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30 - Lug - 2021

XVIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Es 16,2-4.12-15   Sal 77   Ef 4,17.20-24   Gv 6,24-35)
Domenica 1 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dopo la moltiplicazione dei pani, che abbiamo letto domenica scorsa, il sesto capitolo del Vangelo di Giovanni continua con un confronto fra Gesù e la folla che lo interpella. Gesù si era sottratto da coloro che volevano farlo re, che però continuano a cercarlo e ai quali contesta il fraintendimento di ciò che lui ha operato: mi cercate perché vi siete saziati non perché avete visto dei segni. Il pane che Gesù ha offerto alla folla non aveva lo scopo di saziare quindi, ma era un segno, qualcosa capace di mostrare quale sia il vero nutrimento: chi si era fermato al pane e alla sazietà aveva frainteso tutto.

Il pane di Gesù, infatti sfama, ma non sazia. Gli esseri umani invece spesso inseguono l’illusione della sazietà, di vivere cioè senza sentire i bisogni e senza dover cercare ciò che serve, sul piano materiale, affettivo o sociale: l’uomo vecchio (per usare i termini della seconda lettura, ancora dalla lettera agli Efesini) insegue la sensazione della sazietà, cercando di negare il dato fondamentale della condizione umana, il fatto cioè che dobbiamo ricevere continuamente vita da Dio, dagli altri e dal creato. La vita umana non conosce la sazietà che non sente il bisogno di nuovo nutrimento se non per pochi e brevi momenti, quasi sempre invece si sperimenta la necessità di essere nutrita un giorno dopo l’altro, quel tanto che basta, come accadeva agli ebrei nel deserto con la manna che ricopriva la terra ogni mattina e non durava più di un giorno (prima lettura).

Occorre allora (per riprendere ancora le parole della seconda lettura) rinnovare lo spirito della nostra mente e smettere di inseguire tutte quelle passioni (anche di stampo religioso) che ci promettono illusoriamente una sazietà di qualsiasi tipo, per rivestire invece l’essere umano nuovo nella giustizia (stando davanti a Dio come chi non può che riceversi continuamente da lui) e nella santità (lasciandosi nutrire per nutrire altri).

Possiamo fare nostra la domanda della folla a questo punto: che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? L’opera per eccellenza è riconoscere e credere al cibo con cui Dio ci nutre e che – oltre a concretizzarsi nei molti e diversi doni che continuamente ci sono rivolti – tocca il culmine nella persona di Gesù che è stato mandato proprio per darci vita. Il Signore, infatti, (senza saziarci, perché non cercheremmo più lui né ci muoveremmo verso altri, ma ingannevolmente inseguiremmo questa condizione che può solo essere provvisoria) ci sfama e ci disseta con la sua parola da fare nostra, con la sua vita, con la sua presenza nel mondo e nella liturgia, rendendoci forti e pronti a servirlo e camminare. Così ogni deserto della vita, nel quale inevitabilmente sentiamo con più forza la fame e la sete, diventerà prova e memoria della cura quotidiana di Dio (non è questa cura che medita e celebra il salmo responsoriale?) nonché promessa di una vita rinnovata un giorno dopo l’altro, senza fame né sete in eterno, liberati dalla morbosa ricerca della sazietà per poter finalmente riconoscere i segni che continuamente il Signore pone davanti a noi per la vita.

22 - Lug - 2021

XVII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XVII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(2Re 4,42-44   Sal 144   Ef 4,1-6   Gv 6,1-15)
Domenica 25 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

A partire da questa domenica, per qualche settimana, interrompiamo la lettura del Vangelo di Marco per dedicarci al sesto capitolo del Vangelo di Giovanni nel quale è riportato, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani che leggiamo questa domenica, un lungo discorso di Gesù sul pane della vita.

Nel Vangelo ci viene raccontato (con una dinamica praticamente sovrapponibile a quella dell’episodio narrato nella prima lettura e che vede protagonista il profeta Eliseo) che a partire dal poco cibo che un ragazzo aveva con sé viene sfamata una moltitudine di persone e con una tale abbondanza da poter portare via gli avanzi. Il segno che Gesù compie viene incorniciato dalla reazione della folla: all’inizio si dice che lo seguono sul monte perché hanno visto i segni sugli infermi, poi – alla fine – dopo che la folla è stata sfamata si racconta che, visto il segno, vogliono farlo re, ma Gesù si ritira sul monte, questa volta solo. Perché Gesù sfama la folla se poi rifiuta il “successo” che gli viene da ciò che ha compiuto? Sembrerebbero essersi convinti del fatto che è un profeta, quello che deve venire: perché dunque Gesù si sottrae?

I segni sono sempre ambigui: possono distrarci con la loro efficacia e la loro forza e in questo modo possono farci pensare che Dio è colui che risolve i problemi, colui che conviene avere vicino per trarne tutti i benefici possibili e tangibili: salute (lo seguono per i segni sugli infermi), cibo (vogliono farlo re dopo essere stati sfamati). Non è questo però il motivo per cui Gesù compie dei segni e non è questo il significato che essi svelano: questo sarà evidente sulla croce che nel Vangelo di Giovanni è il segno per eccellenza, posto nella nudità più radicale.

