre frutti. Altre volte ancora i germogli rigogliosi che nascono in noi vengono sommersi dalle preoccupazioni e dalle ricchezze, come se questi fossero piante più floride e robuste che rubano aria e nutrimento alla parola fino ad invaderci il cuore per intero. Altre volte infine la nostra è una terra buona che porta frutto abbondante, a volte trenta, a volte sessanta, a volte cento.
Ci ammonisce il Signore a vegliare sul nostro terreno, a chiederci come ascoltiamo e a che cosa facciamo spazio, ma forse ci suggerisce anche che non siamo condannati ad essere sempre la stessa terra, sappiamo cosa ci è di ostacolo per un ascolto autentico e sappiamo che la parola è efficace, possiamo dunque sempre sperare di essere un terreno buono o di diventarlo.
Le difficoltà non mancano (uccelli del cielo, sassi, spine…), ma la parola è potente e noi possiamo sempre scegliere di ascoltare. Vale per il nostro cuore quello che questa pagina straordinaria della lettera ai Romani (seconda lettura) dice per la creazione: le sofferenze (e le difficoltà) di oggi non sono paragonabili alla gloria futura. Tutta la creazione aspetta di vedere la rivelazione dei figli di Dio (i frutti che sapremo portare) e intanto soffre nel travaglio del parto attendendo la vita che sta in fondo al travaglio. Così anche noi soffriamo le doglie del parto (la fatica di rendere il nostro cuore un terreno capace di portare frutto), ma già sappiamo che ci attende l’adozione a figli, la redenzione del corpo, la pienezza della vita.
E così se è vero che la semina e la crescita sono faticose, come il travaglio è fatto di sofferenza e di paura, è vero anche che i frutti sono abbondanti e rigogliosi, come la gioia della nascita di un/a figlio/a fa dimenticare il dolore provato. E così con lo sguardo già fisso sulla messe abbondante, che Dio è capace di trarre dal nostro cuore minacciato, diciamo col salmista: tu visiti la terra e la disseti, la colmi di ricchezze. Coroni l’anno con i tuoi benefici, al tuo passaggio stilla l’abbondanza. Le valli si ammantano di messi: gridano e cantano di gioia! Questo è quello che possiamo sperare per il nostro cuore, perché la parola non ritorna a Dio senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata.
03 - Lug - 2020

XIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIV Domenica T.O.(A)

(Zc 9,9-10   Sal 144   Rm 8,9.11-13   Mt 11,25-30)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il giogo è l’attrezzo agricolo che si mette sul collo dei buoi (o di animali da tiro in genere) per far loro tirare l’aratro o altro. Serve a tenerli insieme, ma siccome pesa sul collo e costringe la testa in basso, ha assunto nel linguaggio comune un significato negativo, sinonimo di oppressione. Ma non ogni giogo è così. C’è un giogo oppressivo, che potremmo ricondurre a quello che Paolo in questo brano della lettera ai Romani chiama “dominio della carne”, che conduce alla morte, perché spinge a seguire i desideri che sorgono dalle nostre ferite, dalle nostre devianze e dall’illusione di poter saziare il bisogno di vita che proviamo divorando e accumulando cose e persone (questi sono i desideri carnali che portano alle opere del corpo, nel linguaggio di Paolo). E poi c’è un giogo liberante, qualcosa che ci lega e ci sta addosso non per schiacciarci e condurci alla morte, ma per darci vita e per resuscitarci, qualora dovessimo morire. Questo giogo che fa vivere è la vita secondo lo Spirito, cioè una vita vissuta sotto l’azione dello Spirito, soggiogati dalla sua azione liberante e benefica.

