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21 - Set - 2019

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La parabola di oggi ritorna su un tema caro al Vangelo di Luca: le ricchezze. Il terzo evangelista descrive spesso la ricchezza come un pericolo, perché capace di ingannare il cuore dell’essere umano su ciò che è essenziale. Può succedere infatti che ci si illuda che possedere beni (o vivere in società avanzate) ci salvi dalla morte o dia pace all’esistenza. Un tale inganno è mortale perché non ci si accorge che per vivere occorre condividere, cioè impoverirsi perché chi non ha nulla abbia qualcosa, e per avere un’esistenza pacificata occorre riporre in Dio e nell’amore ogni speranza e ogni impegno.

Per aiutarci a comprendere questo il Vangelo ci presenta un personaggio scandaloso: un amministratore che sperpera gli averi del suo padrone. Non si dice che prendeva per se i soldi dell’altro, ma solo che non gli permetteva di accumulare, non facendo i suoi interessi. Chiaramente il padrone non può che cacciarlo, ma di fronte alla perdita del proprio lavoro l’amministratore reagisce come era abituato: sperpera ricchezza. Chiama infatti i debitori del suo padrone e abbassa loro il debito per farseli amici. Probabilmente nel fare così rinuncia alla propria parte di interesse sul debito – perché una parte spettava proprio all’amministratore – sperperando la propria ricchezza proprio in un momento di bisogno, ma così facendo si fa degli amici.
L’insegnamento di questa parabola viene condensato da Gesù stesso in poche parole, cioè “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta”, che potremmo ridire così “fate in modo che le persone vi siano grate usando la ricchezza ingiusta”.
Ogni ricchezza, d’altra parte, è ingiusta, non tanto perché guadagnata con disonestà, ma perché se qualcuno è ricco vuol dire che altri sono poveri, mentre le risorse della terra sono state date a tutti gli uomini perché tutti vivano. Se alcuni sono ricchi e altri poveri è colpa dei nostri sistemi sociali ed economici che creano ingiustizia, sfruttano la guerra, distruggono l’ambiente e così minacciano la vita di tutti: ricchi e poveri, anche se solo i poveri sanno cogliere il pericolo. Non c’è dunque ricchezza giusta, perché giustizia vuole che tutti condividano i beni che sono destinati a tutti. Davvero riteniamo giusto che i nostri figli mangino mentre tanti bambini muoiono di fame, magari mentre i loro genitori lavorano 12 ore al giorno nelle miniere che estraggono il materiale per il nostro ennesimo cellulare?
Le risorse della terra sono per tutti, i confini che ci siamo dati sono solo funzionali ad organizzarci se non diventano la scusa per arraffare ciò che erroneamente pensiamo sia nostro. Di chi è la foresta amazzonica? Se è dei paesi sud americani allora possono distruggerla e facilmente moriremo tutti. Oppure è di tutti e allora tutti dobbiamo condividere risorse per custodirla, facendo giustizia (per esempio) alle popolazioni che affamiamo con un commercio iniquo oppure piantando noi moltissimi alberi che compensino la deforestazione che in altre epoche abbiamo portato avanti per arricchirci.
Se però la ricchezza è sempre ingiusta, c’è un modo saggio di usarla e questo modo consiste nel considerarla qualcosa di poco conto, qualcosa che si può manipolare, trafficare, perdere, per alleggerire i debiti altrui e creare relazioni di amicizia. Non è qualcosa cui servire e cui affidarsi (non un altro dio come ci ammonisce la fine del Vangelo) ma qualcosa da usare per far vivere tutti, desiderando per sé, come ci suggerisce la prima lettera a Timoteo, solo una vita tranquilla, che ci permetta di dedicarci a Dio e di testimoniarlo.Che Dio ci doni una vita saggia, priva dell’illusione che ci si salvi arricchendosi o difendendo dai poveri la propria ricchezza, convinti di servire Dio solo con il culto ma pronti ad approfittarsi di chi è nel bisogno (come bene denuncia il profeta Amos). Molto più saggio è trafficare con i propri averi (e quelli di tutti) perché ogni creatura (noi compresi) abbia di che vivere.
14 - Set - 2019

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda (Mt 18,14). Così Gesù conclude la parabola della pecora perduta nel Vangelo di Matteo dandoci la chiave per entrare nel cuore stesso di Dio, nei suoi desideri più profondi: che nessuno (dei piccoli) si perda. Leggendo il capitolo in cui Luca raccoglie le tre parabole che raccontano di smarrimenti e perdite, occorre tenere lo sguardo sul sentire di Dio, sul suo desiderio cioè che neppure uno si perda. Tutte e tre le parabole parlano di gioia e di festa per ciò che era perduto ed è stato ritrovato, ma tutte e tre dicono anche che chi si rallegra (cioè Dio, rappresentato dal pastore, dalla donna e dal padre) non vuole rallegrarsi da solo: il pastore cerca amici e vicine, la donna amiche e vicine, il padre cerca il figlio maggiore, perché vuole che anche lui faccia festa e si rallegri.