Quale potrebbe essere dunque il significato del segno della moltiplicazione dei pani? Certamente l’evangelista, nel raccontare questo segno, ha in mente la celebrazione eucaristica: i credenti che si radunano per ricevere in dono un pane che è capace di sfamarli tramite quello che loro stessi condividono. Gli esegeti commentano spesso questo segno – riportato anche dagli altri Vangeli – dicendo che forse il miracolo compiuto da Gesù è stato riuscire a far mettere in comune quel poco che ciascuno aveva con sé: una volta che tutti hanno condiviso il poco che avevano, si accorgono che non solo basta per tutti, ma che ne avanza abbondantemente. E questa è proprio la logica della celebrazione eucaristica: la chiesa si raduna e ciascun credente porta con sé la propria offerta – in denaro, per la vita della chiesa e per i poveri, ma anche in doni, esperienze vissute, fatiche e gioie – e a partire da questa condivisione lo Spirito di Dio realizza un pane da spezzare insieme nel quale Cristo stesso è presente, vivo, operante.

Gesù moltiplica i pani, dunque, non per esaltare se stesso, per insegnare ai suoi l’unità (che viene descritta e rimarcata splendidamente dalla seconda lettura tratta ancora dalla lettera agli Efesini): offrendosi reciprocamente ciò che sono, i credenti possono essere resi un corpo solo dal dono di Dio e così il poco che abbiamo diventa così tanto da permetterci di sfamare non solo i fratelli e le sorelle che siedono a mensa con noi, ma anche tutti gli altri dai quali torniamo. L’unico pane che mangiamo (quanto sarebbe importante mangiare tutti il pane consacrato nella celebrazione cui partecipiamo!), il pane in cui Cristo si fa presente, è impastato delle nostre vite dunque e così ci nutriamo reciprocamente, perché il poco che abbiamo condiviso viene abitato da Dio e si moltiplica. A noi solo il compito di custodire questo dono con umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandoci a vicenda nell’amore, rinsaldando il vincolo della pace, ricordando che abbiamo un’unica speranza, un’unica fede e un solo Padre che opera per mezzo di tutti e in tutti è presente, là dove ci sediamo gli uni accanto agli altri per offrici ciò che abbiamo, quanto sia poco non importa davvero.

16 - Lug - 2021

XVI Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XVI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ger 23,1-6   Sal 22   Ef 2,13-18   Mc 6,30-34)
Domenica 18 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La nostra bontà si misura sulla vita di quelli che ci sono affidati. Forse il commento delle letture di questa domenica si potrebbe chiudere anche qui, con questa sola frase. Nella prima lettura il rimprovero ai pastori – i re, i sacerdoti, tutti quelli che hanno una qualche responsabilità sugli altri – non riguarda le intenzioni del cuore o il rispetto delle regole, il rimprovero si gioca sul fatto che le pecore che erano state loro affidate non vivono, sono disperse, soffrono. Il criterio di giudizio non riguarda l’interiorità del pastore, ma il benessere delle pecore: se ciò che ci è affidato vive, allora siamo pastori secondo il cuore di Dio, che non fa mancare (ce lo ricorda il salmo) pascolo, acqua, riposo; se invece ciò che ci è affidato muore, soffre, si disperde, siamo pastori che si preoccupano solo di pascere se stessi, magari giustificandoci con il rispetto del ruolo che abbiamo e con le norme stabilite.

Il Signore, in questi pochi versetti di Marco, ci viene presentato come un pastore straordinario – nella prima lettura era stato promesso questo re-pastore saggio che avrebbe esercitato la giustizia – perché non gli interessa tenere fermo ciò che ha deciso o ciò che è opportuno, gli interessa solo la vita di quelli che gli sono affidati. E così lo troviamo indaffarato subito dopo aver promesso ai suoi il riposo e un luogo in disparte, perché dopo aver colto il loro bisogno, coglie quello delle folle e non può sottrarsi ad esso. Dice Marco che il Signore ebbe compassione e usa un verbo che indica proprio la contrazione delle viscere, quella profonda pena e tenerezza che è tipica delle madri nei confronti dei loro figli. Gesù sente la fatica delle folle dentro di sé, come le madri sentono il pianto dei propri bambini più forte degli altri e percepiscono ogni loro dolore più intensamente di quanto facciano i figli stessi. Quando il Signore sente questa pena dentro di sé, quando sente le folle dentro di sé, come il Padre, il cui grembo è sempre contratto per la fatica dei figli e delle figlie, non può che dare loro ciò che serve per vivere: si mette ad insegnare. Aveva visto la stanchezza dei discepoli e li porta in disparte a riposare, ma davanti al bisogno estremo delle folle che non sanno lasciarlo andare perché la loro vita è troppo in affanno, cambia programma e si prende cura di loro.

Abbiamo davanti agli occhi il pastore capace di radunare il gregge perché non può pensare a se stesso prima che a quelli che gli sono affidati, dal momento che sente dentro di sé il loro bisogno e la loro fatica come se fossero il suo bisogno e la sua fatica. Non c’è alcun ruolo e nessuna regola che contino, solo quelli che si porta dentro e che non può sopportare di veder soffrire.