Proprio di questo giogo parla Gesù in questo bellissimo passaggio del Vangelo di Matteo: ci chiede di portare addosso la sua compagnia, la sua parola e il suo stile. “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Portare il suo giogo significa avere il suo cuore, essere dominati dal suo Spirito e quindi vivere la sua umiltà. Fare questo ci porterà ristoro.
Gesù attraversa la storia umile, come il re di cui parla la prima lettura tratta dal profeta Zaccaria. Un re giusto e vittorioso, che spazza via la guerra, che domina, ma con tutta umiltà, a cavallo di un’asina e non di destrieri imponenti. Un re umile che viene a visitare la figlia di Sion, cioè il resto povero e oppresso di Israele. Un re mite che viene per liberare un popolo di affaticati e oppressi e quindi non può spaventarli od opprimerli ulteriormente con manifestazioni di potenza e grandezza. Gesù ha vissuto proprio così e così si offre a noi: capace di dare ristoro a chi si sottomette al suo giogo, che comporta umiltà e mitezza. Egli si mostra come il Figlio che riceve tutto dal Padre: non vanta patrimoni o poteri propri, nemmeno la sua vita gli appartiene, ma tutto riceve dal Padre suo. Egli vive sotto il giogo del Padre, cioè avvinto e avvinghiato al suo amore, e vivendo di Lui e per Lui si offre a noi in tutta umiltà, come colui che nulla può da se stesso, ma tutto riceve e tutto dona.
Perché sono i piccoli a vedere in tutto questo una buona notizia e non i sapienti e i dotti? Perché i piccoli conoscono sulla propria pelle l’oppressione e la violenza dei potenti che quotidianamente gli tolgono la vita. Se Dio fosse un altro signore di questo genere, per di più fornito di poteri illimitati, sarebbe da fuggire e sicuramente da non servire. Invece quando Dio si mostra nel proprio Figlio, che si riceve umilmente dal Padre e si rapporta in tutta mitezza con i fratelli e le sorelle, i piccoli prendono fiato, cominciando a sperare di poter scambiare il giogo oppressivo del peccato (proprio) e della violenza (altrui) con un giogo liberante che li lega a chi non viola, non rapina, non umilia e non uccide, ma dona continuamente la vita.
E così Dio non è un altro dominatore potente da temere o da accontentare, come i grandi della terra vorrebbero provando a scimmiottarlo, ma è il Padre-madre misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, buono verso tutti, pieno di tenerezza. Questa è la gloria e la potenza che non si può tacere, una cosa sola con la sua fedeltà e la sua bontà, che accompagna ogni passo, rialza chi cade e fa vivere tutto. Davvero un giogo dolce e un peso leggero, per cui rendere lode e benedire il Padre dei cieli.
26 - Giu - 2020

XIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIII Domenica T.O.(A)

(2Re 4,8-11.14-16   Sal 88   Rm 6,3-4.8-11   Mt 10,37-42)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica ci consegna la fine del discorso missionario riportato dal Vangelo di Matteo al capitolo decimo. Purtroppo fra il Vangelo di domenica scorsa e quello di oggi ci sono dei versetti che non vengono riportati, ma che è bene ricordare. Gesù chiude il discorso sulla persecuzione (che abbiamo visto domenica scorsa) dicendo che lui non è venuto a portare la pace sulla terra, perché il Vangelo è segno di contraddizione che porta a schierarsi apertamente e questo causa divisioni (come ogni scelta decisa per il bene e la giustizia). Come se non bastasse, Gesù ricorda quanto già detto e cioè che queste sofferenze ci possono venire inflitte da quelli di casa, da quelli che amiamo, e quindi, potremmo allargare, dalla chiesa stessa quando cerchiamo di servirla. Proprio a questo punto ci ricorda che (e qui inizia il brano di questa domenica)  chi ama quelli della propria casa (gli intimi) più di lui non è degno di lui. Penso si possa tradurre così: il Vangelo deve valere per te più di tutte le relazioni che vivi, non perché puoi o vuoi smettere di amare, ma perché dovendo scegliere fra l’essere odiato da chi ami e il Vangelo, scegli comunque il Vangelo. Ed ecco il detto successivo: chi non prende la croce e mi segue non è degno di me. Cioè: la tua vita di ogni giorno (comprese le sofferenze che derivassero dalle persecuzioni di chi ami) deve essere sotto il segno della croce, cioè deve essere vissuta, compresa e agita alla luce del Vangelo e della speranza che la croce di Cristo ci dà. Gesù ha così la pretesa di dare senso a tutto, di dare forma a tutto, di dare fondamento e ordine a tutto: ogni amore, ogni azione, tutto ciò che siamo deve girare intorno al nostro cuore profondo, consegnato al Vangelo. E questo si fa evidente quando, qualsiasi cosa succeda, l’unica cosa che non siamo disposti a rinnegare è proprio il Vangelo.

