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29 - Dic - 2019

Maria madre di Dio

Madre di Dio

La tenerezza di Dio

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Maria madre di Dio
Liturgia

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La solennità di oggi conclude l’ottava di Natale (una sola lunga festa durata otto giorni), mette al centro la madre di Dio e allo stesso tempo guarda allo scorrere del tempo con l’inizio dell’anno nuovo.

La breve lettura tratta dalla lettera ai Galati (unico riferimento seppure indiretto a Maria di tutti gli scritti paolini) ci indica una cesura nel tempo, quando Dio mandò il suo figlio, nato da donna. In quel momento la storia è stata il luogo in cui si è compiuta la promessa delle benedizioni annunciate nel libro dei Numeri. Dio ci ha rivolto il suo volto non più limitandosi a custodire, benedire e ricoprire di benevolenza, ma ha mandato il proprio Figlio. La differenza si misura nel passaggio – sempre spiegato da Paolo – fra l’essere schiavi (in attesa della benevolenza misteriosa del proprio Signore) e figli (in intimità profonda con Dio, abitati dal suo stesso amore e guidati dalla sua logica).
La prima in questo cammino di figliolanza che introduce all’intimità con Dio è proprio la madre di Gesù. Ella ascolta dai pastori ciò che si dice del suo bambino. Le parole ricevute dall’angelo sembrano lontane, ne vengono altre e lei, come aveva fatto con le prime e come farà con quelle che seguiranno, le custodisce e le medita. Gli altri, i pastori, possono ritenersi soddisfatti di ciò che hanno visto e lodare Dio (anche Maria aveva fatto così, quando aveva visto in Elisabetta il segno che l’angelo aveva detto a lei di andare a vedere), ma la madre invece deve restare, custodire e meditare: c’è molto altro da vedere ancora.
Quante parole e quanti gesti ogni genitore custodisce del proprio bambino: le prime parole, quello che gli altri hanno detto, il modo di dormire e di piangere, i capricci, gli episodi che diventano leggendari in ogni famiglia quando i figli ci stupiscono o ci rallegrano improvvisamente. Siamo come di fronte ad un miracolo continuo: una vita nuova che si apre davanti ai nostri occhi, senza veli, eppure in un mistero indisponibile. Sono i nostri figli, sappiamo tutto di loro, eppure ciò che essi sono ci sfugge e ci supera.
Maria vive questa esperienza in modo estremo, perché in questo bambino si nasconde il segreto di Dio, il volto del Padre, il soffio leggero dello Spirito. Lei ascolta le parole che vengono dette su di lui, forse per comprendere, forse per essere all’altezza di quello che le viene chiesto, forse per dire a Gesù queste parole mentre cresce, con quella leggerezza che appartiene al quotidiano nel quale le madri sanno insegnare le verità più profonde dell’esistenza, mentre si sistema una stanza, mentre si fa una passeggiata, mentre si lavano i piedi o si accarezza la testa prima di dormire. Parole custodite, meditate e offerte al Signore che cresce: l’umanità di Gesù si nutre di ciò che Maria medita e custodisce nel cuore e poi, un giorno, lei si nutrirà, come discepola, di ciò che il cuore di Gesù offrirà al mondo.
Si tratta di un tempo benedetto il nostro, un anno nuovo per meditare e custodire le parole che Dio ci offre, per saper poi riconoscere, come Maria, il Maestro capace di insegnarci la vita dei figli e di introdurci, già ora, anche quando sembra impossibile per le contingenze a volte impietose, nella pienezza della vita.
26 - Dic - 2019

Festa della Santa Famiglia

Santa Famiglia

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Santa Famiglia

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Maria, Gesù e Giuseppe si trovano a dover vivere in modo totalmente nuovo l’esperienza di essere famiglia. Gesù non è figlio di Giuseppe e Giuseppe, quindi, non è padrone del proprio figlio né della propria moglie, come era a quei tempi. Maria è madre di un bambino che non le appartiene e che se ne andrà senza prendere il proprio posto nella struttura della famiglia e della società civile, inoltre si trova in una posizione di libertà insolita nei confronti del marito perché non è suo possesso. Gesù è figlio obbediente, ma teso ad un Padre esigente che lo porterà a contravvenire ai propri doveri di primogenito maschio.