E così, curando e nutrendo, raduna tutti quelli che cercano la vita, neppure uno si perde – ci diceva la prima lettura – ogni muro che li divideva si abbatte – ci dice la seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini – perché tutti ci ritroviamo in lui, nella sua umanità, nel suo corpo, nella sua vita. Tutti possiamo riconoscere che in lui l’amore del Padre è evidente e realizzato e tutti possiamo scegliere di viverlo, perché come lui siamo esseri umani e tutto ciò che dobbiamo fare è avere le sue stesse viscere umane, tenere, pronte alla compassione, invase da quelli che gli sono affidati al punto da non poter vivere se essi non vivono. E questa umanità è quella che ci fa figli e figlie di Dio, in tutto simili al Padre.

09 - Lug - 2021

XV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Am 7,12-15   Sal 84   Ef 1,3-14   Mc 6,7-13)
Domenica 11 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Per annunciare il Vangelo, cioè per raccontare la storia di Gesù in modo che si comprenda che in essa si rivela l’amore del Padre per ciascuno e la logica profonda dell’esistenza umana, occorre una grande libertà, che il Vangelo di questa domenica descrive come una spoliazione. I Dodici – nei quali dobbiamo comprendere ciascuno di quelli e quelle che è stato chiamato dal Signore a seguirlo, ovvero ogni credente – devono andare senza pane, né sacca per raccogliere qualsiasi cosa possa esser utile, né denaro, né una tunica di ricambio. Sandali e bastone per camminare e nessun peso, nessuna scorta, nessuna sicurezza. Chi annuncia il Vangelo deve essere libero di lasciar trasparire solo l’amore di Dio che dona vita (scacciano i demoni, cioè il male che si annida nei cuori, e guariscono dalle malattie) e per fare questo non deve avere interessi personali da proteggere (né economici né di affermazione personale né di altro genere), non deve avere nemmeno posizioni da mantenere né bisogno di influenzare gli altri con le proprie convinzioni: al contrario chi annuncia si mostra bisognoso di accoglienza (fermarsi in una casa) e pronto ad andarsene se gli altri non volessero ascoltare. Nessuna violenza, nessuna pretesa, nessuna posizione di forza: solo l’offerta di un amore indicibile, con la speranza che venga riconosciuto.

D’altra parte non sarebbe possibile predicare come credibile il Vangelo di Gesù pretendendo di essere forti, perché lui non lo ha preteso, né pretendendo di convincere tutti, perché Gesù ha scelto la via della testimonianza, trasparente e mite fino alla fine: perché il Vangelo sia credibile per chi lo ascolta, la vita e le parole degli annunciatori devono essere capaci di mostrare lo stile di Gesù, la sua stessa vita spesa per guarire e liberare con le parole e i gesti. La libertà è una condizione indispensabile per tutto questo, altrimenti di fronte alle difficoltà o ai contrasti non si sarà in grado, come Amos (prima lettura), di rispondere che ciò che si vive e si testimonia viene solo da Dio che ha operato per noi e in noi, saremo invece costretti ad ammettere che difendiamo altro dalla buona notizia del suo amore che vuole raggiungere tutti, magari difendiamo cose che sono o ci sembrano valide, ma non sono questa buona notizia, che pretende invece di essere tutta la nostra ricchezza.

Questa parola (per dirla con la seconda lettura che inizia questa domenica la lettera agli Efesini) è il Vangelo della nostra salvezza e per aver creduto in essa noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo e siamo depositari della benedizione dello Spirito e della pienezza della vita in Dio. Dal Vangelo viene la speranza di essere stati liberati da ogni colpa e colmati di ogni sapienza e intelligenza; dal Vangelo viene la certezza che ogni cosa prenda senso e culmini in Cristo. Questa sola parola dunque, avendo anche il coraggio di purificarla dagli elementi provvisori o inautentici che i secoli le hanno cucito addosso, dobbiamo servire e portare perché quante più donne e uomini possibili, tramite ciò che noi siamo e diciamo, possano accorgersi che Dio è colui che libera e guarisce, colui che ha preparato un’eredità che non esclude nessuno ma conduce tutti alla pienezza della vita.

“Non ero profeta né figlio di profeta” (così Amos), non traggo vantaggio dal profetizzare, ma annuncio lo stesso ciò che Dio mi ha detto, la parola che ha liberato me e mi conduce sulla strada: un paio di sandali, un bastone e nient’altro che la compagnia di Colui che mi/ci manda, perché sola si mostri – nella mia povertà e nel mio camminare – la bellezza del Vangelo.

02 - Lug - 2021

XIV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XIV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ez 2,2-5   Sal 122   2Cor 12,7-10   Mc 6,1-6)
Domenica 4 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Alla fede della donna emorroissa che abbiamo incontrato domenica scorsa, fa eco l’incredulità – tanto grande da lasciare stupito anche Gesù – delle persone di Nazareth. Gesù va nella sua patria e proprio lì non riesce a compiere segni perché le persone che lo più lo conoscono – e quindi dovrebbero essere avvantaggiate nel dargli credito – non  credono. Riconoscono la sapienza che esce da lui e vedono i prodigi, ma non riescono ad andare oltre a ciò che già sanno: è il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone. E così la familiarità diviene per loro un ostacolo, uno scandalo, che impedisce il cammino della fede: anche se i fatti – la sapienza e i prodigi – li provocano a riconoscere in Gesù il profeta, non vogliono farlo. Il Signore si stupisce e dichiara che un profeta non è disprezzato se non fra i suoi, fra quelli che preferiscono tenersi le proprie idee sul loro parente o concittadino, che si accontentano di considerarlo uno di loro e non uno inviato a loro, da ascoltare e seguire.