Il cuore di Dio che Gesù ci racconta è il cuore di un Padre/Madre che non vuole perdere nessuno dei suoi piccoli, ma che non vuole nemmeno che i suoi figli si perdano fra di loro. Ciascuno deve sentire l’urgenza verso gli altri, la stessa urgenza che sente lui: che nessuno si perda. Si capisce però se davvero ci muove lo stesso desiderio di Dio, se, quando le persone che erano perdute hanno nuove possibilità di vita, noi ci rallegriamo oppure no. Se ci ingelosiamo, ci sembra ingiusto, vorremmo qualcosa in più per noi o comunque la difesa dei nostri diritti contro quelli che, se si sono persi, si sono persi per colpa loro (o almeno non per colpa nostra), allora non è il Padre quello che amiamo e serviamo ma solo i benefici che speriamo di avere da lui.
Dio, infatti, è il Dio della vita. Non è geloso di quello che ha e dona continue possibilità di vita, perché ciascuno è prezioso ai suoi occhi ed è offerto come un dono a tutti gli altri. Nessuno deve perdersi, perché altrimenti tutto si sciupa. Perdere una pecora su cento è come aver perso un figlio su due, per questo si va a cercarla: neppure uno si deve perdere perché tutti sono stretti in unica vita condivisa (sono parte della stessa famiglia).
Dio non vuole vivere senza i suoi figli e ci insegna a sentire allo stesso modo, perché non si vive se gli altri muoiono. Lo sa bene Mosè che non vuole avere un’altra nazione (così gli promette Dio di fronte al peccato del popolo), ma vuole salvare le persone che ha fatto uscire dall’Egitto: non si tratta di un bene che si può sostituire (una pecora non vale l’altra, una moneta non vale l’altra e – in questo caso l’immagine è molto più efficace – un figlio non vale l’altro). Mosè (nella prima lettura che racconta gli eventi relativi all’episodio del vitello d’oro) conosce il cuore di Dio, la preghiera di lui è un dire a voce alta ciò che Dio vuole, un ricordare a sé e a lui il suo sentire.
A volte ci si perde lontani da ciò che parla di Dio, si abbandona l’ovile e la casa, altre volte ci si perde immersi nelle cose di Dio, dentro casa cioè, come la moneta e il figlio più grande che è smarrito quanto il piccolo poiché non conosce il padre. Ma comunque ci si perda, quando si viene cercati e ritrovati, la persona ha la possibilità di ricominciare a vivere. Non sarà più come prima, la memoria di quanto accaduto le ricorderà sempre la propria miseria e la propria piccolezza, ma questa diventerà la sua forza, perché avrà toccato con mano e potrà testimoniare (come leggiamo in questo brano della prima lettera a Timoteo) che davvero Dio è venuto per salvare, per liberare, per far vivere.
La pecora, forse malconcia, in mezzo alle altre testimonia che il pastore non è uno che tiene conto dei numeri ma dei piccoli, la moneta impolverata e graffiata testimonia che anche ciò che sembra sciupato è prezioso agli occhi di Dio, il figlio più piccolo testimonia che anche distruggere il patrimonio del Padre non è sufficiente per smettere di essere figli. Il fratello maggiore dovrà decidere invece se avere un fratello vivo vale la metà del suo patrimonio, perché ora che il patrimonio è dimezzato, alla morte del padre verrà di nuovo ridiviso e a lui toccherà la metà di quanto poteva avere.
Quanto vale un fratello? Quanto valgono gli altri? Quanto valgono i poveri? Quanto i nostri figli? Lo scopriamo da quanta gioia abbiamo nel dividere ciò che possediamo purché vivano. Se siamo disposti a mettere risorse umane, tempo e soldi per alleviare le sofferenze e soccorrere i poveri, se siamo disposti a impoverirci e difendere l’ambiente perché anche i nostri figli possano vivere.
Dio non vuole che nessuno di questi piccoli si perda, perché altrimenti nessuno avrà la pienezza della vita. E noi, che forse siamo nella casa del Padre e lavoriamo con diligenza, siamo incantati dal suo cuore che ci chiede di ridividere le possibilità di vita anche con chi era perduto? Che non ci accada di stare vicino a lui e di pensare che, in fondo, è meglio (o che non ci importa) se alcuni si perdono perché così possiamo tenere per noi tutto quello che resta: beni, idee, possibilità, vita.
Sarebbe un grande inganno, perché nel mondo che Dio ha fatto sorgere, in un mondo che nasce dall’Amore, la vita è sempre e solo condivisa: nessuno si può perdere perché siamo ciascuno per gli altri e viviamo ciascuno con gli altri. Se uno si perde, tutto si perde.
07 - Set - 2019

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Una grande parte del Vangelo di Luca è dedicata al viaggio che Gesù intraprende verso Gerusalemme, che così viene raccontato come fosse una lunga parabola della vita cristiana in cammino dietro a Gesù, fino al momento cruciale. All’inizio di quel viaggio (di cui leggevamo diverse domeniche fa) abbiamo incontrato i detti di Gesù sulla sequela, nei quali insegna le esigenze della vita cristiana, cosa richieda e cosa significhi. A distanza di cinque capitoli (e di molte settimane) troviamo di nuovo Gesù impegnato a spiegare quali e quante siano le esigenze della sequela. La prima volta Gesù era solo con i discepoli e prende spunto per insegnare dalla domanda di un tale che si voleva unire al piccolo gruppo, ora prende l’iniziativa guardando quanti lo seguono: una folla numerosa infatti andava con lui. Sembra quasi che Gesù sia perplesso di questo successo: sono troppi quelli che lo seguono. Ha parlato del Regno come di un fuoco che divide, di una porta stretta, di una ricerca degli ultimi posti: come mai tutte queste persone?