Si tratta dunque di una famiglia fuori dagli schemi del proprio tempo, strutturata non sulla base delle regole sociali e religiose ma solo sull’ascolto della parola di Dio. L’ascolto della parola ha portato Maria a questa insolita maternità che le dà anche un’indipendenza singolare e l’ascolto della parola ha portato Giuseppe a prenderla con sé. Sempre questo ascolto porterà Gesù fuori dalla struttura familiare in cui avrebbe dovuto vivere.
Nel Vangelo di questa domenica Giuseppe sogna (e quindi ascolta la voce di Dio) ben due volte: la prima per fuggire in Egitto (esule) e la seconda per tornare a Nazareth. Tutte e due le volte l’evangelista sottolinea come l’ascolto sapiente di Giuseppe realizzi una parola pronunciata dai profeti, lasciandoci intendere che la logica di questo uomo giusto è la logica della parola di Dio. Non solo sogna, ma, come l’antenato di cui porta il nome (il figlio amato di Giacobbe), è capace di interpretare i sogni secondo il pensiero di Dio che ci è testimoniato in modo precipuo dalle Scritture. Tocca a lui applicare tutte le decisioni, perché nel primo secolo le donne erano considerate incapaci come i bambini e quindi non potevano decidere di sé né di altri, ma Giuseppe decide sempre e solo sulla base di ciò che Dio dice, costituendo la propria famiglia intorno alla parola di Dio.
Questa, poi, è capace di dare un nuovo significato anche alle relazioni che sembrano più “naturali” e di stravolgere le regole pensate da ogni società per la famiglia. Nella prima lettura il libro del Siracide ripresenta il quarto comandamento, onora il padre e la madre, aprendolo oltre la sensata gratitudine e al di là dell’interesse personale (curare i genitori permette infatti subentrare nel loro ruolo o nell’eredità). Si insegna un amore rispettoso, che cerca di onorare chi invecchia e al quale si deve la vita. C’è una giustizia in questa memoria grata che non comporta certamente un’obbedienza cieca ai genitori, né la consacrazione di un sistema sociale centrato sugli anziani, ma piuttosto si tratta di contraccambiare l’amore proprio mentre non si ha più bisogno dell’altro. Si amano coloro che ci hanno dato la vita non più perché dipendiamo da loro, ma perché rendiamo onore a ciò che sono e alla fatica che hanno fatto per crescerci: gratuitamente siamo stati amati, gratuitamente amiamo coloro da cui non dipendiamo più.
La seconda lettura, tratta dalla lettera ai Colossesi, sembra ricapitolare tutto quanto detto fin qui. Ricorda ai credenti di vivere l’umiltà, il perdono vicendevole, la carità e la pace, ma, perché questo sia possibile, esorta a far dimorare la parola di Dio in mezzo a loro. La famiglia cristiana si caratterizza proprio per questo dimorare della parola di Dio, continuamente richiamata con ogni sapienza e poi cantata con riconoscenza. Solo così tutto ciò che faremo, parole e opere, sarà nel nome del Signore Gesù e saremo riconoscenti e in pace. Vivendo così non ci sarà più la sottomissione delle mogli (propria delle culture sessiste e ingiuste) ma la sottomissione “come si conviene nel Signore”, cioè una sottomissione reciproca, come ricorda la lettera agli Efesini. Nel primo secolo infatti non si poteva predicare l’uguaglianza fra moglie e marito (sarebbe come predicare oggi il fatto che l’imprenditore riceva uno stipendio come il dipendente), ma la struttura ingiusta che sottometteva la moglie, anche se non poteva essere tolta, poteva essere resa innocua dall’amore e quindi dalla sottomissione reciproca.
Simile è poi il discorso per i figli: questi debbono obbedire (d’altra parte questi sono incapaci di giudizio fino a che non diventano grandi), ma (e questa è la nota evangelica da sottolineare) i padri (che allora erano ritenuti padroni dei figli) non devono esasperarli, riscoprendo il loro ruolo di guida e custodi, lontani dalle logiche di dominio.
Solo la parola di Dio può rendere tali le relazioni familiari, come è stato nella prima chiesa, come è stato per Giuseppe, Maria e Gesù. Dimori allora la sua parola abbondantemente tra di noi, non si spenga mai il suono di ciò che dice, nemmeno nel silenzio del sonno, perché come la famiglia che ha cresciuto Gesù non ci domini altra logica che l’amore e il servizio reciproco.

 

23 - Dic - 2019

Santo Natale (giorno)

Presepio Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Santo Natale (giorno)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ogni bambino che nasce è una novità assoluta: l’umanità ha l’occasione di ricominciare in una storia nuova, che non è costretta a ripetere ciò che è stato. Infatti ogni essere umano è unico e nessuno può sapere quale catena di conseguenze scaturiscano da una nascita: quali incontri, quali eventi, quali percorsi. Ognuno che nasce cambia la fisionomia del mondo, come un solo filo tirato stravolge l’intreccio accurato del tessuto, ma quello che è vero per tutti e tutte in Gesù è vero come per nessuno/a.