Accade così per Gesù quello che tante volte i profeti hanno vissuto: vengono inviati da Dio a chi non vuole ascoltare (così i pochi versetti della prima lettura del profeta Ezechiele), ad un popolo indurito, che non vuole cambiare strada. Anche così però – di fronte a questa incredulità – Dio manda coloro che dicono la sua parola. Egli non abbandona il suo popolo perché testardo e incredulo: che almeno sappiano che c’è un profeta, che Dio non li ha abbandonati, che incessantemente offre la parola che può condurre alla vita. E allo stesso modo Gesù compie i pochi segni che gli sono possibili e mostra la propria sapienza anche di fronte agli increduli: che almeno sappiano, o possano sapere quando lo vorranno, che Dio lo ha mandato.

Può capitare anche (o proprio?) a chi più è immerso nel vissuto ecclesiale di indurirsi, per eccesso di familiarità, sicuro di sapere tutto e di essere nel giusto, fino a diventare sordo alla sapienza e cieco ai prodigi che il Signore compie: senza più stupore e senza più accorgersi se l’inautenticità o l’abitudine hanno preso il sopravvento. Quando questo (ci) capita, possiamo sempre ricordare che la parola di Dio non viene meno e ricominciare ad ascoltarla, abbandonando la tracotanza di chi crede già di sapere o di chi presume di essere già sulla strada giusta.

Ma qual è la via più sicura per mantenere il cuore sgombro da ostacoli che impediscano di accogliere e testimoniare la Parola? Nella seconda lettura Paolo testimonia di avere una spina nella carne (una sofferenza? una tentazione?) che gli impedisce di montare in superbia, di assumere cioè l’atteggiamento di chi si sente in alto. La propria debolezza diventa la via privilegiata per conoscere se stesso, gli altri – che non si possono più disprezzare una volta guardato con verità ciò che si è – e Dio, che si fa presente proprio nella fragilità che siamo e che non riusciamo a superare. L’accoglienza della propria debolezza è la via dunque per riconoscere la sapienza di Dio e vederne i prodigi, come anche è la chiave della nostra autenticità personale: se non sapremo accettare la debolezza che ci struttura, cercheremo di essere forti, potenti, di successo, vincitori, riconosciuti e considerati, e così non avremo più la libertà per ascoltare la parola, riconoscere i profeti ed essere a nostra volta profeti.

Gesù accoglie la propria debolezza: senza la fede altrui (che differenza con la donna emorroissa!) non può compiere prodigi. La sua potenza è consegnata alla fede di quelli che incontra, come la sua sapienza è consegnata – nella logica del seme – alla capacità di accoglienza di chi ascolta. Di fronte ai suoi – forse deluso e amareggiato oltre misura perché proprio quelli con cui è cresciuto e cui vuole bene reagiscono così – può solo essere se stesso, il profeta che Dio manda: qualunque cosa gli altri facciano, lui non negherà loro il dono della Parola che il Padre gli ha consegnato. Lo stesso amore caparbio è chiesto ai suoi: dovunque siamo, non importa se gli altri ascolteranno o meno, se ci riconosceranno o meno, se magari perseguiteranno o oltraggeranno, importerà solo che ciò che diciamo (e che facciamo vedere con la vita) siano le parole di Dio e non quelle dettate dall’abitudine o dal ruolo o dalla ricerca di noi stessi in un qualche potere o guadagno. E proprio qui, in questa debolezza disarmata, come Paolo, scopriremo di essere forti, perché in ogni cosa ci basta la sua grazia.

25 - Giu - 2021

XIII Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Sap 1,13-15; 2,23-24   Sal 29   2Cor 8,7.9.13-15   Mc 5,21-43)
Domenica 27 Giugno 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

“Dio ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza”, così leggiamo nella prima lettura di questa domenica, costituita da pochi versetti tratti da due diversi capitoli del libro della Sapienza. La morte viene riconosciuta come estranea al mondo, seppure così quotidiana e scontata per tutti, mentre si afferma con forza che tutto è stato creato per vivere. Se guardiamo la realtà potremmo giungere alla conclusione opposta: tutto muore, prima o poi, e tutto sembra essere avvelenato al punto che molto spesso gli esseri umani e le diverse situazioni amplificano il potere della morte. Di fronte a questi fatti, lo sguardo di fede dell’autore del libro della Sapienza coglie altro: poiché Dio ha creato le cose perché esistano, le creature sono portatrici di salvezza. Proprio le creature fragili ed esposte alla morte diventano il luogo della salvezza e della vita e riducendo la supremazia della morte a una vittoria provvisoria e marginale.