Nella seconda lettura (ancora una straordinaria pericope della lettera ai Romani) Paolo esprime questo dicendoci che chi è battezzato è sepolto (ovvero è morto a ciò che era prima) e ora vive per Dio in Cristo Gesù, camminando in una vita nuova. Diventando credenti, cioè, cambia il nostro orizzonte e tutto ciò che siamo si riorganizza intorno ad altre priorità trasformandosi, come quando i bambini crescono e improvvisamente abbandonano i giochi e si interessano ad altro, riorganizzando la giornata, le relazioni e i discorsi: sono morti a ciò che era prima per nascere di nuovo. Durante la crescita accade molte volte. Questo processo sul momento comporta una perdita, ma si rivela come un guadagno incommensurabile: chi perde la vita per causa mia – continua Gesù – la troverà.
Il discorso missionario si chiude infine parlando dell’accoglienza di quelli che vengono inviati dei quali viene dato anche un singolare ritratto. Essi sono profeti, giusti (per il Vangelo di Matteo la giustizia è molto importante, perché indica l’osservanza profonda della legge e quindi della logica di Dio) e piccoli.
L’accoglienza avrà una ricompensa, perché Dio è generoso con chi dimostra di amarlo e questo non perché segua le nostre logiche meschine che facciamo favori a chi ce li fa, ma perché l’amore non sa resistere nel ricambiare l’accoglienza e il dono, quindi quando Dio si vede accolto da chi ama ricambia con grande abbondanza (come ci mostra il racconto della prima lettura che vede protagonista il profeta Eliseo), come un innamorato che finalmente si vede corrisposto.
Dio però sembra possa essere accolto (e quindi ricambiato nel suo amore che ci viene a cercare) proprio in quelli che Gesù manda, nei quali si accoglie Gesù stesso (e accogliendo Gesù si accoglie Dio). Può sembrare troppo facile, ma funziona proprio così. Dio vuole essere amato in quelli che manda, nei profeti e nei giusti, ma soprattutto nei piccoli con cui si identifica, per cui chi sa tendere l’orecchio alla testimonianza che i piccoli sanno dare, può accogliere la parola viva di Dio e ai suoi occhi si farà evidente la verità del Vangelo. Bisogna avere la saggezza della donna che riconosceva in Eliseo un santo e un uomo di Dio e quindi si riteneva onorata della sua presenza e voleva dagli uno spazio tutto per sé: essa ha accolto Dio stesso accogliendo lui, perché ha avuto occhi capaci di riconoscere chi era che lo mandava, e per lei è scaturita la vita là dove nemmeno l’aspettava più.
20 - Giu - 2020

XII Domenica T.O.(A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XII Domenica T.O.(A)

(Ger 20,10-13   Sal 68   Rm 5,12-15   Mt 10,26-33)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura di questa domenica ci presenta un brano (fra i più complessi da interpretare) della lettera ai Romani, nella quale Paolo ci parla di due inizi, simboleggiati da due uomini: Adamo e Cristo. Adamo è (simbolicamente) l’inizio dell’umanità e anche della rottura del rapporto con Dio che ci fa sperimentare la morte, Cristo invece è (realmente) l’inizio di una umanità nuova, liberata dal potere del peccato e della morte, perché in Cristo la potenza vivificante di Dio si è mostrata in tutto il suo vigore.