La liturgia del giorno di Natale contempla quanto accaduto nel buio della notte e si ferma sul fatto che la luce che è apparsa è in realtà un bambino, un essere umano fragile, carne. In questa carne, nella sua storia, Dio – quel Dio che nessuno ha mai visto – si è fatto visibile. Guardando come Gesù ha vissuto, quello che ha detto e fatto, ciascuno ha la possibilità di contemplare la gloria che viene dal Padre, può cioè riconoscere che lui ha con Dio un rapporto unico da sempre (questo significa che era presso Dio ed era Dio), un’intimità speciale, che lo rende capace di illuminare tutti con quella stessa luce che riempie tutto il creato e che lui conosce perché tutto è stato fatto per mezzo di lui.
Accogliere lui, riconoscerlo, permette di rinascere come figli di Dio. Mentre celebriamo la nascita di Gesù, dunque, celebriamo la nostra rinascita, perché chi riconosce nella storia di Gesù quella del figlio di Dio, si mette sulla stessa via e così, anche lui/lei, ricomincia a vivere (rinasce) come figlio/a di Dio, cercando di avere gli stessi sentimenti di Gesù, i suoi pensieri, il suo amore, in modo che la propria carne mostri (proprio come quella di Gesù) il Padre.
Questa è la salvezza che tutte le nazioni aspettano di vedere (come ci ripete di nuovo il profeta Isaia): la vita del Figlio di Dio, nella quale risplende il volto del Padre, altrimenti invisibile, e la vita di quelli che in lui sono rinati e che mostra, anch’essa, il volto del Padre. A questo punto (come ci spiega la lettera agli ebrei) Dio non ha più bisogno di parlare, i profeti non hanno più niente da aggiungere, i sacrifici finiscono, non occorre più alcun messaggero angelico che medi fra Dio e gli uomini: in modo ultimo Dio ha parlato per mezzo del Figlio, fondamento e fine di tutto ciò che esiste.
La vittoria di Dio, la sua salvezza, la sua parola, hanno preso carne, la carne di Gesù. Siamo chiamati a immergerci in essa, non per intenerirci di fronte ad un bambino, ma per contemplare e custodire tutto di lui, ogni sguardo, ogni gesto, ogni parola, e fare nostro tutto il suo vissuto. Vivendo questo dono che abbiamo ricevuto daremo l’occasione all’umanità di conoscere Dio e accadrà che tutti i confini della terra vedranno, in coloro che sono rinati da Dio, la salvezza di lui e proromperanno così in grida, acclamazioni e in un unico canto nuovo che celebrerà tutte le meraviglie del Signore.
23 - Dic - 2019

Santo Natale (notte)

Presepio Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Santo Natale (notte)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Celebriamo la nascita di Gesù di notte, perché abbiamo bisogno di stare al buio. Non perché Gesù è nato di notte, quasi in una ricostruzione romantica degli avvenimenti di allora, ma perché Dio viene ad illuminare le tenebre in cui noi e il mondo si trovano. Per celebrare il Natale dunque bisogna prima di tutto aprire gli occhi ed accorgersi di essere immersi nelle tenebre.

Il profeta Isaia ci presenta il popolo che deve camminare nelle tenebre. Immaginiamo le persone inciampare, stringersi le une alle altre, sbattere contro gli ostacoli, perdersi, tendere le orecchie impaurite dai rumori senza distinguere che ombre. Un viaggio sofferto, lento, terrificante. E poi, improvvisa, la luce, a rallegrare. Sarà un bambino, dice il profeta, a portare questa luce che costruirà una pace senza fine.
Questo racconto antico si rinnova nella pagina di Vangelo raccontata da Luca: nella notte, vegliando il proprio gregge, i pastori ricevono l’annuncio di una grande gioia, mentre vengono avvolti dalla luce, e devono mettersi in cammino al buio se vogliono vedere il segno che è stato loro promesso. Anche Gesù, appena nato, ha compiuto un viaggio nel buio, durante il travaglio del parto che l’ha portato alla luce.
Si deve stare al buio se si vuole gustare la luce. E così, come quando ci si allontana dalla città per godersi la stregante bellezza del cielo stellato che mostra ciò che sempre c’è e mai riusciamo a vedere per la troppa luce, se vogliamo vedere la luce che questo bambino porta, dobbiamo uscire al buio: accogliere il buio del nostro cuore, delle nostre fatiche, delle nostre povertà, delle nostre paure, e accogliere il buio degli altri e della storia. Fermi così vedremo la luce che questo bambino è, una luce capace di rischiarare ogni tenebra.
In questo bambino infatti si fa visibile e palpabile quanto Dio ami il mondo, poiché ci dona il suo Figlio in modo che – come leggiamo nella lettera a Tito – impariamo a rinnegare l’empietà e a vivere con giustizia e pietà. Seguendo lui, scopriremo che ha dato tutto se stesso per liberarci da ogni male e renderci pieni di opere di bene. Questo Dio ha fatto per noi, perché non continuassimo ad inciampare nelle tenebre, perché non restassimo schiavi del male e condannati a ripeterlo, perché non fossimo privati della speranza. In questo bambino abbiamo una possibilità nuova, la storia intera può ricominciare, ciascuno di noi può scegliere di nuovo di vivere. E, ora, di fronte a questa luce, come di fronte all’esercito schierato delle stelle che fa del buio l’occasione per risplendere, può prenderci una profonda commozione e così dal cuore pieno di gioia sgorga la lode riconoscente: gloria a te Signore che hai fatto questo per noi e, su voi fratelli e sorelle, su ciascuno di noi, su ogni creatura e sul mondo intero, finalmente la pace.
20 - Dic - 2019