Il racconto del Vangelo può aiutarci a cogliere come tutto questo possa accadere. Marco racconta la guarigione della donna che aveva perdite di sangue incorniciandolo con un altro racconto: quello della resurrezione della figlia di Giairo. Quando gli evangelisti usano questo sistema narrativo, bisogna ricordare che l’episodio fondamentale è quello al centro che diventa capace di illuminare anche l’altro. Gesù viene chiamato perché una ragazzina sta morendo e decide di andare. Mentre va, pigiato dalla folla da ogni parte, sente una forza uscire da lui e comprende che qualcuno lo ha toccato in modo diverso dagli altri. Si ferma e vuole sapere chi è stato. Che cosa sta cercando Gesù? Dopo i tanti miracoli fatti all’inizio del Vangelo fino alla guarigione del lebbroso che lo aveva ostacolato nella possibilità di predicare, Gesù era diventato più cauto: pochi prodigi fatti per dimostrare la potenza di Dio e la propria autorità (l’uomo dalla mano inaridita in sinagoga e il paralitico nella casa). Ora, però, si è deciso ad andare dalla figlia di Giairo e mentre sta andando qualcuno ottiene che una forza esca da lui e per questo si ferma: chi mi ha toccato in modo da essere capace di fare questo? Quando la donna, impaurita e tremante, gli racconta la propria disperazione e ciò che ha fatto, Gesù riconosce che è la fede a dare senso ai miracoli: i segni di per sé possono essere anche controproducenti se ci si limita al beneficio immediato, mentre la fede che apre al dono di Dio è decisiva per la salvezza al di là di ogni beneficio immediato. E infatti quando vengono dalla casa di Giairo a dire che la bambina è morta, Gesù gli ripete l’essenziale che ha appena compreso: tu abbi fede.

Non importa ciò che accade, per quanto possa terribile o difficile, ciò che conta è questa apertura al dono di Dio, questa ossessiva e caparbia ricerca della vita: l’emorroissa aveva sperperato i propri beni pur di guarire, stimando la vita più del denaro, e ora si pigia addosso a Gesù, stimando la vita più del disprezzo, del rimprovero e persino delle punizioni possibili. Gesù, la cui forza è stata strappata dalla testardaggine di lei, si nutre di questa sua volontà di vita e la insegna a Giairo: di fronte alla morte di tua figlia, di fronte all’orrore più grande, tu tieni aperto il cuore al Dio della vita e cerca la vita.

Sembra accadere fra loro ciò che la seconda lettura insegna sulla condivisione del denaro: chiunque ha in abbondanza deve dare ad altri perché non siano nell’indigenza e ricevere da loro nel momento in cui toccasse a lui avere bisogno. Le creature non hanno in sé veleno di morte, ma portano la salvezza se continuamente si offrono in dono ciò che hanno in abbondanza, in modo che tutte vivano (perché là dove c’è qualcuno nell’abbondanza c’è sempre anche qualcuno che soffre). Così accade fra i protagonisti del Vangelo: Gesù che ha in abbondanza la possibilità di far vivere dona la sua forza e allo stesso tempo riceve un insegnamento decisivo da questa sorella tremante e indomabile. E subito il Signore dona ciò che ha ricevuto a Giairo e poi dà vita alla bambina. D’altra parte è proprio la malattia della bambina e la ricerca della vita da parte di suo padre che danno all’emorroissa la possibilità di toccare Gesù. Davanti a questa scena possiamo cogliere allora – mi sembra – come si dispieghi la potenza salvatrice di Dio, nel quotidiano camminare e soffrire di quelli e quelle che si incontrano e scelgono la vita, sempre e comunque, ad ogni costo, contro ogni evidenza, al di là di ogni ragionevole speranza. E così cercando la vita rendono a Dio l’onore più grande, perché riconoscono (con le parole della prima lettura) che “Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi”, ma (riprendendo il canto al Vangelo) è colui che vince la morte e fa risplendere la vita.

19 - Giu - 2021

XII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Gb 38,1.8-11   Sal 106   2Cor 5,14-17   Mc 4,35-41)
Domenica 20 Giugno 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il capitolo quarto del Vangelo di Marco raccoglie le parabole del seme (la parabola del seminatore, quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape) che illustrano tutte la potenza mite e umile della parola che si immerge nella nostra terra (in quello che siamo), mette radici (anche se dipende da quanto il terreno sa essere sgombro) e poi cresce da sé, giorno e notte, e cresce a dismisura, anche fuori posto, dove nessuno avrebbe creduto sarebbe potuto crescere niente. Ci vogliono solo fiducia e pazienza e il seme darà i suoi frutti. Alla fine di questo discorso Gesù e i suoi si mettono in mare per andare dall’altra parte e si scatena una tempesta spaventosa, mentre Gesù dorme.

Dorme Gesù nel mezzo della tempesta, quando abbiamo paura, quando non sappiamo fronteggiare i pericoli perché sono troppi e troppo grandi. Come i discepoli ci viene da svegliarlo: non ti importa che moriamo? Gesù si veglia e minaccia il vento e il mare che si calmano. Improvvisamente, dalla quiete del sonno che fa inermi tutti gli esseri umani, si erge a Signore, in tutto simile a Dio che parla a Giobbe (nella prima lettura): io ho chiuso il mare fra due porte, decidendo il suo limite. Lui parla e, come afferma il salmo, la tempesta è ridotta a silenzio e noi usciamo dalle nostre angosce.

