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31 - Mag - 2022

La fantasia dello Spirito

Shalom - Spirito Santo, PortalePer la festa parrocchiale, Domenica 5 Giugno alle ore 15.30, nel salone del centro parrocchiale Shalom ospiteremo Moreno, responsabile della casa di Accoglienza “Poggio degli Aquiloni” che ci testimonierà la Fantasia dello Spirito.MorenoPoggioAquiloni

Poggio degli Aquiloni

30 - Ott - 2019

Festa di Tutti i Santi

Ogni Santi

M.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Festa di tutti i Santi

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le letture di questa solennità ci aiutano a fare piazza pulita di alcuni fraintendimenti nei quali cadiamo quasi tutti molto spesso quando pensiamo la santità. Infatti la liturgia della parola ci costringe ad accostare quello che ci sembra uno stile elitario, possibile a pochi, come la pagina delle Beatitudini, ad una moltitudine di santi e sante che nessuno può contare. Infine la seconda lettura – appena pochi versetti della prima lettera di Giovanni – si rivolge direttamente a noi (usa proprio la prima persona plurale coinvolgendo chi ascolta nella stessa condizione di chi scrive) per dirci che saremo simili a Dio.

In poche battute, quindi, ci troviamo anche noi immersi nella schiera innumerevole di quelli che hanno lavato le proprie vesti nel sangue dell’Agnello, che hanno riposto cioè la speranza della propria vita nell’amore del Padre, proprio come Gesù che, forte di questo amore, ha potuto annunciare la salvezza e testimoniarla fino al culmine del dono di sé.
Se accade per una folla innumerevole però, noi compresi, vuol dire che entrare nella schiera dei santi, che l’Apocalisse indica come testimoni, non è qualcosa di raro, riservato a chi è capace di prestazioni particolari, ma è invece un’esperienza propria di ogni credente. La fede infatti ci pone in questa condizione di continua santificazione e ci stringe in una tale relazione con Dio che nemmeno il peccato è più capace di ostacolare, poiché ciascuno viene purificato proprio nel fondare tutta la propria speranza in lui.
Essere santi dunque è una condizione ordinaria, propria di ogni credente, che prevede anche errori da cui veniamo continuamente purificati e che ci immerge nel popolo di quelli che hanno fatto dell’amore del Padre il fondamento della propria vita cui continuamente tornare e da cui continuamente ripartire per salire più in alto verso il monte del Signore.
Tutto questo, poi, per il credente è una gioia, che non dipende dalle contingenze favorevoli della vita, ma dall’avere assunto lo stile di Cristo. Vive la propria vita cristiana infatti chi fa suoi i tratti di Gesù e questo lo pone fra la schiera dei testimoni che mostrano con la propria esistenza la verità del Vangelo. Chi fa questo non pensa di avere una ricchezza più grande né più importante dell’amore del Padre (beati i poveri!), non ha bisogno di stare sempre nella gioia quindi può sopportare le fatiche e le sofferenze senza diventare violento o egoista per evitarle (beati gli afflitti!), non ha bisogno di sopraffare nessuno per trovare se stesso (beati i miti!), né di trovare mille giustificazioni alle ingiustizie pur di non sentirsi mancante e di non dover cambiare la propria vita per rendere il mondo più giusto (beati quelli che hanno fame e sete della giustizia!). Quelli che hanno i tratti di Gesù non hanno bisogno di conservare la memoria delle offese subite perché non vogliono riscuotere nessun debito ma dare all’altro la possibilità di vivere liberamente (beati i misericordiosi!), non hanno bisogno nemmeno di nascondersi e manipolare perché sono liberati dalla smania di apparire altro da quello che sono (beati i puri di cuore!), non hanno bisogno di evitare i conflitti per non avere problemi e così vi entrano per portare pace (beati gli operatori di pace!) e, infine, non hanno bisogno di essere applauditi e nemmeno lasciati in pace se per fare questo devono contraddire la giustizia e la fede (beati i perseguitati!). Chi vive così ha davvero da rallegrarsi, beato lui o lei, perché assapora la libertà da se stesso e può vivere la vita così com’è, con le lacrime, i fallimenti, la lotta per un mondo più giusto, i conflitti, le nostre povertà e miserie. Può vivere tutto come è e cogliere in questa ordinaria fatica la potente logica di Dio che ci conduce, insegnandoci a vivere tutto nell’amore, al suo luogo santo, per donarci benedizione e salvezza.
11 - Ott - 2019

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica può aiutarci a purificare le motivazioni che ci spingono a rivolgerci a Dio e a professarci cristiani, anzi può essere un vero e proprio banco di prova per rispondere alla domanda che un altro Vangelo in un altro momento pone sulle labbra di Gesù: chi cercate?