Natale 2019

Buon Natale 2019

20 - Dic - 2019

IV Domenica d’Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

IV Domenica d’Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Senza una parola che illumini, i fatti della vita, compresi quelli in cui Dio si fa presente, non vengono compresi. Per questo Dio prepara la venuta del suo Figlio con tante parole che i profeti ripetono in diversi contesti e a diverse persone, come accade con Acaz che, come ci racconta il profeta Isaia, non vuole nemmeno che Dio gli si faccia presente con un segno (e trova una motivazione buona, persino spirituale, per tenerlo lontano: “non voglio tentare il Signore”). Ci ricorda la lettera ai Romani che Dio molte volte aveva promesso il Vangelo e questo perché, quando si sarebbe verificata, Israele fosse in grado di riconoscere la visita del suo Dio.

Così è anche per ciascuno di noi. Abbiamo ascoltato molte parole che ci possono istruire a riconoscere la presenza di Dio nella storia e nel nostro cuore, così che quando arrivi il momento noi sappiamo leggere ciò che ci accade alla luce delle sue promesse e scoprire così la salvezza per noi e per tutti (proprio come Paolo la scopre per sé e per le genti chiamate alla fede).
Anche Giuseppe di Nazareth aveva ascoltato molte parole e era andato così a fondo nell’ascolto della legge che per rispettarne il cuore non poteva osservarne la lettera: infatti quando viene a sapere che Maria è incinta, dovrebbe ripudiarla se osservasse la lettera della legge, ma Giuseppe, uomo giusto, uomo cioè secondo il cuore di Dio, sa che il significato profondo della legge è far vivere e così il ripudio (come spiegherà Gesù al capitolo 19 di Matteo) – a maggior ragione nel caso di Maria – non può essere posto in atto. Si inventa un congedo in segreto, per onorare il comandamento secondo giustizia, ma il sogno – in cui Dio, secondo la tradizione ebraica, parla con un settantesimo della voce – scuote la sua decisione: può prendere con sé il bambino e la madre, perché sta accadendo quello che i profeti avevano promesso. La parola di Dio permette a Giuseppe di comprendere ciò che accade non come un’offesa e una sventura (perché gli viene chiesto di non essere più padrone di moglie e figli, come era tipico del tempo, ma solo servo di entrambi, divenendo icona di ogni paternità cristiana), quanto piuttosto come il compiersi di tutte le promesse, come la più grande delle gioie, anche se questo avrebbe reso la sua vita ciò che lui non pensava e che non avrebbe scelto.
La venuta di Dio accade così, per ciascuno, in fatti oscuri, ordinari o persino in situazioni assurde che mai avremmo voluto. Per accorgersi di questa presenza che salva e dà senso al nostro vivere, ci serve una parola che spieghi e illumini, come è stato per Giuseppe e per Maria. Solo questa parola è capace di mostrarci in questo bambino, nato come tutti, il Salvatore, quello che può darci la chiave per vivere ogni situazione e per farci sperare, perché già pregustata, la pienezza della vita. Si tratta solo di un germoglio, di una promessa di vita, come è per ogni bambino, ma la Parola ci guida a coglierne la portata e a fondare la vita su di essa, perché “del Signore è la terra e quanto contiene, il mondo con i suoi abitanti; è lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito”. Si tratta solo di un inizio, ma così solido da far intravvedere pienezza e compimento.
13 - Dic - 2019

III Domenica d’Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

III Domenica d’Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’annuncio di gioia che le letture di questa domenica fanno, come se la salvezza di Dio fosse imminente, come se tutto quello che minaccia il mondo non fosse più pericoloso, è spiazzante. Vediamo intorno a noi i segni della violenza umana sui poveri e sulla natura. Disastri e guerre, divisioni, odio, cieca stupidità e sete sfrenata di guadagno sembrano i dominatori del mondo. E anche il nostro cuore, pure intenzionato a vivere rettamente e secondo Dio, spesso ci tradisce, scegliendo il male, l’ipocrisia, la paura. I nostri progetti non vanno tutti a buon fine né le nostre relazioni sono tutte riconciliate e gioiose.