Eppure dopo aver fatto questo, lasciando i discepoli pieni di timore, chiede: “Perché avete paura, non avete ancora fede?”. Verrebbe da dire che hanno dimostrato la loro fede proprio svegliandolo: non hanno creduto così che lui poteva salvarli? E che cosa è questa paura che Gesù oppone alla fede? Non può essere certo l’incoscienza di chi non riconosce la gravità dei pericoli. Forse Gesù rimprovera ai suoi di non avere fede perché non hanno assunto la logica del seme. Nel mezzo del pericolo, mentre la tempesta infuria (la vita non è una tempesta nella maggior parte dei casi?) cercano un dio onnipotente che scacci i pericoli e li metta in salvo, ma Gesù non ha insegnato questo su Dio: ha insegnato la logica del seme che cade nella terra e con essa soffre la siccità o la tempesta, fatica in mezzo alle spine e non riesce a trovare radici se ci sono sassi. Gesù ha insegnato il Dio umile che lotta con gli esseri umani, che li rende liberi e coraggiosi, che soffre per loro, che affronta la morte con loro.

Non avete ancora fede? La fede non significa credere che Dio tolga tutti i problemi: non è mai accaduto e mai accadrà. Credere poi che le sofferenze non toccheranno a chi crede, mentre toccano a chi non crede è terribile. I discepoli non hanno ancora fede perché non assumono la logica del seme, della mitezza e della pazienza di Dio, che ci chiede di affrontare le tempeste in altro modo, senza miracoli, che pure a volte possono accadere. Nella seconda lettura (seconda lettera ai Corinzi) Paolo ci aiuta a vedere in Gesù la logica del seme. Lui è morto per tutti: non si è sottratto alla tempesta e se ha svegliato i suoi nel momento del bisogno è stato solo per non rimanere da solo. Morendo per tutti ci ha mostrato la potenza del seme piantato nella carne degli esseri umani, che rende capaci di dare la vita e di risorgere, e così tutti quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per lui. Si tratta di una novità inaudita, questa parola ci fa nuove creature e rende nuovo tutto: non viviamo più per noi stessi avendo come uno scopo accaparrarci vita e difenderci dalla morte, per cui anche Dio dovrebbe servire soprattutto a questo (perché dormi, non ti importa che moriamo?), ma viviamo per lui, affascinati dalla logica della mitezza e dell’umiltà proprie dell’amore e certi dei frutti di vita che persino morendo il seme può portare.

Perché avete paura? Non si tratta di non temere la tempesta (sarebbe sciocco), né di pensare che Dio risolva sempre tutto se noi facciamo le cose giuste o ci fidiamo abbastanza (sarebbe idolatrico), si tratta di sapere (la fede è un’esperienza) che la parola seminata nei cuori è più potente del mare e del vento e che persino la morte, immersa nel grembo di vita che Dio è, si arrende per lasciare spazio alla fecondità inesauribile della vita. Nessuno può sfuggire la morte, né le tempeste, nemmeno Gesù l’ha fatto, può però vedere in azione la vita sempre e in tutta pazienza e umiltà, come Dio, attenderne i frutti. Questa consapevolezza fa nuove tutte le cose.

11 - Giu - 2021

XI Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

XI Domenica T.O. (B)

(Ez 17,22-24   Sal 91   2Cor 5,6-10   Mc 4,26-34)
Domenica 13 Giugno 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Provo a leggere la parola di questa domenica, che riprende la lettura del Vangelo di Marco al quarto capitolo subito dopo la parabola del seminatore, introducendola con le parole di papa Francesco (parole che ha usato per rifiutare le dimissioni del card. Marx, importante vescovo tedesco, impegnato per la riforma della chiesa). Sono parole che non fanno sconti alla durezza della realtà e allo stesso tempo ci portano al cuore della nostra fede. Il papa fa riferimento agli abusi sessuali che hanno dilaniato (e dilaniano) la chiesa, ma possiamo leggerlo pensando a tutti i fallimenti personali ed ecclesiali che ben conosciamo: tutto ciò che non testimonia il Vangelo nella nostra vita e nelle nostre comunità.

Così scrive il papa: “È urgente “esaminare” questa realtà degli abusi e di come ha proceduto la Chiesa, e lasciare che lo Spirito ci conduca al deserto della desolazione, alla croce e alla resurrezione. È il cammino dello Spirito quello che dobbiamo seguire, e il punto di partenza è la confessione umile: ci siamo sbagliati, abbiamo peccato. Non ci salveranno le inchieste né il potere delle istituzioni. Non ci salverà il prestigio della nostra Chiesa che tende a dissimulare i suoi peccati; non ci salverà né il potere del denaro né l’opinione dei media (tante volte siamo troppo dipendenti da questi). Ci salverà la porta dell’Unico che può farlo e confessare la nostra nudità: “Ho peccato”, “abbiamo peccato”… e piangere e balbettare come possiamo quell’“allontanati da me che sono un peccatore”, eredità che il primo Papa ha lasciato ai Papi e ai Vescovi della Chiesa. E allora sentiremo quella vergogna guaritrice che apre le porte alla compassione e alla tenerezza del Signore che ci è sempre vicino”.