Dieci malati vanno da Gesù, dieci lebbrosi, e tutti e dieci vengono guariti. Uno solo torna indietro lodando Dio a gran voce per ringraziare Gesù e lo fa prostrato ai suoi piedi. Gesù non aveva comandato ai lebbrosi di tornare, ma di presentarsi ai sacerdoti, d’altra parte rimane stupito che sia tornato indietro uno solo: “non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E prosegue: “la tua fede ti ha salvato”. Tutti e dieci i malati sono andati per essere guariti, hanno pregato allo stesso modo e hanno obbedito alla parola di Gesù, ma solo uno di loro viene salvato. La guarigione, dunque, non coincide con la salvezza, almeno non nella logica di Gesù. Può darsi che molti, anche nella chiesa, cerchino Dio per essere guariti, per stare bene cioè, per essere rassicurati, per avere un aiuto, per sentirsi bravi e inseriti in un sistema di valori che ci dice che la nostra vita va bene così come è. Si può cercare Dio cioè per sentirsi meglio, per guarire dalle molte sofferenze che portiamo. Dio ascolta queste esigenze e le esaudisce anche, ma questa non è ancora la salvezza.
Per essere salvati occorre riconoscere l’amore di Dio nella vita e nei doni che riceviamo, scoprire in questo amore il senso della vita stessa, al punto da essere disposti a non rendere più gloria a nessun altro (come Naaman il Siro), cioè a non essere più disposti a cercare vita e benessere altrove. Se ricevendo i doni di Dio continuiamo a preoccuparci solo dei doni, allora serviremo chiunque altro sarà in grado di garantirceli e dimenticheremo Dio qualora non sembrasse più intenzionato a farci stare meglio (non è questa la logica di chi ritiene che siano i soldi o la salute o l’ordine sociale o essere stimati e amati ciò che conta davvero?). Oppure, Dio non voglia, potremmo essere tentati persino di usare il suo nome per procurarci doni, magari a scapito di altri, come succede quando in nome di Dio si vuole negare soccorso e ospitalità ai fratelli o difendere chi distrugge l’ambiente minacciando la vita di tutti.
Invece se, come il lebbroso samaritano, ricevendo i doni di Dio rimarremo affascinati dal Donatore, da come lui ama e da come vive, allora non ci importerà di altri possibili doni, ma vorremo dedicarci a lui solo e in questo scopriremo il senso di ogni dono possibile.
Gli innamorati sono grati dei doni e delle attenzioni ricevute, ma questi li riempiono di gioia solo perché vengono da colui/colei che amano. Se i doni non venissero più, soffrirebbero perché temono di non avere più l’amato non per i beni perduti. Così è con Dio: se sono i benefici che vengono da lui ad interessarci e non lui e quelli che lui ama, facilmente altri ci affascineranno oppure il nostro cuore, pur continuando a parlare di Dio, servirà altri padroni con altre logiche, purché ci diano i beni promessi.
La salvezza invece consiste nello stupito riconoscimento del volto di Dio che ci guarisce e ci fa vivere, perché non ci sarà più malattia né morte (nemmeno le catene come testimonia la seconda lettera a Timoteo) che ci potrà togliere la certezza che il Dio della vita ci ama e “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”, cioè non vuole smettere di essere Colui che ci ama (il suo amore per noi fa parte di lui).
Vivere in questa relazione grata e fiduciosa con Dio è già la salvezza. Così fin da ora, attraversando la vita senza preoccuparci di trattenerla ma di cogliere in essa l’amore del Padre, assaporiamo la vittoria sulla morte, che ci è promessa, e possiamo gioire con il salmista: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Si è ricordato del suo amore e della sua fedeltà”.
14 - Set - 2019

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda (Mt 18,14). Così Gesù conclude la parabola della pecora perduta nel Vangelo di Matteo dandoci la chiave per entrare nel cuore stesso di Dio, nei suoi desideri più profondi: che nessuno (dei piccoli) si perda. Leggendo il capitolo in cui Luca raccoglie le tre parabole che raccontano di smarrimenti e perdite, occorre tenere lo sguardo sul sentire di Dio, sul suo desiderio cioè che neppure uno si perda. Tutte e tre le parabole parlano di gioia e di festa per ciò che era perduto ed è stato ritrovato, ma tutte e tre dicono anche che chi si rallegra (cioè Dio, rappresentato dal pastore, dalla donna e dal padre) non vuole rallegrarsi da solo: il pastore cerca amici e vicine, la donna amiche e vicine, il padre cerca il figlio maggiore, perché vuole che anche lui faccia festa e si rallegri.