Proprio qui, in questa terra arida (un deserto o una steppa, per dirla con il profeta Isaia), si dà un annuncio di gioia, perché nel deserto vedremo spuntare i fiori. Siamo di fronte ad un’illusione?
Ogni volta che si è davanti ad una promessa, dobbiamo decidere se veniamo ingannati o se possiamo appoggiare la nostra vita su quello che ci viene annunciato. Lo decidiamo in base ai pegni che anticipano questa promessa e all’affidabilità di chi la fa. Però, anche i pegni fossero validi e la persona degna di fiducia, dobbiamo aspettare perché spunti il fiore seminato, perché arrivi chi attendiamo e perché si compiano le promesse fatte. Bisogna avere la sapienza dell’agricoltore (così nella lettera di Giacomo) che sa aspettare il tempo che serve alla terra per dare i suoi frutti.
Questa saggezza, quando si tratta di attendere il regno di Dio, non è immediata. Persino il Battista fatica a riconoscere in Gesù il pegno anticipatore della promessa di Dio. Allora Gesù istruisce quello che era stato il suo maestro ricordandogli la Scrittura e chiedendogli di leggere ciò che accade alla luce di questa. Così dobbiamo fare noi: guardare la realtà comprendendola sulla base della parola che Dio dice. E Dio ci invita a guardare i ciechi che vedono (tutti coloro che riescono ad accorgersi che la vita non può essere vissuta se non nella giustizia e nell’amore), gli zoppi che camminano (quanti pur segnati da ferite e fallimenti non si fermano e vivono e fanno vivere), i lebbrosi che guariscono (quanti sono rimessi al mondo dalla cura e dal perdono), i sordi che odono (quelli che cominciano a fare propria la parola di Dio e a vivere di conseguenza), i morti risuscitano (quanti scelgono di accogliere l’amore del Padre per ricominciare a vivere dopo aver perduto tutto), l’annuncio del Vangelo fatto ai poveri, perché tutti sappiano che Dio è Amore che libera.
Queste tracce dell’opera di Dio sono ovunque e conducono ad una via santa, sulla quale si può vivere con gioia, cancellando la tristezza, anche mentre si è nella fatica dell’attesa e mentre si aspetta una salvezza che ancora non si può gustare.
Se una donna appena saputo di essere incinta volesse stringere il proprio bambino, impazzirebbe o interromperebbe la gravidanza. Ma il corpo femminile ha una sapienza antica, che lo fa aspettare, gustando la presenza invasiva di una promessa, acuendo i sensi per cercare continue conferme, accogliendo come un dono persino lo sformarsi del proprio corpo, perché tutto questo è la traccia della vita che lo abita. Così dobbiamo attraversare la storia, cercando l’opera di Dio che fa vivere e libera, servendola, moltiplicandola, eliminando ogni ostacolo alla sua azione, facendoci coraggio di fronte ad ogni segno della sua potenza vivificante. Per fare questo bisogna aver compreso la logica di Dio e averla fatta nostra, allora saremo già nel Regno dei cieli e potremo dire a tutti quelli che dubitano della salvezza (come accadde al più grande dei profeti): guarda bene, Dio rende giustizia agli oppressi e libera, ridona la vista e rialza chi è caduto, sostiene i poveri e protegge i forestieri. Guarda bene: il Signore regna per sempre. E gli altri, come è stato per il Battista, crederanno perché vedranno in noi, come lui ha visto in Gesù, questa speranza farsi storia nelle nostre vite.

 