Proprio a partire da questa situazione ecclesiale, che è nostra e chiede il coraggio della vergogna, ascoltiamo la parola di questa domenica. Nella prima lettura sentiamo parlare di un ramoscello di cedro. Per moltiplicare la vita, per piantare un albero dove non c’è, non posso trasportare un cedro intero: è enorme, le sue radici scendono sotto terra per metri. Tentare di sradicarlo porterebbe solo morte. L’albero oramai radicato va lasciato dove è, ma si può prendere un solo rametto, piccolo, per piantarlo altrove. Sarà quasi invisibile, insignificante rispetto alla pianta da cui è spuntato, esposto alla siccità perché senza radici, fragile di fronte al vento e agli animali, ma, se si ha fiducia nella terra e si lascia che la sua vitalità scorra, metterà radici e tenderà i rami verso il cielo. Questo è il cammino della parola in ciascuno di noi, è il cammino di ciascuno di noi e il cammino della chiesa: non ci salverà il prestigio, né il potere, né il denaro, ci salverà la vita di Dio in noi se la lasciamo scorrere. La seconda lettura ci offre l’immagine dell’esilio per comprendere quanto abbiamo descritto ora: dove sono finiti i grandi rami carichi di frutti della pianta cui eravamo abituati? La vita, in realtà, è sempre così: fragile, esposta, consegnata. Solo la fiducia in Dio può farci prosperare come un piccolo rametto in cima ad una collina. Solo la fiducia in Dio ci permetterà di riconoscere, dopo aver provato la vergogna e lo sconforto, che il ramoscello che abbiamo piantato lontano dalle logiche di potere e di peccato, lontano dalle sicurezze “mondane”, diventa così grande da dare riparo.

Nella parabola del granello di senape che leggiamo nel Vangelo viene sottolineata la sproporzione: il più piccolo dei semi diventa la pianta più grande dell’orto. Il seme piccolo del Vangelo può far fiorire e crescere ciò che non si può nemmeno immaginare. C’è però un’altra caratteristica del seme di senapa che forse non è subito evidente e consiste nel fatto che la senapa era considerata una pianta selvatica, non poteva essere piantata nell’orto (anzi a questo proposito c’era un esplicito divieto dei rabbini), per cui questo seme piccolo si trova fuori posto. Ed è proprio così: il Vangelo con tutta la sua bellezza e la sua vitalità, con tutto il potere che ha di rinnovare il mondo e costruire una fraternità e una sororità piene, cade fuori posto: cade nei nostri cuori duri, cade nella chiesa che (riprendendo le parole del papa) fa vergognare. Eppure il Padre lo semina con fiducia e ogni volta prende un rametto nuovo, piccolo, che è spuntato e lo pianta perché cresca, si mostri, faccia ombra e dia riparo. Ogni volta incrollabile il Dio della vita ci fa vivere. Da questa fiducia, che ci fa vivere anche in esilio, ripartiamo ogni volta con un rametto nuovo, accogliendo un seme piccolissimo, e alla fine col salmista potremo dire: “nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi per annunciare quanto è retto il Signore: una roccia”.

04 - Giu - 2021

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (B)

Eucarestia

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (B)

(Es 24,3-8   Sal 115   Eb 9,11-15   Mc 14,12-16.22-26)
Domenica 06 Giugno 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nelle letture proposte per questa domenica la Solennità del Corpus Domini viene contemplata sotto il segno dell’alleanza, come se dovessimo puntare l’attenzione sul fatto che ciò che celebriamo riguarda una relazione profonda con Dio, un patto, un legame così stretto da potersi dire che diventiamo suoi consanguinei, una sola carne con lui. Nel capitolo 24 dell’Esodo, da cui è tratta la prima lettura, vediamo l’adesione di Israele alla legge (“tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo”) incorniciare il rito dell’aspersione dell’altare (segno di Dio stesso) e del popolo con il sangue. Si tratta del sangue degli animali offerti in sacrificio, ma il segno indica una comunione inestricabile, un patto irreversibile.

Questa alleanza, che pure è già una piena comunione con Dio, viene rinnovata in Cristo. La lettera agli Ebrei (da cui è tratta la seconda lettura) parla di una nuova alleanza, offerta al popolo dopo le trasgressioni della prima alleanza. In realtà la Scrittura è piena di offerte di perdono, di nuovi inizi che Dio offre al popolo rinnovando la propria alleanza più e più volte, ma qui accade qualcosa di unico, perché da questo momento in poi non ci sarà più bisogno di rinnovare alcun sacrificio per purificare il popolo dal tradimento del patto che ha stretto con Dio. Infatti Cristo, uno del popolo mandato da Dio stesso, ha offerto se stesso compiendo nella propria carne tutti i comandamenti di Dio, ovvero la pienezza dell’amore; l’alleanza è dunque perfetta: il patto fra Dio e gli esseri umani è senza tradimenti né incrinature, tanto è vero che Cristo, uno di noi, è entrato nella tenda perfetta, cioè nella vita stessa del Padre (lo abbiamo contemplato il giorno dell’Ascensione) e così vive con lui e con lo Spirito (lo vedevamo domenica scorsa) un’unica vita.