Il cuore di Dio che Gesù ci racconta è il cuore di un Padre/Madre che non vuole perdere nessuno dei suoi piccoli, ma che non vuole nemmeno che i suoi figli si perdano fra di loro. Ciascuno deve sentire l’urgenza verso gli altri, la stessa urgenza che sente lui: che nessuno si perda. Si capisce però se davvero ci muove lo stesso desiderio di Dio, se, quando le persone che erano perdute hanno nuove possibilità di vita, noi ci rallegriamo oppure no. Se ci ingelosiamo, ci sembra ingiusto, vorremmo qualcosa in più per noi o comunque la difesa dei nostri diritti contro quelli che, se si sono persi, si sono persi per colpa loro (o almeno non per colpa nostra), allora non è il Padre quello che amiamo e serviamo ma solo i benefici che speriamo di avere da lui.
Dio, infatti, è il Dio della vita. Non è geloso di quello che ha e dona continue possibilità di vita, perché ciascuno è prezioso ai suoi occhi ed è offerto come un dono a tutti gli altri. Nessuno deve perdersi, perché altrimenti tutto si sciupa. Perdere una pecora su cento è come aver perso un figlio su due, per questo si va a cercarla: neppure uno si deve perdere perché tutti sono stretti in unica vita condivisa (sono parte della stessa famiglia).
Dio non vuole vivere senza i suoi figli e ci insegna a sentire allo stesso modo, perché non si vive se gli altri muoiono. Lo sa bene Mosè che non vuole avere un’altra nazione (così gli promette Dio di fronte al peccato del popolo), ma vuole salvare le persone che ha fatto uscire dall’Egitto: non si tratta di un bene che si può sostituire (una pecora non vale l’altra, una moneta non vale l’altra e – in questo caso l’immagine è molto più efficace – un figlio non vale l’altro). Mosè (nella prima lettura che racconta gli eventi relativi all’episodio del vitello d’oro) conosce il cuore di Dio, la preghiera di lui è un dire a voce alta ciò che Dio vuole, un ricordare a sé e a lui il suo sentire.
A volte ci si perde lontani da ciò che parla di Dio, si abbandona l’ovile e la casa, altre volte ci si perde immersi nelle cose di Dio, dentro casa cioè, come la moneta e il figlio più grande che è smarrito quanto il piccolo poiché non conosce il padre. Ma comunque ci si perda, quando si viene cercati e ritrovati, la persona ha la possibilità di ricominciare a vivere. Non sarà più come prima, la memoria di quanto accaduto le ricorderà sempre la propria miseria e la propria piccolezza, ma questa diventerà la sua forza, perché avrà toccato con mano e potrà testimoniare (come leggiamo in questo brano della prima lettera a Timoteo) che davvero Dio è venuto per salvare, per liberare, per far vivere.
La pecora, forse malconcia, in mezzo alle altre testimonia che il pastore non è uno che tiene conto dei numeri ma dei piccoli, la moneta impolverata e graffiata testimonia che anche ciò che sembra sciupato è prezioso agli occhi di Dio, il figlio più piccolo testimonia che anche distruggere il patrimonio del Padre non è sufficiente per smettere di essere figli. Il fratello maggiore dovrà decidere invece se avere un fratello vivo vale la metà del suo patrimonio, perché ora che il patrimonio è dimezzato, alla morte del padre verrà di nuovo ridiviso e a lui toccherà la metà di quanto poteva avere.
Quanto vale un fratello? Quanto valgono gli altri? Quanto valgono i poveri? Quanto i nostri figli? Lo scopriamo da quanta gioia abbiamo nel dividere ciò che possediamo purché vivano. Se siamo disposti a mettere risorse umane, tempo e soldi per alleviare le sofferenze e soccorrere i poveri, se siamo disposti a impoverirci e difendere l’ambiente perché anche i nostri figli possano vivere.
Dio non vuole che nessuno di questi piccoli si perda, perché altrimenti nessuno avrà la pienezza della vita. E noi, che forse siamo nella casa del Padre e lavoriamo con diligenza, siamo incantati dal suo cuore che ci chiede di ridividere le possibilità di vita anche con chi era perduto? Che non ci accada di stare vicino a lui e di pensare che, in fondo, è meglio (o che non ci importa) se alcuni si perdono perché così possiamo tenere per noi tutto quello che resta: beni, idee, possibilità, vita.
Sarebbe un grande inganno, perché nel mondo che Dio ha fatto sorgere, in un mondo che nasce dall’Amore, la vita è sempre e solo condivisa: nessuno si può perdere perché siamo ciascuno per gli altri e viviamo ciascuno con gli altri. Se uno si perde, tutto si perde.
31 - Ago - 2019

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Di solito quando siamo invitati a pranzo e arriviamo al luogo dell’invito ci dedichiamo a salutare e a parlare, magari ci guardiamo intorno e aspettiamo che ci dicano dove sederci e come si procede. Anche Gesù fa tutto questo, ma nel guardarsi intorno nota il comportamento degli altri invitati e questo gli ispira due parabole. Entrambe queste parabole riguardano la ricerca di posizioni di prestigio: la prima prende in considerazione la situazione di quando si è invitati, la seconda di quando si invita qualcuno, ma in entrambi i casi la scelta è fra ciò che ci esalta (i primi posti nella prima parabola, invitati importanti di cui vantarsi e da cui ricevere il contraccambio nella seconda) e ciò che invece è umile, anzi ciò che umilia.