Allora torna sulle esigenze della sequela e parla per i tanti, forse per noi, che si dichiarano suoi e gli vanno dietro pensando che questa sia un’impresa di poco conto, uno di quegli interessi o di quelle simpatie che si può coltivare senza cambiare tutto il resto e senza sconvolgere le proprie priorità. Ma qui abbiamo a che fare con una logica di tutt’altro genere: ci viene offerta una sapienza dall’alto (prima lettura), che raddrizza i pensieri e realizza la salvezza di quelli che hanno ragionamenti timidi e incerti, appesantiti dalla propria fragilità e pieni di preoccupazioni. Seguire Gesù non è qualcosa che si può fare continuando a vivere come niente fosse, magari più tranquilli perché l’amore di lui è un pensiero rasserenante, oppure continuando ad arrovellarsi per garantirsi la propria vita a prescindere da lui.
Seguirlo comporta amarlo più di ogni amato e di ogni amata, più di noi stessi. Questo non significa che il Signore vuole che misuriamo l’intensità dell’amore agli altri perché non superi quello che rivolgiamo a lui, ma significa che dobbiamo sentire di non voler amare né vivere se non come lui, desiderando di imparare i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Colui che porta la croce è colui per il quale la vita vale la pena di essere vissuta solo se continuamente plasmata dalla logica di Gesù, una logica di amore al punto che si può affrontare persino la morte senza temerla. Portare la croce addosso, vuol dire vivere tutto senza distogliere il cuore e il desiderio da come Gesù ha vissuto tutto.
Questo perché la vita di lui ci appare così bella e desiderabile che tutto quello che viviamo deve entrarci in relazione e venirne trasformato. Un po’ come quando si guarda un paesaggio alla fine di un temporale, quando l’oscurità lascia spazio alla luce moltiplicata dall’acqua ancora appoggiata ovunque. Questa luce che esalta ogni colore e fa brillare tutto è ciò che ci fa amare proprio il luogo in cui siamo, che ai nostri occhi ha appare di tutta un’altra bellezza.
Solo così si può seguire Gesù, sapendo che tutto – compresa la vita e gli affetti – ha valore solo in lui e a partire da lui e proprio in questa consapevolezza consiste la rinuncia del discepolo, che lascia andare ogni altra speranza e ogni altra possibilità di salvezza. Solo Cristo e la sua logica sono ciò per cui vale vivere e da cui la vita riceve senso e bellezza.
Fermatevi a pensare se vi conviene – sembra dirci il Signore -, perché non vi servirà a niente seguirmi senza questo innamoramento per quello che io sono. Finirete per essere ridicoli, gente che fa le cose a metà sprecando risorse solo per farsi ridere dietro, o finirete per rovinarvi, come chi comincia una guerra senza forze adeguate. Solo se io sono l’amore da cui prende senso ogni amore e la vita da cui prende senso la vostra stessa vita, è possibile seguirmi.
Gesù non si sofferma sui guadagni della sequela qui, ma possiamo averne un esempio nella seconda lettura (tratta dalla breve lettera a Filemone): diventando credente Filemone perde la possibilità di possedere uno schiavo e di usarne come meglio crede. Non è costretto a questo, ma la relazione con Cristo gli impedisce di guardare gli altri senza sapere che sono infinitamente amati da Dio e, in più, se uno schiavo diventa credente, non gli è possibile trattarlo con la disumanità che la schiavitù pretendeva. Rinuncia a questa ricchezza (allo schiavo appunto). Ciò che guadagna però è infinitamente di più, perché ha un fratello, uno che aveva perduto e che ora ha ritrovato. Compagnia, consolazione, aiuto, prossimità, amicizia. E, non solo, poiché viene inviato da Paolo è come se avesse vicino anche lui e la sua testimonianza.
Accade sempre così quando è la logica della croce a presiedere la nostra vita: i pensieri incerti e le preoccupazioni lasciano spazio ai pensieri di Cristo e questi ci insegnano a scegliere non le ricchezze che non danno vita, ma le altre, che valgono molto di più. La sapienza che viene dall’alto ci impedisce di sbagliarci anche se abbiamo pensieri timidi e preoccupazioni, perché la croce ci si appoggia addosso ovvero viviamo come Gesù, docili allo Spirito di lui che ci dà il suo stesso cuore, proprio qui e ora.
31 - Ago - 2019

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Di solito quando siamo invitati a pranzo e arriviamo al luogo dell’invito ci dedichiamo a salutare e a parlare, magari ci guardiamo intorno e aspettiamo che ci dicano dove sederci e come si procede. Anche Gesù fa tutto questo, ma nel guardarsi intorno nota il comportamento degli altri invitati e questo gli ispira due parabole. Entrambe queste parabole riguardano la ricerca di posizioni di prestigio: la prima prende in considerazione la situazione di quando si è invitati, la seconda di quando si invita qualcuno, ma in entrambi i casi la scelta è fra ciò che ci esalta (i primi posti nella prima parabola, invitati importanti di cui vantarsi e da cui ricevere il contraccambio nella seconda) e ciò che invece è umile, anzi ciò che umilia.