Perché noi potessimo entrare nella stessa vita che Cristo condivide col Padre, perché potessimo essere protagonisti dello stesso patto di alleanza, Gesù ci ha lasciato un gesto da ripetere in memoria di lui. Ci ha chiesto di spezzare e condividere il pane e di bere allo stesso calice. Si tratta di gesti semplici, ma impegnativi: dicono infatti la condivisione di ciò che si riesce a produrre (pane e vino), la disponibilità a spezzare quello che c’è senza separazioni e senza ingiustizie, il desiderio di essere una sola famiglia con quelli che si siedono alla stessa mensa, il coraggio di riconoscere che abbiamo bisogno tutti di essere nutriti da Cristo che ci fortifica (pane) e ci rallegra (vino). Si tratta di un gesto rituale che viene dalla vita (servono gli elementi della terra, procurati col lavoro) e trabocca nella vita (se non si è disposti a spezzare il pane con gli altri e a spezzarsi per gli altri il gesto che si compie non è lo stesso di Gesù).  Mangiamo e beviamo di lui, cioè della sua logica, dei suoi sentimenti, dei suoi gesti: significa che viviamo e ci rallegriamo di lui e questo – solo questo – ci fa vivere e ci fa un corpo solo.

Gesù non si è accontentato di compiere l’alleanza con il Padre, ha voluto che essa fosse anche per noi. Ha pensato se stesso come un corpo capace di nutrire e dissetare, come quello delle madri che allattando sfamano e rasserenano i bambini, perché noi diventassimo il suo corpo nel mondo, capace di nutrire e dissetare tutti quelli che ci sono posti accanto. Si tratta di un dono immenso, che non è contenuto da alcun tabernacolo e non si esaurisce sull’altare, ma invade il mondo dovunque il dono di Cristo, il corpo di lui, si fa carne in quelli che si nutrono di lui e si danno a chi ha fame.

E chi fa questo, chi mangia questo pane, vivrà in eterno.

28 - Mag - 2021

Santissima Trinità (B)

Santissima Trinità

Santissima Trinità (B)

(Dt 4,32-34.39-40   Sal 32   Rm 8,14-17   Mt 28,16-20)
Domenica 30 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

In modo del tutto inappropriato spesso pensiamo (e predichiamo anche) che l’essere trino di Dio sia qualcosa che non si comprende, lontano, astratto, difficile. Cosa c’entriamo noi con l’unicità della sostanza di Dio e la trinità delle persone di cui sentiremo parlare nel prefazio (la preghiera che precede la consacrazione)? E che cosa significa?

Le letture di questa domenica ci aiutano a celebrare questo mistero (inteso come ciò che Dio rivela di sé e non come un rompicapo che nessuno capisce) proprio a partire da noi, da ciò che Dio dice a noi e da ciò che fa con noi. I pochi versetti della lettera ai Romani (tratti dal bellissimo capitolo ottavo) sono a questo proposito assolutamente espliciti: nei nostri cuori, nella nostra interiorità (meditavamo questo domenica scorsa nella solennità di Pentecoste), fra i nostri pensieri e i nostri sentimenti, abita lo Spirito di Dio che ci rende figli. Questo significa che siamo abitati da un amore, l’amore stesso di Dio che ci invade, grazie al quale noi sappiamo di essere figli di Dio e lo riconosciamo come Padre.

La presenza dello Spirito in noi, che ci rivolge al Padre per vivere con Cristo la sua stessa condizione di figli, ci fa toccare con mano che Dio non è un solitario unico Signore, ma un mistero di vita condivisa in cui il Padre ama il Figlio, ovvero lo ricolma del suo Spirito, e il Figlio lo ricambia in un continuo dono reciproco che porta con sé vita e gioia. L’unica vita condivisa dai Tre (Padre, Figlio e Spirito) è poi donata a tutti. Nel Vangelo viene riportato il comando dato da Gesù di fare discepole tutte le genti e di battezzarle nel nome dei Tre, perché tutti possano avere l’opportunità di rinascere come figli e godere l’intimità con Dio, fino a portarlo dentro di sé. Chiediamoci allora con le parole del libro del Deuteronomio: vi fu mai una cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio e sia rimasto vivo? Si è mai sentito, cioè, che Dio non sia l’imperscrutabile Signore da tenere buono, lontano e minaccioso, ma invece sia un Padre che per renderci figli manda il suo Figlio a farsi come noi e con lui dona il suo stesso Amore perché ci spinga dal di dentro a non scegliere altro se non l’amore e la vita?

Il Dio cristiano non è astratto, né incomprensibile: è un mistero d’amore e l’amore si vive nelle relazioni e nella condivisione della vita con quelli che si amano. Se vogliamo entrare dentro questo mistero, basta seguire i comandamenti (così alla fine della prima lettura), basta amare, cioè, e scoprire che cosa significa desiderare qualcuno al punto tale da non voler vivere se non per lui e con lui. Padre, Figlio e Spirito santo si rapportano in questo modo fra di loro, per questo vivono un’unica vita e in quest’unica vita vogliono anche noi. Chiunque ama, anche senza saperlo dire, vive la stessa cosa. Su tutti ci possono istruire i bambini, che non conoscono distanze, buone maniere, mezze misure, ma con la prepotenza di chi vive solo d’amore offrono tutto quello che sono per essere amati e con dedizione assoluta amano quelli che li hanno messi al mondo. Nel loro amore, come in quello di chi non sa abbandonare o di chi nel silenzio si spende perché qualcuno viva, un riflesso del mistero trinitario di Dio, così vicino da starci dentro e così ampio da contenerci tutti.