Gesù mette così a confronto due logiche diverse: quella umana largamente diffusa (cercare i primi posti e vantarsi di contatti importanti) e quella del Regno (nel quale entrano quelli che si umiliano e che scelgono per compagnia persone che non hanno alcuna ricchezza e potere). Nel Vangelo di Luca molte volte compaiono questi rovesciamenti, come bene fa vedere il Magnificat: i ricchi impoveriscono, gli affamati sono pieni di beni, i potenti sono abbassati, gli umili innalzati. Quale è la logica di questo rovesciamento però? Perché il Regno è accessibile a chi sceglie gli ultimi posti e si fa compagno degli ultimi?
Il punto è che la posizione che noi scegliamo di occupare ci dà una prospettiva sul tutto quello che guardiamo e quindi determina ciò che comprendiamo e le scelte che facciamo. I posti a teatro non costano tutti allo stesso modo, perché non in ogni posto si vede allo stesso modo. Il mio figlio più piccolo si sente molto basso di fronte ai suoi fratelli, ma nella sua classe si sente alto e così sa che sta crescendo bene anche quando è vicino al suo altissimo fratello maggiore. La posizione in cui ci mettiamo decide la prospettiva sulla realtà e su di noi.
Che cosa vede chi occupa i primi posti e cerca la compagnia dei “primi”? Guarda tutti dall’alto, si sente migliore e in questo modo finisce per provare  disprezzo per quelli che incontra, fino ad arrivare all’odio. Rimane solo, perché sulla vetta può stare solo uno. E se ci fosse qualcuno più sopra o di fianco sarebbe un nemico: se ciò che ci spinge è cercare di essere il primo, lui va ricacciato indietro e questo perché ci si crede più meritevoli, migliori. Subentra cioè la superbia e l’orgoglio, che conducono alla ricerca di una grandiosità che può persino fare paura (come prova a descrivere la prima parte del brano della lettera agli Ebrei). Gli altri, come nella seconda parabola, al massimo servono per sentirsi prestigiosi, per onorare il proprio primeggiare e niente di più. Cercando i primi posti non rimane nessuno spazio per il prossimo né per Dio e così non c’è nessuna festa.
Che cosa vede invece chi occupa gli ultimi posti e cerca la compagnia degli “ultimi”?
Questi hanno la prospettiva opposta, guardano tutti dal basso e così gli altri appaiono ai loro occhi degni di stima, desiderabili, amabili. Nel cuore sorge il desiderio, l’amore, l’amicizia. Mai l’altro è un rivale, ma un dono per arricchirsi, qualcosa di prezioso da custodire. Pur di stare insieme a lui siamo disposti a non avere altri vantaggi, ad occupare anche uno scampolo di sedia, perché non ci importa l’onore che riceviamo ma la compagnia dell’altro. Lo sa bene chi è innamorato, i genitori che non vedono i figli da tanto tempo, o chi ha perduto un amico prezioso: vederlo anche solo qualche minuto vale più di tutto. Da questa posizione si può aprire il cuore alla parola che Dio dice, perché non sorge l’orgoglio a chiuderci le orecchie: si ascolta e così si possono riconoscere le opere di Dio che solo la sua Parola ci può far vedere (per questo il libro del Siracide ci dice che l’umile glorifica Dio, perché solo l’umile ascolta la Parola che insegna a riconoscere la logica di Dio in azione).
Chi è in questa posizione si prepara ad una grande festa. Non per niente Gesù usa l’immagine del banchetto per parlare del Regno: un’adunanza festosa che vede raccolti intorno al Signore i suoi primogeniti (come leggiamo nel brano della lettera agli Ebrei). Questa è la festa di chi ha saputo scegliere la posizione migliore per guardare gli altri e il mondo, una posizione nella quale avremo la gioia di vederlo venire fino a noi e sentirlo dire: Amico vieni più avanti…e noi andremo, ma solo dopo esserci assicurati che questo non ci faccia lasciare indietro nessuno.
24 - Ago - 2019

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Sono pochi quelli che si salvano? Forse questa domanda che un tale fa a Gesù lungo la strada sottintendeva la ricerca di una rassicurazione, perché se quelli che si salvano sono pochi le possibilità di essere fra questi diminuiscono. Questa voce intimorita dovrebbe sorgere in ciascun credente, perché è indice del fatto che ci siamo resi conto di quanto la salvezza sia decisiva per la realizzazione della nostra esistenza e di quanto non si possa aspettare che essa ci accada senza fare nulla. Salvarsi dovrebbe essere ciò per cui ci sforziamo, come l’immagine della porta stretta e piccola dice bene: c’è un’apertura, si può passare, ma per farlo occorre pigiarsi, spingere, graffiarsi, depositare tutto ciò che ci portiamo addosso e che ci ingombra. La via della salvezza non è l’autostrada larga sulla quale si guida senza nemmeno pensare, lasciando magari che i moderni sistemi di assistenza alla guida regolino velocità e distanze, la via della salvezza è invece un’affascinante e tortuoso percorso montano, per stare sul quale bisogna mettere tutto il nostro impegno certi del valore della meta e allo stesso tempo catturati dalla bellezza dei paesaggi che ci offrono davanti.