Gesù mette così a confronto due logiche diverse: quella umana largamente diffusa (cercare i primi posti e vantarsi di contatti importanti) e quella del Regno (nel quale entrano quelli che si umiliano e che scelgono per compagnia persone che non hanno alcuna ricchezza e potere). Nel Vangelo di Luca molte volte compaiono questi rovesciamenti, come bene fa vedere il Magnificat: i ricchi impoveriscono, gli affamati sono pieni di beni, i potenti sono abbassati, gli umili innalzati. Quale è la logica di questo rovesciamento però? Perché il Regno è accessibile a chi sceglie gli ultimi posti e si fa compagno degli ultimi?
Il punto è che la posizione che noi scegliamo di occupare ci dà una prospettiva sul tutto quello che guardiamo e quindi determina ciò che comprendiamo e le scelte che facciamo. I posti a teatro non costano tutti allo stesso modo, perché non in ogni posto si vede allo stesso modo. Il mio figlio più piccolo si sente molto basso di fronte ai suoi fratelli, ma nella sua classe si sente alto e così sa che sta crescendo bene anche quando è vicino al suo altissimo fratello maggiore. La posizione in cui ci mettiamo decide la prospettiva sulla realtà e su di noi.
Che cosa vede chi occupa i primi posti e cerca la compagnia dei “primi”? Guarda tutti dall’alto, si sente migliore e in questo modo finisce per provare  disprezzo per quelli che incontra, fino ad arrivare all’odio. Rimane solo, perché sulla vetta può stare solo uno. E se ci fosse qualcuno più sopra o di fianco sarebbe un nemico: se ciò che ci spinge è cercare di essere il primo, lui va ricacciato indietro e questo perché ci si crede più meritevoli, migliori. Subentra cioè la superbia e l’orgoglio, che conducono alla ricerca di una grandiosità che può persino fare paura (come prova a descrivere la prima parte del brano della lettera agli Ebrei). Gli altri, come nella seconda parabola, al massimo servono per sentirsi prestigiosi, per onorare il proprio primeggiare e niente di più. Cercando i primi posti non rimane nessuno spazio per il prossimo né per Dio e così non c’è nessuna festa.
Che cosa vede invece chi occupa gli ultimi posti e cerca la compagnia degli “ultimi”?
Questi hanno la prospettiva opposta, guardano tutti dal basso e così gli altri appaiono ai loro occhi degni di stima, desiderabili, amabili. Nel cuore sorge il desiderio, l’amore, l’amicizia. Mai l’altro è un rivale, ma un dono per arricchirsi, qualcosa di prezioso da custodire. Pur di stare insieme a lui siamo disposti a non avere altri vantaggi, ad occupare anche uno scampolo di sedia, perché non ci importa l’onore che riceviamo ma la compagnia dell’altro. Lo sa bene chi è innamorato, i genitori che non vedono i figli da tanto tempo, o chi ha perduto un amico prezioso: vederlo anche solo qualche minuto vale più di tutto. Da questa posizione si può aprire il cuore alla parola che Dio dice, perché non sorge l’orgoglio a chiuderci le orecchie: si ascolta e così si possono riconoscere le opere di Dio che solo la sua Parola ci può far vedere (per questo il libro del Siracide ci dice che l’umile glorifica Dio, perché solo l’umile ascolta la Parola che insegna a riconoscere la logica di Dio in azione).
Chi è in questa posizione si prepara ad una grande festa. Non per niente Gesù usa l’immagine del banchetto per parlare del Regno: un’adunanza festosa che vede raccolti intorno al Signore i suoi primogeniti (come leggiamo nel brano della lettera agli Ebrei). Questa è la festa di chi ha saputo scegliere la posizione migliore per guardare gli altri e il mondo, una posizione nella quale avremo la gioia di vederlo venire fino a noi e sentirlo dire: Amico vieni più avanti…e noi andremo, ma solo dopo esserci assicurati che questo non ci faccia lasciare indietro nessuno.
24 - Ago - 2019

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Sono pochi quelli che si salvano? Forse questa domanda che un tale fa a Gesù lungo la strada sottintendeva la ricerca di una rassicurazione, perché se quelli che si salvano sono pochi le possibilità di essere fra questi diminuiscono. Questa voce intimorita dovrebbe sorgere in ciascun credente, perché è indice del fatto che ci siamo resi conto di quanto la salvezza sia decisiva per la realizzazione della nostra esistenza e di quanto non si possa aspettare che essa ci accada senza fare nulla. Salvarsi dovrebbe essere ciò per cui ci sforziamo, come l’immagine della porta stretta e piccola dice bene: c’è un’apertura, si può passare, ma per farlo occorre pigiarsi, spingere, graffiarsi, depositare tutto ciò che ci portiamo addosso e che ci ingombra. La via della salvezza non è l’autostrada larga sulla quale si guida senza nemmeno pensare, lasciando magari che i moderni sistemi di assistenza alla guida regolino velocità e distanze, la via della salvezza è invece un’affascinante e tortuoso percorso montano, per stare sul quale bisogna mettere tutto il nostro impegno certi del valore della meta e allo stesso tempo catturati dalla bellezza dei paesaggi che ci offrono davanti.

La salvezza consiste nel Regno, cioè nell’amore, nella pace, nella giustizia, nella condivisione, nella pienezza della vita: è qualcosa cui di cui si può fare esperienza fin d’ora e proprio questa esperienza ci fa sperare in un destino di vita piena, anche di fronte alla morte. A tutto questo però, seppure donato con generosa liberalità da Dio, non si giunge senza l’impegno della strada e senza riconoscere il privilegio di camminare su una strada così impegnativa.