07 - Dic - 2019

Immacolata Concezione

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Immacolata Concezione (II Avvento)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ogni volta che celebriamo una festa mariana rischiamo di fare l’elenco dei “privilegi” di Maria, dimenticandoci che è nostra sorella, la prima dei discepoli di Cristo e che per questo possiamo celebrare ciò che accade a lei come qualcosa che ci riguarda. Per questo è bene, piuttosto che speculare sul significato del dogma proclamato nel 1854 da Pio IX, immergersi nelle letture liturgiche che ci aprono la possibilità di comprendere la nostra storia tramite la storia di lei.
Chiediamo in modo particolare alla liturgia di questa festa che cosa significa essere santi e così capiremo perché contempliamo in Maria la perfezione di questa santità. E cominciamo sfatando il mito che la santità sia un “non fare peccati” (in questo la festa dell’Immacolata potrebbe portarci fuori strada) o un “essere innocenti” come i bambini: questo sarebbe ancora poco. Ce lo dice bene la prima lettura: Adamo ed Eva nel racconto genesiaco vivono come i bambini (nudi, senza vergogna, senza distinguere il bene dal male), ma l’essere umano non è fatto per stare in questa condizione, che infatti non dura: essere come bambini è poco. Uomini e donne devono invece crescere e liberamente scegliere di amare e di entrare in relazione con Dio, con il prossimo, con il mondo. Il tentativo di Eva ed Adamo è fallimentare (nel cercare di diventare adulti strappano la comunione con Dio e fra di loro con gravi conseguenze) ma la direzione è quella giusta.
Maria si trova davanti a Dio come i protagonisti del racconto di Genesi. Anche lei deve scegliere da donna libera e adulta chi vuole servire e come. E lei decide di sé: decide di servire il Dio di Israele. Non sa ancora che cosa questo le chiederà, non ha ancora iniziato il proprio discepolato, non conosce le difficoltà dell’essere madre e tanto meno dell’essere madre di questo bambino, ma sa che vuole vivere servendo Dio e decisa per lui. Accoglie la sua parola e questa la renderà sempre più simile al proprio figlio, cioè amata dal Padre, figlia adottiva di lui: è una parola che la immergerà in un mistero d’amore che la santifica continuamente.
La verginità di Maria, annotata da Luca, non indica la sua purezza (avere rapporti sessuali non rende impuri né meno integri) ci dice invece la sua libertà, perché al tempo in cui lei è vissuta una donna sposata non era libera, ma era di proprietà del marito che prendeva possesso di lei tramite i rapporti sessuali. Oggi, ovviamente, nessuno pensa più questo, ma dobbiamo tenere il significato: per rispondere alla volontà di Dio occorre essere liberi, decidere di se stessi. E Maria lo fa: non ha bisogno di un marito o di un padre che le dica che cosa fare, ascolta la parola di Dio e la mette in pratica.
La santità è questo cammino di pienezza verso la vita realizzato nell’ascolto sempre più profondo di una parola che interpella la nostra libertà. Se abbiamo dei padroni (esteriori o interiori) non siamo liberi di servire Dio, Maria invece era evidentemente arrivata a quel momento pronta per una scelta libera e adulta (come abbia vissuto prima è un mistero di cui non sappiamo nulla…) e così realizza pienamente quello che Dio chiede ad ogni persona: amarlo sempre di più e sempre più profondamente.
Per noi come per lei, la santità è un cammino di crescita continua, che porta ad un ascolto sempre più attento della Parola del Padre perché questa prenda consistenza nelle nostre parole, nei nostri gesti e in tutto quello che siamo. Ce lo dice il bellissimo inno della lettera agli Efesini: siamo stati scelti per un progetto che prevede la nostra santità, il nostro essere immacolati nell’amore, fino ad essere figli adottivi di Dio e diventare per lui un motivo di gioia grande.
Maria è colei che per prima ha giocato la propria libertà totalmente su Dio, scegliendo chi voleva essere e senza obbedire ad altra parola che a quella del Padre. Ci sta di fianco perché anche noi facciamo lo stesso: prima nel discepolato, prima nella santità, prima nel progetto che ci vuole santi e immacolati nella carità per il dono gratuito di Dio.
Davvero possiamo cantare al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.

30 - Nov - 2019

I Domenica Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

I Domenica Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La vita si gioca nell’infinito rincorrersi di momenti che sembrano lasciare tutto come è, miriadi di istanti rapidi e subito dimenticati, fra i quali si nascondono momenti, ore, giorni che hanno la capacità di cambiare tutto: nascite, morti, incontri, intuizioni, scoperte. Nessuno può sapere se il prossimo momento sarà uno di quelli che aggiungerà una nota già sentita alla musica che stiamo già ascoltando o se invece interverrà una variazione, una stonatura, un nuovo strumento, un silenzio.