Ora, proprio la certezza del potere che Dio ha sulla morte e sul male, come anche sull’ingiustizia e l’oppressione (perché a tutto questo Gesù è stato sottoposto risultando vincitore), ci infondono fortezza e speranza nel momento in cui sentissimo che la nostra vita viene minacciata. Il profeta Geremia esprimeva questa speranza, nel momento in cui i suoi nemici si radunavano sperando di trarlo in inganno di prendersi la vendetta su di lui, affermando di avere a fianco il Signore come un prode valoroso, come se una guardia del corpo forte e addestrata girasse con noi per le strade di notte: non ci sentiremmo certo come se dovessimo girare da soli per quartieri malfamati, scrutando ogni ombra e sobbalzando ad ogni rumore. Il profeta, consapevole di questa presenza, affida a Dio la sua causa, certo che il giusto non verrà abbandonato. E quello che accade quando si affida a Dio la propria vita in pericolo viene cantato nel salmo: sono diventato un estraneo ai miei fratelli perché mi divora lo zelo per la tua casa, ma io mi rivolgo a te, tu volgiti a me nella tua grande tenerezza. Chi cerca Dio si fa coraggio perché sa che il Signore ascolta i miseri e non disprezza i suoi che sono prigionieri.
Sulla stessa linea sta quanto affermato da Gesù in questo brano di Matteo, che appartiene al grande discorso missionario (il secondo del primo Vangelo). Gesù insiste più volte sul fatto che non dobbiamo avere paura.
Non dobbiamo avere paura, perché ciò che è nascosto (magari le opere malvagie degli uomini e le loro intenzioni meschine) verrà alla luce, come verranno alla luce quali sono le opere della giustizia e chi le compie (avere questa speranza vuol dire però essere certi che Dio può sconfiggere le forze del male che minacciano il mondo e noi, anche se queste riescono a vincere non poche battaglie).
Non dobbiamo avere paura perché chi ci fa del male, anche potesse ucciderci, non ha il potere di toglierci la vita se rimaniamo in Dio (perché la vita vera non coincide con la morte del corpo: si può perdere la vita anche senza morire e si entra nella pienezza della vita proprio morendo).
Non dobbiamo avere paura, infine, perché agli occhi di Dio noi valiamo molto e lui non smette di custodirci e di condurci alla vita.
A volte la strada si fa difficile: odio, persecuzione, minacce fisiche, violenze, diffamazione o semplicemente l’isolamento e la derisione ci fanno sentire che vengono minate le fondamenta della nostra vita, che non abbiamo il potere né le capacità di difenderci, che siamo perduti. In questi momenti bisogna solo rimanere fermi nella certezza che il Signore libera il povero dalla morte e che conta ogni capello del nostro capo con un amore tenero che guarda con incanto e cura persino ciò che in noi continuamente si rinnova, come i capelli sulla testa o le unghie delle dita.
Questa certezza del suo amore, resa evidente da come affrontiamo le avversità e i pericoli, è la nostra testimonianza più efficace. Non confidare nelle logiche degli oppressori, nella manipolazione, negli espedienti, nei favori, nel potere e nel denaro, pur di difendersi e affermarsi, ma confidare in Dio preferendo rimanere nella verità e nella giustizia, costi quello che costi, perché così lui non ci rinnegherà e questa è tutta la nostra forza, quello che ci fa vivere veramente. La paura che non dobbiamo avere, infatti, non è l’emozione che sorge in noi davanti al pericolo (questa è incontrollabile e fisiologica), ma quella paura che ci porta a cercare strategie di difesa altrove smettendo di confidare in Dio, come se su di lui non si potesse contare, e smettendo di vivere secondo la sua Parola, come se non portasse da nessuna parte. Invece proprio il nostro modo di stare di fronte a chi pensa di farci del male o di toglierci la vita, senza rinnegare Dio e la sua Parola, diventa testimonianza efficace nell’amore potente di lui e rende credibile al mondo il Vangelo che ci ha fatto rinascere in Cristo, facendoci pregustare la sua vittoria su ogni morte e ogni pericolo.
13 - Giu - 2020