Quelli che ricevono la parola che salva, ma non la onorano con la fatica che chiede, da primi diventano ultimi, perché si distraggono con ciò che è facile e finiscono per imboccare altre vie solo perché sono larghe. Queste vie, a volte, sono ammantate di religiosità, per cui in nome di Dio ci si dedica a tutt’altro da quello che Dio ama e chiede: si può partecipare alla vita della chiesa, accalorarsi per alcuni dei “valori” che riteniamo cristiani, promuovere attività ecclesiali e persino essere ministri o persone impegnate nella chiesa evitando la porta stretta e cercando nella fede la comodità delle moderne autostrade, al punto che nemmeno ci si accorge più di camminare.

Se si fa così, da primi si finisce ultimi. Gli ultimi invece, come Israele considerava i pagani, diventano primi, perché quando sentono l’annuncio della parola del Signore si mettono in viaggio con ogni mezzo – nella prima lettura ci viene descritta una carovana variegata e numerosa – per arrivare al monte santo di Gerusalemme, immagine privilegiata della salvezza che Dio prepara. Tutte le genti lodano Dio, tutte le genti lo ascoltano, da tutte le genti sorgono fratelli. Israele disprezzava i pagani, eppure essi – considerati come vasi colmi dell’ira di Dio perché lontani da lui – diventano vasi puri che portano l’offerta nel tempio. Erano ultimi e diventano primi, perché riconoscono il dono straordinario della salvezza e per essa si mettono in viaggio. Quanti di quelli che oggi disprezziamo come lontani da Dio ci passano avanti?

Se il cammino è impervio, è facile che porti con sé sofferenze e paure, che però non devono farci pensare di essere sulla strada sbagliata, perché il Signore non ci ha indicato gli itinerari più comodi. Le sofferenze non contraddicono la validità del cammino della salvezza, quindi, e per questo l’autore della lettera agli Ebrei ci suggerisce di pensare ad esse come a delle correzioni, non qualcosa che ci fa del male, ma che ci rende migliori. Tutto ciò non significa che Dio ci manda delle sofferenze per farci imparare qualcosa, ma che persino le sofferenze, alla luce del Vangelo e per l’azione vivificante dello Spirito, diventano un luogo per scoprirsi amati, per crescere e per vivere. In ogni momento infatti è all’opera con noi e per noi il Dio della salvezza, perché forte è il suo amore per noi e la sua fedeltà dura per sempre.

Coraggio allora, rinfranchiamo le mani inerti e le ginocchia fiacche perché dobbiamo camminare per sentieri impegnativi e spingerci con gioia dentro una porta piccola oltre la quale è già cominciata la festa della vita.

17 - Ago - 2019

XX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel Vangelo di oggi, che riprende pochi versetti più avanti il capitolo dodicesimo di Luca che stiamo leggendo da qualche domenica e che contiene una serie di insegnamenti per i discepoli, ascoltiamo una parola che sulle labbra di Gesù non ci aspetteremmo mai, perché parla di divisione. Gesù pone una domanda: pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra? Noi risponderemmo sì o almeno vorremmo rispondere di sì e invece lui dichiara che proprio per ciò che lui porta tutti si divideranno: non conteranno più nemmeno i legami familiari, il Vangelo sarà motivo di divisione comunque.

Si tratta di una parola inquietante, che continua l’insegnamento sulla fede che abbiamo già visto nelle domeniche passate. La fede, infatti, determina una tale ridefinizione della persona che chi diventa credente è immediatamente individuabile e si distingue dagli altri, non certo perché li disprezzi o se ne separi (al contrario), ma perché ciò che lo guida è il Vangelo, l’amore di Dio e del prossimo e niente altro. Le logiche usuali – relazioni familiari, interessi economici, benessere fisico, influenze politiche, sociali o quant’altro – non sono più criteri di riferimento, al contrario tutto viene ridefinito alla luce del Vangelo che diventa l’unico criterio da seguire e questo fa una differenza decisiva.

Ora, la differenza può arrivare a dividere o persino portare guerra o persecuzione come accade a Geremia nella prima lettura. Geremia non può dire ciò che fa contento il popolo e i capi, perché è spinto solo dal desiderio di servire Dio e la sua parola, ma questo gli costa la libertà e mette a rischio la sua vita, fino a che Dio, tramite un uomo, lo libera. Se Geremia avesse agito spinto dall’istinto di preservarsi o dalla volontà di farsi accettare e onorare dal popolo, non sarebbe stato separato dagli altri e imprigionato, ma il fuoco che lo abita – quel fuoco che Gesù desidera vedere acceso – gli impedisce di comportarsi in modo da tutelare se stesso, brucia invece dal desiderio di dire e vivere la parola di Dio. Al capitolo 20 del libro di Geremia così viene descritto l’animo del profeta: “La parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”(Ger 20,8-9). Questo fuoco, l’amore di Dio in noi che ci spinge, non può essere trattenuto e stravolge tutte le logiche umane che ripongono speranze e cercano vita altrove.
Come si fa a vivere tutto questo, quando vediamo che concretamente ci danneggia? Se vivere la fede ci dovesse impoverire, togliere tempo per il riposo e per la salute, oppure farci perdere occasioni sociali o affetti? Quando la lotta si fa dura, quando sentiamo la fatica della vita e anche del nostro peccato che ci fa scoraggiare di fronte all’impresa (perché ci dice che non siamo in grado di vivere il Vangelo e che quindi non è per noi), possiamo ricordare, come leggiamo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, che non siamo soli in questa impresa, perché intorno a noi c’è un popolo di testimoni, molti che hanno vissuto spinti solo dall’amore di Dio e del prossimo, molti che ci confermano che è possibile e che questo porta alla vita. Non corriamo soli dunque, ma siamo trascinati da una folla e in questa situazione è più difficile stare fermi che camminare. Inoltre abbiamo davanti agli occhi Gesù, su cui tenere fisso lo sguardo. La sua vicenda, come quella di Geremia nella cisterna, ci dice che Dio libera e salva e che la fatica che ci minaccia non può danneggiarci.
Si tratta allora di lasciarsi prendere dall’amore del Padre, per  vivere, come Gesù, totalmente consegnati ad esso. E se questo dovesse costarci molto o ci toccasse resistere fino al sangue, non ci scoraggeremo: quelli cui dobbiamo mostrare l’amore del Padre ci interessano di più, per cui lasceremo ardere il fuoco che il Vangelo ci ha acceso dentro e questo ci condurrà alla vita.
13 - Ago - 2019