La salvezza consiste nel Regno, cioè nell’amore, nella pace, nella giustizia, nella condivisione, nella pienezza della vita: è qualcosa cui di cui si può fare esperienza fin d’ora e proprio questa esperienza ci fa sperare in un destino di vita piena, anche di fronte alla morte. A tutto questo però, seppure donato con generosa liberalità da Dio, non si giunge senza l’impegno della strada e senza riconoscere il privilegio di camminare su una strada così impegnativa.

Quelli che ricevono la parola che salva, ma non la onorano con la fatica che chiede, da primi diventano ultimi, perché si distraggono con ciò che è facile e finiscono per imboccare altre vie solo perché sono larghe. Queste vie, a volte, sono ammantate di religiosità, per cui in nome di Dio ci si dedica a tutt’altro da quello che Dio ama e chiede: si può partecipare alla vita della chiesa, accalorarsi per alcuni dei “valori” che riteniamo cristiani, promuovere attività ecclesiali e persino essere ministri o persone impegnate nella chiesa evitando la porta stretta e cercando nella fede la comodità delle moderne autostrade, al punto che nemmeno ci si accorge più di camminare.

Se si fa così, da primi si finisce ultimi. Gli ultimi invece, come Israele considerava i pagani, diventano primi, perché quando sentono l’annuncio della parola del Signore si mettono in viaggio con ogni mezzo – nella prima lettura ci viene descritta una carovana variegata e numerosa – per arrivare al monte santo di Gerusalemme, immagine privilegiata della salvezza che Dio prepara. Tutte le genti lodano Dio, tutte le genti lo ascoltano, da tutte le genti sorgono fratelli. Israele disprezzava i pagani, eppure essi – considerati come vasi colmi dell’ira di Dio perché lontani da lui – diventano vasi puri che portano l’offerta nel tempio. Erano ultimi e diventano primi, perché riconoscono il dono straordinario della salvezza e per essa si mettono in viaggio. Quanti di quelli che oggi disprezziamo come lontani da Dio ci passano avanti?

Se il cammino è impervio, è facile che porti con sé sofferenze e paure, che però non devono farci pensare di essere sulla strada sbagliata, perché il Signore non ci ha indicato gli itinerari più comodi. Le sofferenze non contraddicono la validità del cammino della salvezza, quindi, e per questo l’autore della lettera agli Ebrei ci suggerisce di pensare ad esse come a delle correzioni, non qualcosa che ci fa del male, ma che ci rende migliori. Tutto ciò non significa che Dio ci manda delle sofferenze per farci imparare qualcosa, ma che persino le sofferenze, alla luce del Vangelo e per l’azione vivificante dello Spirito, diventano un luogo per scoprirsi amati, per crescere e per vivere. In ogni momento infatti è all’opera con noi e per noi il Dio della salvezza, perché forte è il suo amore per noi e la sua fedeltà dura per sempre.

Coraggio allora, rinfranchiamo le mani inerti e le ginocchia fiacche perché dobbiamo camminare per sentieri impegnativi e spingerci con gioia dentro una porta piccola oltre la quale è già cominciata la festa della vita.

17 - Ago - 2019

XX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel Vangelo di oggi, che riprende pochi versetti più avanti il capitolo dodicesimo di Luca che stiamo leggendo da qualche domenica e che contiene una serie di insegnamenti per i discepoli, ascoltiamo una parola che sulle labbra di Gesù non ci aspetteremmo mai, perché parla di divisione. Gesù pone una domanda: pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra? Noi risponderemmo sì o almeno vorremmo rispondere di sì e invece lui dichiara che proprio per ciò che lui porta tutti si divideranno: non conteranno più nemmeno i legami familiari, il Vangelo sarà motivo di divisione comunque.

Si tratta di una parola inquietante, che continua l’insegnamento sulla fede che abbiamo già visto nelle domeniche passate. La fede, infatti, determina una tale ridefinizione della persona che chi diventa credente è immediatamente individuabile e si distingue dagli altri, non certo perché li disprezzi o se ne separi (al contrario), ma perché ciò che lo guida è il Vangelo, l’amore di Dio e del prossimo e niente altro. Le logiche usuali – relazioni familiari, interessi economici, benessere fisico, influenze politiche, sociali o quant’altro – non sono più criteri di riferimento, al contrario tutto viene ridefinito alla luce del Vangelo che diventa l’unico criterio da seguire e questo fa una differenza decisiva.