Corpus Domini (A)

Corpus Domini

Corpus Domini (A)

(Dt 8,2-3.14-16   Sal 147   1Cor 10,16-17   Gv 6,51-58)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il mistero della Trinità, che abbiamo contemplato domenica scorsa, ci mostra l’unica vita condivisa da Padre, Figlio e Spirito, intrecciati in relazioni inestricabili, libere e liberanti. Abbiamo visto che questa vita d’amore che lega i Tre in perfetta unità è offerta anche a noi, perché anche noi viviamo di relazioni inestricabili e libere con Dio e fra di noi. Il mistero del Corpus Domini, che celebriamo in questa domenica, può essere visto come l’evidenza del nostro coinvolgimento nella vita di Dio: come i Tre vivono l’uno con l’altro e l’uno nell’altro, così si offrono a noi, per vivere in noi e lasciarci vivere in loro, e questo accade corporalmente quando ci raduniamo per celebrare la cena del Signore e mangiamo il pane e il vino che realizzano la presenza di lui.

Nel Vangelo di Giovanni (al termine del lungo discorso sul pane di vita riportato al capitolo sesto) leggiamo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Nutrirsi del Signore vuol dire infatti farlo abitare in noi e allo stesso tempo abitare in lui, in una reciproca inabitazione che richiama in tutto e per tutto quella che c’è fra Padre e Figlio. L’unica vita che loro condividono viene offerta a noi e così anche noi la condividiamo con loro e fra di noi.
Per avere questa vita, però, occorre mangiare la carne di Gesù e bere il suo sangue. Che cosa significa questo? Ci possono aiutare le letture di questo giorno, cominciando dalla prima nella quale leggiamo: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore. Mangiare la carne di Gesù e bere il suo sangue dunque significa anzitutto fare nostre le sue Parole, vivere il suo Vangelo, non dimenticare l’opera di Dio, ma celebrarlo continuamente con la concretezza del nostro vivere. Mangiare Gesù significa vivere di lui (esattamente come siamo tenuti in vita e in forze dal cibo che mangiamo) ovvero vivere del suo mistero, del suo insegnamento, del suo amore, e assimilarlo al punto da farlo nostro. Come il cibo che mangiamo si trasforma in tessuti, organi ed energia, così la parola di lui, la contemplazione della sua vita, si trasforma in ciò che ci costituisce, nei nostri gesti, nelle nostre parole. Mangiamo lui per diventare lui.
La seconda lettura, poi, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, ci ricorda che mangiare la carne di Gesù e berne il sangue significa celebrare il gesto che lui ci ha lasciato in segno di perenne alleanza: il suo pane da spezzare insieme e il suo vino da bere insieme. Fare questo gesto rende presente il Signore tanto che noi possiamo mangiare di lui, nutrirci del suo pane e dissetarci del suo vino, e mangiando di lui, diventiamo capaci di ripetere il suo gesto nella vita, spezzandoci per altri e offrendoci loro come nutrimento (pane) e gioia (vino).
Ripetere il gesto di Gesù che lo rende presente, infine, fa della chiesa un corpo solo: poiché mangiamo un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo. Ciascuno è nutrito dallo stesso cibo che lo fa vivere e lo trasforma in Cristo stesso, per vivere nella propria vita le sue parole e i suoi gesti, ma questo avviene a tutti coloro che mangiano (e che mangiano insieme) e così tutti si trovano uniti in un’unica vita, proprio perché nutriti e sostenuti dall’unico Signore che li abita e li fa vivere.
E così torniamo a contemplare il mistero della vita condivisa che la festa della Trinità ci mostrava come proprio di Dio, ma questa volta lo contempliamo nella chiesa che è resa un’unica vita (un unico corpo) dal dono che Cristo fa di sé, venendo ad abitare corporalmente in ciascuno dei suoi e stringendoli così tutti in unità, tutti in lui e lui in loro.