Festa di Maria Assunta in cielo

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Festa di Maria Assunta in Cielo

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Uno degli errori più comuni che facciamo nelle feste mariane è pensare che ciò che celebriamo non ci riguardi: ammiriamo ciò che è accaduto a Maria, ma non pensiamo ci riguardi perché noi viviamo tutta un’altra storia da quella di lei. Guardiamo così a Maria come si guarda ad una diva del cinema con cui poco abbiamo da spartire: rischiamo persino di sentirla distante. Ogni festa mariana, invece, anche questa, celebra il mistero della salvezza che Dio compie in noi come in lei: benedetta fra le donne (e fra gli uomini), non benedetta lei sola.
Il Vangelo bellissimo – e troppo ricco di particolari per essere commentato adeguatamente – vede questa ragazzina incinta ergersi come profetessa e cantare la venuta di Dio, capace di rovesciare le sorti del mondo. Quelli che vengono sempre schiacciati verranno alzati e quelli che si innalzano verranno abbassati, così che tutti potranno guardarsi negli occhi e vivere da fratelli e sorelle; chi non mangia sarà saziato e i ricchi avranno le mani vuote, perché dopo aver mangiato non terranno per sé ma condivideranno, sconfiggendo così la fame e la miseria.
Maria profetizza il rovesciamento di quel destino che riteniamo ineluttabile, perché in fondo pensiamo che la sofferenza e l’ingiustizia siano ineliminabili. Questa profezia ora espressa nelle sue parole poi sarà scritta alla fine della sua vita sul corpo di lei, nel quale sarà evidente il rovesciamento del più ineluttabile dei destini: la morte. Infatti Maria, concluso il suo cammino terreno, entra nella vita di Dio senza che la morte sia per lei quel dramma che tutti conosciamo troppo bene. Sappiamo così che la morte non è irrimediabile (nemmeno è necessaria perché forse Maria non è neppure morta ma è passata da un vita all’altra) e che il destino ineluttabile che ci attende è la resurrezione, perché – come leggiamo nella prima lettera ai Corinzi – se tutti muoiono in Adamo (cioè tutti quelli che vivono la condizione umana muoiono), tutti riceveranno la vita in Cristo. La sorte di tutti viene rovesciata: non siamo destinati alla morte, ma alla vita. Tutto questo accade prima a Cristo, poi a quelli che sono di Cristo, ma fra questi accade per prima a Maria, perché lei è “la prima e la più perfetta discepola di Cristo”(Paolo VI).
Le accade ciò che è accaduto a Cristo e che accadrà a noi. Ci aspetta come una sorella maggiore. Aspetta noi che siamo ancora nel travaglio del parto, immagine con la quale la prima lettura tratta dall’Apocalisse descrive la lotta che la chiesa vive nella storia. Maria ha lottato contro il male e ha vinto persino la morte, forte della vicinanza di Dio. La chiesa invece ancora soffre nel travaglio, ma sa che la vittoria è certa. Lo sa in Cristo e lo contempla in Maria, la prima dei credenti in cui la salvezza di Dio si compie.
Mentre travagliamo allora, possiamo alzare gli occhi su questa sorella che ha già attraversato quanto ancora ci spaventa: lei è la prova che Dio è più forte della morte. Quando le donne non partorivano in ospedale (e ancora oggi nei tanti luoghi del mondo dove non c’è assistenza medica al parto), si affiancavano ad esse in questo momento terribile, che troppo spesso portava alla morte, altre donne esperte, donne che avevano partorito e avevano fatto partorire. In questo modo ogni volta che una donna in travaglio pensava di aver perso, di non riuscire più ad andare avanti, di non avere le forze, la presenza di quelle che avevano già vinto questa lotta la sosteneva, le ricordava che poteva vincere. Esse erano l’anticipo dell’esultanza finale, la prova che la morte non vincerà, anche quando nemmeno il fiato non esce più: loro sanno cosa succede dopo, sanno che questi dolori non sono l’ultima parola. Sono donne che incoraggiano le altre a fare la loro parte, non si possono sostituire a loro, ma possono dare la speranza che serve per non lasciarsi sconfiggere. Così fa Maria con ciascuno e con la chiesa intera: si fa prossima, ostetrica coraggiosa nel nostro travaglio, per ricordarci che siamo per la strada giusta, per spingerci a fare la nostra parte con coraggio, per annunciarci che stiamo solo aspettando che Dio metta tutti i nemici sotto i suoi piedi.
Questa è la festa della prima delle discepole che gode di questa vittoria, la prima di una grande schiera: la nostra.
10 - Ago - 2019

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura di questa domenica (tratta dalla lettera agli Ebrei) ci può aiutare a riprendere quanto la Parola di Dio ci ha detto nelle ultime settimane per permetterci di comprendere come essere credenti cambia concretamente la nostra vita: il modo in cui guardiamo la realtà, i nostri giudizi e i nostri gusti, le scelte e le azioni. Nell’insegnamento di Gesù sulla preghiera abbiamo colto la possibilità di vivere davanti al Padre attendendo il dono dello Spirito che invadendoci può farci vivere da figli, mentre nell’insegnamento sul denaro abbiamo compreso come usare dei beni della terra (ogni tipo di beni) in modo saggio: come strumenti, cioè, per costruire vita condividendo senza sciocche pretese di accumulare, come se questo potesse salvare la nostra vita.