Ora, la differenza può arrivare a dividere o persino portare guerra o persecuzione come accade a Geremia nella prima lettura. Geremia non può dire ciò che fa contento il popolo e i capi, perché è spinto solo dal desiderio di servire Dio e la sua parola, ma questo gli costa la libertà e mette a rischio la sua vita, fino a che Dio, tramite un uomo, lo libera. Se Geremia avesse agito spinto dall’istinto di preservarsi o dalla volontà di farsi accettare e onorare dal popolo, non sarebbe stato separato dagli altri e imprigionato, ma il fuoco che lo abita – quel fuoco che Gesù desidera vedere acceso – gli impedisce di comportarsi in modo da tutelare se stesso, brucia invece dal desiderio di dire e vivere la parola di Dio. Al capitolo 20 del libro di Geremia così viene descritto l’animo del profeta: “La parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”(Ger 20,8-9). Questo fuoco, l’amore di Dio in noi che ci spinge, non può essere trattenuto e stravolge tutte le logiche umane che ripongono speranze e cercano vita altrove.
Come si fa a vivere tutto questo, quando vediamo che concretamente ci danneggia? Se vivere la fede ci dovesse impoverire, togliere tempo per il riposo e per la salute, oppure farci perdere occasioni sociali o affetti? Quando la lotta si fa dura, quando sentiamo la fatica della vita e anche del nostro peccato che ci fa scoraggiare di fronte all’impresa (perché ci dice che non siamo in grado di vivere il Vangelo e che quindi non è per noi), possiamo ricordare, come leggiamo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, che non siamo soli in questa impresa, perché intorno a noi c’è un popolo di testimoni, molti che hanno vissuto spinti solo dall’amore di Dio e del prossimo, molti che ci confermano che è possibile e che questo porta alla vita. Non corriamo soli dunque, ma siamo trascinati da una folla e in questa situazione è più difficile stare fermi che camminare. Inoltre abbiamo davanti agli occhi Gesù, su cui tenere fisso lo sguardo. La sua vicenda, come quella di Geremia nella cisterna, ci dice che Dio libera e salva e che la fatica che ci minaccia non può danneggiarci.
Si tratta allora di lasciarsi prendere dall’amore del Padre, per  vivere, come Gesù, totalmente consegnati ad esso. E se questo dovesse costarci molto o ci toccasse resistere fino al sangue, non ci scoraggeremo: quelli cui dobbiamo mostrare l’amore del Padre ci interessano di più, per cui lasceremo ardere il fuoco che il Vangelo ci ha acceso dentro e questo ci condurrà alla vita.
13 - Ago - 2019

Festa di Maria Assunta in cielo

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Festa di Maria Assunta in Cielo