L’avvento è il tempo liturgico che ha la capacità di richiamarci su questa ambiguità della vita: ogni attimo dell’esistenza, di per sé così anonimo, può portare una venuta straordinaria in cui si nasconde una nuova modalità di farsi presente di Dio. Se infatti è vero che lui non abbandona mai il mondo a se stesso (né lascia noi soli), è vero anche che si fa presente sempre in modo nuovo, facendosi riconoscere nello stile e nelle parole con cui già si è fatto vedere altre volte, ma allo stesso tempo portando novità che sanno essere sconvolgenti.
Che succede se si vive la vita assopiti dal ritmo sempre uguale dei giorni e non si pensa più che ogni attimo possa nascondere altro? Che succede se, quando qualcosa di spaventoso o comunque di straordinario irrompe, non sappiamo ricondurlo alla presenza di Dio? Accade quello che Gesù descrive nel Vangelo: due uomini lavorano nel campo, ma solo uno viene preso. Due donne macinano, ma una sola viene presa. Il rischio, cioè, è di perdere l’occasione della propria liberazione e rimanere con un palmo di naso.
In mezzo alle vicende della vita, infatti, come un ladro di notte, sono in agguato quelle situazioni in cui Dio si fa liberatore potente per ciascuno. Può trattarsi di occasioni, doni, incontri, anche fatti gravi o tristi, o qualcosa che fa finire il nostro mondo, come un lutto, un tradimento, un fallimento. Queste realtà possono sommergerci come un diluvio ma diventano occasione di salvezza, se, come Noè, siamo pronti.
Il vero nemico – ci spiega il breve brano della lettera ai Romani – è il sonno, il torpore che ci distrae dallo scrutare lo scorrere del tempo alla ricerca della presenza di Dio, un torpore fatto di eccessi che stordiscono (orge, ubriachezze e lussurie…che oggi potrebbero essere anche la volgarità, la stupidità o semplicemente la superficialità) e di litigi e gelosie, che spostano l’attenzione da ciò che conta a piccinerie e ripicche: tutte cose che fanno tenere lo sguardo basso e accorciano la vista, facendoci vivere come se il momento di adesso fosse solo un momento fra i tanti e non potesse portare con sé l’avvento del Signore.
Al contrario, occorre ascoltare la voce delle Scritture e il richiamo dei profeti per ricordare che i giorni non sono eterni e che, pur così fragili e anonimi, nascondono infinite novità in cui Dio salva e ci conduce alla meta. Il cammino che facciamo infatti, come l’equipaggiamento di cui necessita e i sentimenti che l’accompagnano, dipende sempre dalla meta. L’avvento è il tempo in cui dobbiamo ricordarci con chiarezza che non stiamo vagando, ma puntiamo dritti al monte del Signore. Andiamo lì per vivere secondo la sua logica, per avere un giudizio equo sulla storia e per godere la pienezza della pace. Ogni istante, anche il prossimo, può nascondere per noi il venirci incontro della metà che attendiamo, proprio come accade quando, un passo dopo l’altro, improvvisamente, una curva della strada lascia intravvedere l’arrivo del viaggio per poi subito nasconderlo di nuovo, ridandoci però slancio e consapevolezza: siamo sulla strada giusta, siamo più vicini ora di quando abbiamo cominciato. Andiamo, allora, aguzzando la vista lungo la strada, perché non ci sfugga proprio ciò per cui ci siamo messi in viaggio: il Signore viene, nessuno sa quando, ma potrebbe essere anche adesso. Conviene stare pronti, per non perdere l’occasione della vita che in quell’unico istante fra tutti ci viene incontro.
23 - Nov - 2019

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Cristo Re

p. Marko I. Rupnick

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nell’ultima domenica del tempo ordinario, celebriamo la solennità di Cristo re. Forse per noi la regalità è qualcosa di distante, ha il sapore antico della storia passata, se non quello surreale delle fiabe, per cui prima ancora di comprendere in che modo Cristo possa dirsi re, lui che non ha voluto esercitare potere su nessuno ed ha esplicitamente respinto la tentazione di regnare su tutti i luoghi della terra, è bene provare ad entrare nel senso di un’immagine così antica.