Il brano della lettera agli Ebrei proclamato in questa domenica torna proprio sulla fede e ci porta l’esempio di uomini e donne che hanno vissuto, desiderato, scelto solo sulla base della loro fede e così hanno generato vita, anche se non hanno visto il frutto delle promesse che erano state fatte loro. Non vedevano il frutto, ma sperandolo per la fede e vivendo di conseguenza, è stato come se godessero già di ciò che ancora non c’era. Sarebbe come se una giovane coppia in difficoltà perché senza lavoro, ricevesse la promessa di una occupazione e quindi di uno stipendio e cominciasse allora a regolare scelte e azioni sulla base della nuova condizione, non ancora in atto, ma già operante nelle loro vite, perché capace di cambiarne la prospettiva.

La promessa che ciascuno di noi ha ricevuto, non ancora in atto, ma già operante, è la pienezza della vita: la beatitudine di incontrare Dio e di entrare nel Regno.

Come questa promessa di cui ancora non vediamo i frutti, perché sperimentiamo la sofferenza, il fallimento e il peccato, può cambiare la nostra vita? Come si può vivere agendo come se avessimo già quanto ci è promesso? Prendendo consapevolezza di non attraversare il tempo allo sbaraglio, ma come un popolo in attesa (così la prima lettura) che attende l’aiuto del Signore che nutre in tempo di fame e libera dalla morte (salmo 32).
Il nostro tempo, le nostre giornate non sono un semplice susseguirsi di momenti o di occasioni, sono un’attesa. Hanno dunque una direzione e sono riempite di significato dalla promessa di chi ci ha detto di aspettarlo. Pensate come cambia la nostra prospettiva se siamo alla stazione per salire soli sul solito treno o se stiamo aspettando chi amiamo e che magari non vediamo da molto: se la noia o la fretta caratterizzano il tempo di chi ha molto da fare ma non aspetta nulla, la gioia, il desiderio, la nostalgia, l’impegno invadono le giornate di chi attende qualcuno che ama.
Come si fa, allora, a non stare pronti? Come si fa ad addormentarsi, eccitati dall’imminente arrivo di chi ci dona la vita e se stesso?
Il peggio che potremmo fare è – magari proprio noi che celebriamo tutte le domeniche o abbiamo ricevuto tanti doni e tante responsabilità – dimenticarci chi stiamo aspettando e vivere il tempo e ciò che Dio ci affida come un’occasione per accaparrare e spadroneggiare. Davvero sarebbe un buttare via la vita, che invece va vissuta nell’eccitata attesa di Dio che si fa presente ogni volta che il Regno viene: nell’amore, nella condivisione, nel perdono, nella Parola, nella pace, nella consolazione e nella morte. Questa sigillerà ciò che avremo vissuto e, forse, se avremo atteso davvero non sarà più un dramma che ci strappa alla vita, ma l’ultimo sospiro appagato di chi entra per sempre nel grembo del Dio vivente.
03 - Ago - 2019

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

C’è un modo saggio e un modo stolto di vivere. In entrambi i casi quello che le persone cercano, ciò che ciascuno di noi cerca, è avere vita in abbondanza, la differenza sta però in ciò che scegliamo come fonte di vita. La saggezza sta proprio nel saper distinguere ciò che dona la vita da ciò che la promette solamente o che la dona in modo del tutto provvisorio e ingannevole. Nel libro del Qoelet tutte le cose “sotto il sole” vengono descritte come vane e dichiarate come inconsistenti. Per quanto belle e gradevoli, sono come un soffio, qualcosa che non dura, su cui non si può costruire in modo solido. “Sotto il sole”, ripete Qoelet, tutto è vano, niente procura vita davvero. Non è sotto il sole che si deve cercare, quindi, ma nei cieli, come invita a fare la lettera ai Colossesi. Non nel senso di estraniarsi dalla realtà per rifugiarsi in chissà quale spiritualismo alienante, ma nel senso di guardare le cose della terra dalla giusta prospettiva, con la sapienza che ci viene dalla fede (una prospettiva dall’alto perché guarda il mondo a partire dalla consapevolezza dell’amore di Dio) e che ci fa riconoscere che cosa ci dà vita. L’uomo nuovo, il credente, non si fa ingannare dalla cupidigia che arraffando e violando pensa di salvarsi dalla morte, ma rinnova la propria mente e si riveste della novità del Vangelo che riconosce solo nell’Amore del Padre la fonte di ogni vita.