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Uno degli errori più comuni che facciamo nelle feste mariane è pensare che ciò che celebriamo non ci riguardi: ammiriamo ciò che è accaduto a Maria, ma non pensiamo ci riguardi perché noi viviamo tutta un’altra storia da quella di lei. Guardiamo così a Maria come si guarda ad una diva del cinema con cui poco abbiamo da spartire: rischiamo persino di sentirla distante. Ogni festa mariana, invece, anche questa, celebra il mistero della salvezza che Dio compie in noi come in lei: benedetta fra le donne (e fra gli uomini), non benedetta lei sola.
Il Vangelo bellissimo – e troppo ricco di particolari per essere commentato adeguatamente – vede questa ragazzina incinta ergersi come profetessa e cantare la venuta di Dio, capace di rovesciare le sorti del mondo. Quelli che vengono sempre schiacciati verranno alzati e quelli che si innalzano verranno abbassati, così che tutti potranno guardarsi negli occhi e vivere da fratelli e sorelle; chi non mangia sarà saziato e i ricchi avranno le mani vuote, perché dopo aver mangiato non terranno per sé ma condivideranno, sconfiggendo così la fame e la miseria.
Maria profetizza il rovesciamento di quel destino che riteniamo ineluttabile, perché in fondo pensiamo che la sofferenza e l’ingiustizia siano ineliminabili. Questa profezia ora espressa nelle sue parole poi sarà scritta alla fine della sua vita sul corpo di lei, nel quale sarà evidente il rovesciamento del più ineluttabile dei destini: la morte. Infatti Maria, concluso il suo cammino terreno, entra nella vita di Dio senza che la morte sia per lei quel dramma che tutti conosciamo troppo bene. Sappiamo così che la morte non è irrimediabile (nemmeno è necessaria perché forse Maria non è neppure morta ma è passata da un vita all’altra) e che il destino ineluttabile che ci attende è la resurrezione, perché – come leggiamo nella prima lettera ai Corinzi – se tutti muoiono in Adamo (cioè tutti quelli che vivono la condizione umana muoiono), tutti riceveranno la vita in Cristo. La sorte di tutti viene rovesciata: non siamo destinati alla morte, ma alla vita. Tutto questo accade prima a Cristo, poi a quelli che sono di Cristo, ma fra questi accade per prima a Maria, perché lei è “la prima e la più perfetta discepola di Cristo”(Paolo VI).
Le accade ciò che è accaduto a Cristo e che accadrà a noi. Ci aspetta come una sorella maggiore. Aspetta noi che siamo ancora nel travaglio del parto, immagine con la quale la prima lettura tratta dall’Apocalisse descrive la lotta che la chiesa vive nella storia. Maria ha lottato contro il male e ha vinto persino la morte, forte della vicinanza di Dio. La chiesa invece ancora soffre nel travaglio, ma sa che la vittoria è certa. Lo sa in Cristo e lo contempla in Maria, la prima dei credenti in cui la salvezza di Dio si compie.
Mentre travagliamo allora, possiamo alzare gli occhi su questa sorella che ha già attraversato quanto ancora ci spaventa: lei è la prova che Dio è più forte della morte. Quando le donne non partorivano in ospedale (e ancora oggi nei tanti luoghi del mondo dove non c’è assistenza medica al parto), si affiancavano ad esse in questo momento terribile, che troppo spesso portava alla morte, altre donne esperte, donne che avevano partorito e avevano fatto partorire. In questo modo ogni volta che una donna in travaglio pensava di aver perso, di non riuscire più ad andare avanti, di non avere le forze, la presenza di quelle che avevano già vinto questa lotta la sosteneva, le ricordava che poteva vincere. Esse erano l’anticipo dell’esultanza finale, la prova che la morte non vincerà, anche quando nemmeno il fiato non esce più: loro sanno cosa succede dopo, sanno che questi dolori non sono l’ultima parola. Sono donne che incoraggiano le altre a fare la loro parte, non si possono sostituire a loro, ma possono dare la speranza che serve per non lasciarsi sconfiggere. Così fa Maria con ciascuno e con la chiesa intera: si fa prossima, ostetrica coraggiosa nel nostro travaglio, per ricordarci che siamo per la strada giusta, per spingerci a fare la nostra parte con coraggio, per annunciarci che stiamo solo aspettando che Dio metta tutti i nemici sotto i suoi piedi.
Questa è la festa della prima delle discepole che gode di questa vittoria, la prima di una grande schiera: la nostra.
03 - Ago - 2019

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

C’è un modo saggio e un modo stolto di vivere. In entrambi i casi quello che le persone cercano, ciò che ciascuno di noi cerca, è avere vita in abbondanza, la differenza sta però in ciò che scegliamo come fonte di vita. La saggezza sta proprio nel saper distinguere ciò che dona la vita da ciò che la promette solamente o che la dona in modo del tutto provvisorio e ingannevole. Nel libro del Qoelet tutte le cose “sotto il sole” vengono descritte come vane e dichiarate come inconsistenti. Per quanto belle e gradevoli, sono come un soffio, qualcosa che non dura, su cui non si può costruire in modo solido. “Sotto il sole”, ripete Qoelet, tutto è vano, niente procura vita davvero. Non è sotto il sole che si deve cercare, quindi, ma nei cieli, come invita a fare la lettera ai Colossesi. Non nel senso di estraniarsi dalla realtà per rifugiarsi in chissà quale spiritualismo alienante, ma nel senso di guardare le cose della terra dalla giusta prospettiva, con la sapienza che ci viene dalla fede (una prospettiva dall’alto perché guarda il mondo a partire dalla consapevolezza dell’amore di Dio) e che ci fa riconoscere che cosa ci dà vita. L’uomo nuovo, il credente, non si fa ingannare dalla cupidigia che arraffando e violando pensa di salvarsi dalla morte, ma rinnova la propria mente e si riveste della novità del Vangelo che riconosce solo nell’Amore del Padre la fonte di ogni vita.

È saggio dunque chi pensa che questo amore sia il tesoro da accumulare: non soldi o beni che non durano né garantiscono la vita piena, ma l’amore del Padre. Questo tesoro di amore si accumula condividendo ogni bene che si possieda, vivendo non per sé, ma per chi si ama, proprio come fa Dio. Chi ha questa saggezza non si lascia ingannare nel perdere tempo, progetti ed energie per ciò che non dura, darà ad ogni cosa il giusto valore e il giusto peso, riconoscendo spessore e consistenza solo all’Amore del Padre e del prossimo. Solo questo porteremo sempre con noi, in questa vita e nell’altra.
Da questa prospettiva potremo dare il giusto peso ad ogni bene, non riponendo in esso le nostre speranze, quanto piuttosto vedendolo come uno strumento utile a favorire la vita nostra e di tutti. Non riporremo così speranze in ciò che non può salvare, saremo saggi e vedremo Dio rendere solido il nostro cammino qualunque cosa accada. A lui ci rivolgiamo con le parole del salmista:
“Saziaci al mattino con il tuo amore, esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Dio, rinsalda l’opera delle nostre mani”.
27 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVII T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un d