Il re era certamente un uomo potente, temibile, assimilato alla divinità, se non venerato come tale. Il popolo doveva e voleva stringersi intorno a lui perché lui garantiva l’unità di tutti e in qualche modo ne rappresentava la salvezza. Questa però era vista nella possibilità di far prosperare il popolo e di difenderlo dai nemici, quando non, addirittura, di sottometterli per arricchirsi.
Con questa speranza nel cuore, anche gli israeliti – che già avevano abbandonato la frammentata struttura tribale per stringersi intorno a Saul – cercano Davide perché possa prendersi cura di loro e custodirli. La scelta cade su Davide, però, non per le sue qualità o per la sua capacità di persuadere il popolo a seguirlo, quanto per la scelta che Dio fa e che segue criteri distanti da quelli del successo e del potere.
Il popolo e Davide stringono allora un’alleanza, diventano un corpo solo (siamo tue ossa e tua carne, con un’espressione che richiama l’unione sponsale), perché da questo momento in poi il volere del re sarà quello del popolo e il destino del re quello del popolo.
Anche la regalità di Gesù dipende dalla scelta del Padre su di lui, il figlio prediletto inviato agli uomini per dare loro la vita, ma nel Vangelo che proclamiamo questa domenica appare evidente come dipenda anche da lui, dalla risposta che lui dà alla scelta del Padre.
Nel breve brano di Luca, Gesù è in croce. Per tre volte viene provocato: salva te stesso. Ogni re, d’altra parte, è scelto per salvare e far vivere il popolo, deve essere quindi in grado, anzitutto, di salvare e far vivere se stesso. Gesù però ha scelto un’altra via. Lui non è re per imporsi sugli altri, per mostrare il suo potere e le sue capacità, nemmeno per salvarli, ma solo per rendere evidente che il segreto della vita, la sua logica profonda sta nella consegna al Padre e che questo è colui che fa vivere e salva.
Se si fosse salvato da solo, avrebbe avvalorato la logica del mondo per cui vince chi ha potere, chi ottiene risultati, chi ha influenza, chi trova modi più o meno leciti per mandare le cose come vuole lui. A fin di bene magari, ma chi agisce in questo modo testimonia che la vita dipende da noi e autorizza tutti a cercare di salvare se stessi, piegando la realtà e gli altri se serve, perché prima di tutto occorre garantirsi la vita.
Gesù sceglie un’altra via. Si consegna al Padre perché lui lo salvi e tutti vedano così che c’è un solo modo per entrare nella vita e nella pace: lasciarsi amare dal Padre. Così non risponde alle provocazioni e decide di non salvare se stesso.
Il malfattore crocifisso alla destra di Gesù intuisce che lui è liberato dalla paura della morte, non perché non la senta o perché la sofferenza sia meno dura, ma soltanto perché sa di riceversi continuamente e allora può sperare di essere richiamato alla vita. Il ladrone intuisce che in questo modo di morire c’è una sapienza altra che lo fa sperare, una sapienza che inaugura un regno, perché ci si può stringere a questo re, facendo alleanza con lui in modo da entrare nella vita e nella pace di cui lui sembra conoscere la via.
“Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
“Oggi sarai con me in paradiso”. Questa è la risposta di Gesù, con la quale lui sancisce l’alleanza con il primo fratello che forma il popolo di quelli che sperano in lui: sarai con me. Gesù si sceglie come compagno di vita quello che aveva saputo stare con lui nella morte, che aveva saputo riconoscere una bellezza nel suo essere sfigurato, tanto da difenderlo. Non si scandalizza del peccato, che pure il ladrone riconosce (noi giustamente), perché questo non lo porta a giustificarsi e a disprezzare Gesù che muore anche se non ha fatto niente di male (l’altro ladrone invece sembra confermato nel male fatto: in fondo perché fare il bene se la fine è la stessa?). Gesù vede, forse, nello sguardo intelligente del ladrone che sa andare oltre la condanna di Gesù e lo riconosce come re, una consolazione del Padre, una conferma di essere nel giusto. “Oggi sarai con me in paradiso”: ricorda e spera ciò che attende e promette al ladrone che sarà anche per lui, perché lo vuole con sé, come l’amico che ha saputo consolarlo mentre tutti lo disprezzavano.
Noi vediamo, come il malfattore, la bellezza di questa morte fatta per amore e nella speranza? Scegliamo un re che non vince, che non ha potere, che non ha influenza su nessuno, che non ci ottiene favori, ma ci mostra quanto è solido e fedele l’amore del Padre, chiedendoci di vivere solo per questo? La tentazione di instaurare un regno qui, dove gli altri ci riconoscano valore, dove possiamo ottenere risultati e vittorie (sempre a fin di bene, per carità!) è fortissima anche per i credenti e per la chiesa. Così facendo però non siamo più nel Regno di Gesù, di questo re, ma di altri. Non tutti sono cattivi, ma non sono lui.
Noi invece (come ci ricorda lo splendido brano della lettera ai Colossesi) liberati dal potere delle tenebre (che ci spinge sempre a cercare di salvarci ottenendo ciò che ci sembra ci procuri la vita) possiamo goderci il perdono ed entrare nella famiglia di quelli che, come il primo malfattore, stringono alleanza con Gesù e così entrano nel suo regno. Egli è l’immagine di Dio, dell’Amore che lui è, ed è anche il senso di tutto ciò che esiste, perché tutto è fatto per entrare in una relazione filiale con il Padre: tutto esiste per essere, come il Figlio e stretto a lui, abbandonato all’amore del Padre che salva. Lui è anche il capo del corpo che è la chiesa, cioè il popolo che ha fatto alleanza, fino ad essere una sola carne con lui ed è capace così di renderlo presente perché tutti possano vederlo, ascoltarlo e sperare. In lui l’alleanza con Dio è perfetta, perché possiamo stringerci a Cristo che mentre si lega a noi ci lega al Padre suo con il quale vive un’unica vita.
Un re di un altro mondo, con un’altra logica e un’altra forza. Un re consegnato a Colui che tutto sostiene e fa vivere. “Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.