È saggio dunque chi pensa che questo amore sia il tesoro da accumulare: non soldi o beni che non durano né garantiscono la vita piena, ma l’amore del Padre. Questo tesoro di amore si accumula condividendo ogni bene che si possieda, vivendo non per sé, ma per chi si ama, proprio come fa Dio. Chi ha questa saggezza non si lascia ingannare nel perdere tempo, progetti ed energie per ciò che non dura, darà ad ogni cosa il giusto valore e il giusto peso, riconoscendo spessore e consistenza solo all’Amore del Padre e del prossimo. Solo questo porteremo sempre con noi, in questa vita e nell’altra.
Da questa prospettiva potremo dare il giusto peso ad ogni bene, non riponendo in esso le nostre speranze, quanto piuttosto vedendolo come uno strumento utile a favorire la vita nostra e di tutti. Non riporremo così speranze in ciò che non può salvare, saremo saggi e vedremo Dio rendere solido il nostro cammino qualunque cosa accada. A lui ci rivolgiamo con le parole del salmista:
“Saziaci al mattino con il tuo amore, esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Dio, rinsalda l’opera delle nostre mani”.
27 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVII T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un d

Ad una precisa richiesta dei discepoli, che possiamo indubbiamente fare nostra, Gesù insegna che cosa significhi pregare. L’inizio dell’insegnamento (l’invocazione “Padre”) e la fine (il detto sui genitori che, anche se cattivi, danno cose buone ai figli) racchiudono come in una cornice preziosissima il senso della preghiera cristiana, che consiste nel porsi davanti a Dio come si pongono i figli di fronte ai genitori. Siamo davanti a Dio consapevoli che lui è il Padre/Madre buono, che sempre ci ascolta e sempre vuole farci vivere. Non dobbiamo convincerlo a farci il bene, non dobbiamo insegnargli cosa darci, non dobbiamo ingraziarcelo o averne paura: è il Padre buono. Questa certezza incrollabile nell’amore di lui viene resa dal racconto sull’amico importuno che bussa di notte alla casa dell’altro: non si sarebbero alzati tutti, si alza solo l’amico che tiene davvero all’altro…l’insistenza funziona solo con chi ha il cuore aperto e Dio ha il cuore e l’orecchio teso verso di noi, tanto che non può resistere alle nostre insistenze.

Da qui l’atteggiamento caratterizzante la preghiera cristiana e fondato proprio sulla certezza di essere figli amati: la fiducia. Possiamo chiedere, bussare, cercare, perché dall’altra parte c’è il Padre buono. Ma di fronte a questo Padre e pieni di fiducia, che cosa dobbiamo chiedere? La preghiera del Padre nostro e la chiusa del Vangelo di questa domenica “il Padre darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono” si illuminano a vicenda e ci spiegano che qualunque cosa noi chiediamo (e come i figli siamo legittimati a chiedere tutto) riceveremo un dono più grande: lo Spirito. Infatti, di fronte a tutte le nostre domande, grida, sofferenze, paure, desideri, gioie e speranze, di fronte a tutto quello che viviamo e che mettiamo – o dovremmo mettere – davanti a Dio (in fondo la preghiera consiste nel mettere la propria interiorità e il proprio vissuto al cospetto di Dio in ogni momento), di fronte a tutto questo – qualunque sia la nostra richiesta e il nostro bisogno – Dio dona lo Spirito santo. Non risolve le questioni, non cancella le malattie o la morte, non procura il cibo né fornisce facili soluzioni: Dio non è il grande mago che manda ad alcuni il bene e ad alcuni il male. Dona, invece, in ogni situazione lo Spirito, perché si affermi sempre la vita. Viene cioè a vivere con noi tutto ciò che ci capita, donandoci il suo Amore. Questo Amore ci fa vivere in modo che il nome di Dio sia riconosciuto come santo (questo modo di vivere chiediamo dicendo “sia santificato il tuo nome”), ci fa lavorare in modo che il Regno si realizzi (chiediamo che la nostra vita diventi un germe del Regno quindi quando invochiamo il Regno), ci dà la possibilità di saziarci ogni giorno di quello che basta (chiediamo cioè di avere quello che ci serve per vivere e nulla più), ci fa scoprire perdonati e capaci di perdono (chiediamo dunque a Dio che lui giudichi tutti e doni a noi la capacità che ha lui di dimenticare il male fatto da noi e da altri) e non ci fa soccombere di fronte ad una prova troppo grande. Nel Padre nostro, in una parola, noi chiediamo lo Spirito, che ci permette di vivere non come i bambini a cui i genitori aggiustano tutto, ma come figli adulti e responsabili, spinti dall’Amore del Padre e decisi a scegliere la vita per sé e per tutti, fiduciosi che questo Spirito effuso conduca infallibilmente il mondo al Regno.
Questa è la logica della preghiera che spinge Abramo a voler salvare Sodoma e Gomorra ed è la logica che Dio condivide: amare e far vivere. Potrebbe sembrare persino ingiusto che per pochi si salvino molti malfattori, ma non è così perché la giustizia per Dio consiste nel dare continuamente nuove possibilità di vita. Non è giusto restituire a ciascuno il male fatto, ma dare a ciascuno la possibilità di vivere e far vivere. Così è stato anche per noi, ci ricorda la lettera ai Colossesi, perché anche noi eravamo morti a causa delle colpe (che lo sapessimo o meno poco conta), ma Dio ha annullato ogni documento scritto contro di noi per farci rivivere. Davanti a questo Dio della vita possiamo porci come figli fiduciosi e responsabili, perché su qualsiasi cosa ci capiti o ci passi nel cuore lui riversi il suo Spirito e questo ci spinga ad amare e dare la vita, finendo così per assomigliargli: tale Padre, tali figli e figlie.