Ad una precisa richiesta dei discepoli, che possiamo indubbiamente fare nostra, Gesù insegna che cosa significhi pregare. L’inizio dell’insegnamento (l’invocazione “Padre”) e la fine (il detto sui genitori che, anche se cattivi, danno cose buone ai figli) racchiudono come in una cornice preziosissima il senso della preghiera cristiana, che consiste nel porsi davanti a Dio come si pongono i figli di fronte ai genitori. Siamo davanti a Dio consapevoli che lui è il Padre/Madre buono, che sempre ci ascolta e sempre vuole farci vivere. Non dobbiamo convincerlo a farci il bene, non dobbiamo insegnargli cosa darci, non dobbiamo ingraziarcelo o averne paura: è il Padre buono. Questa certezza incrollabile nell’amore di lui viene resa dal racconto sull’amico importuno che bussa di notte alla casa dell’altro: non si sarebbero alzati tutti, si alza solo l’amico che tiene davvero all’altro…l’insistenza funziona solo con chi ha il cuore aperto e Dio ha il cuore e l’orecchio teso verso di noi, tanto che non può resistere alle nostre insistenze.

Da qui l’atteggiamento caratterizzante la preghiera cristiana e fondato proprio sulla certezza di essere figli amati: la fiducia. Possiamo chiedere, bussare, cercare, perché dall’altra parte c’è il Padre buono. Ma di fronte a questo Padre e pieni di fiducia, che cosa dobbiamo chiedere? La preghiera del Padre nostro e la chiusa del Vangelo di questa domenica “il Padre darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono” si illuminano a vicenda e ci spiegano che qualunque cosa noi chiediamo (e come i figli siamo legittimati a chiedere tutto) riceveremo un dono più grande: lo Spirito. Infatti, di fronte a tutte le nostre domande, grida, sofferenze, paure, desideri, gioie e speranze, di fronte a tutto quello che viviamo e che mettiamo – o dovremmo mettere – davanti a Dio (in fondo la preghiera consiste nel mettere la propria interiorità e il proprio vissuto al cospetto di Dio in ogni momento), di fronte a tutto questo – qualunque sia la nostra richiesta e il nostro bisogno – Dio dona lo Spirito santo. Non risolve le questioni, non cancella le malattie o la morte, non procura il cibo né fornisce facili soluzioni: Dio non è il grande mago che manda ad alcuni il bene e ad alcuni il male. Dona, invece, in ogni situazione lo Spirito, perché si affermi sempre la vita. Viene cioè a vivere con noi tutto ciò che ci capita, donandoci il suo Amore. Questo Amore ci fa vivere in modo che il nome di Dio sia riconosciuto come santo (questo modo di vivere chiediamo dicendo “sia santificato il tuo nome”), ci fa lavorare in modo che il Regno si realizzi (chiediamo che la nostra vita diventi un germe del Regno quindi quando invochiamo il Regno), ci dà la possibilità di saziarci ogni giorno di quello che basta (chiediamo cioè di avere quello che ci serve per vivere e nulla più), ci fa scoprire perdonati e capaci di perdono (chiediamo dunque a Dio che lui giudichi tutti e doni a noi la capacità che ha lui di dimenticare il male fatto da noi e da altri) e non ci fa soccombere di fronte ad una prova troppo grande. Nel Padre nostro, in una parola, noi chiediamo lo Spirito, che ci permette di vivere non come i bambini a cui i genitori aggiustano tutto, ma come figli adulti e responsabili, spinti dall’Amore del Padre e decisi a scegliere la vita per sé e per tutti, fiduciosi che questo Spirito effuso conduca infallibilmente il mondo al Regno.
Questa è la logica della preghiera che spinge Abramo a voler salvare Sodoma e Gomorra ed è la logica che Dio condivide: amare e far vivere. Potrebbe sembrare persino ingiusto che per pochi si salvino molti malfattori, ma non è così perché la giustizia per Dio consiste nel dare continuamente nuove possibilità di vita. Non è giusto restituire a ciascuno il male fatto, ma dare a ciascuno la possibilità di vivere e far vivere. Così è stato anche per noi, ci ricorda la lettera ai Colossesi, perché anche noi eravamo morti a causa delle colpe (che lo sapessimo o meno poco conta), ma Dio ha annullato ogni documento scritto contro di noi per farci rivivere. Davanti a questo Dio della vita possiamo porci come figli fiduciosi e responsabili, perché su qualsiasi cosa ci capiti o ci passi nel cuore lui riversi il suo Spirito e questo ci spinga ad amare e dare la vita, finendo così per assomigliargli: tale Padre, tali figli e figlie.