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20 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVI T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un dovere sacro, qualcosa cui non è possibile sottrarsi. L’immagine di Abramo affaccendato per accogliere gli ospiti a Mamre, pronto a preparare il cibo e a chiedere a Sara di fare altrettanto, volendo coinvolgersi di persona e non delegando ai servi il lavoro, dice come fosse considerata l’ospitalità: non si tratta di essere gentili o di fare bella figura offrendo qualcosa di buono, si tratta di un’urgenza cui si deve rispondere in prima persona con tutto l’impegno possibile. Perché? Chi è straniero ha perduto il proprio orizzonte, non conosce i luoghi, non conosce la lingua, non sa come procurarsi sostentamento e riparo, per quanto possa essere forte e capace è diventato debolissimo, perché ha perduto ogni punto di riferimento culturale, economico, affettivo, esistenziale. Non si può fare a meno di prendersi cura di persone in queste condizioni, perché in chi li accoglie trovino un primo punto di riferimento per cominciare a ricostruire il proprio orizzonte, per poter essere se stessi, per poter vivere.
Non ci si può sottrarre a questo dovere perché l’ospite porta impressa l’immagine di ciascuno di noi: ciascuno di noi privato della sua lingua, della sua casa, dei luoghi che conosce, del lavoro che può fare, dei diritti di cittadinanza, sarebbe perduto. L’ospite ci ricorda quindi che senza gli altri siamo perduti: nessuno può procurarsi vita isolatamente o perseguendo meschini interessi di parte, siamo vivi solo se ci stringiamo gli uni agli altri.
Diventando punto di riferimento dello straniero, accogliendolo, stringendosi a lui, condividendo con lui le risorse, servendolo, Abramo riceve un dono: una parola, uno sguardo che lui e Sara non potevano avere, qualcosa che può vedere solo chi viene da fuori e non ha gli occhi velati dall’abitudine o da ciò che è sempre stato così. L’ospite può annunciare la nascita di un figlio a dei vecchi che forse non ci speravano più: uno sguardo diverso può ringiovanire tutto ciò che pensavamo avesse fatto il suo corso. Vale per Abramo, vale per ciascuno di noi, vale per le famiglie che accolgono figli, vale per le società che sanno accogliere i poveri e gli stranieri.
L’ospite privo di ogni riferimento, senza luogo e senza nulla perdere, è libero di vedere la novità possibile in una situazione che per noi è chiusa e sterile. Anche Gesù si comporta così: alle sorelle che chiama per nome, perché è loro amico, e che lo hanno ospitato, dona una parola nuova, uno sguardo altro che solo lui, che ha scelto di non avere un posto dove posare il capo, poteva avere. In modo particolare insegna alle sue amiche che è più importante farsi discepole, ascoltando la parola, che occuparsi delle faccende domestiche, per quanto sacre perché rivolte all’accoglienza dell’ospite. Sta dicendo a delle donne, in sintesi, che ciò che conta di più per loro non è far funzionare la casa (faccende e cura dei bambini), ma ascoltare la parola di Dio. Nessun capofamiglia avrebbe potuto dire questo perché sarebbe stato sconveniente per la gestione della propria casa e neppure alcuna donna cui non avessero dato alternativa, perché il ruolo di gestione della casa dava loro identità e importanza. Solo un ospite, uno straniero, uno senza casa, può dire questa parola nuova.
E questa parola viene portata a compimento dall’annuncio e dalla testimonianza della chiesa, nella vita della quale si manifesta il mistero nascosto dai secoli. Il ministero di questa parola ora è affidato noi, al punto che che il mondo può scoprire di essere stato visitato da Dio solo se gli lasciamo vedere Cristo in noi. Sediamoci dunque ai piedi del maestro, amico e ospite, per ascoltare ciò che di nuovo la Parola ci può insegnare, lasciandoci istruire con ogni sapienza per diventare perfetti in Cristo e testimoniarlo così ad ogni essere umano.
Magari ai piedi del maestro scopriremo che ciò per cui ci affanniamo (difendere i nostri interessi? avere qualche garanzia economica? far funzionare la nostra famiglia? stare in salute? farci valere?) non è la parte migliore e avremo la possibilità di scegliere una vita nuova, costruita sul Vangelo che non ci verrà tolto.

13 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XV T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La legge, come giustamente risponde questo dottore che voleva mettere alla prova Gesù, ha il proprio culmine nell’amore di Dio e del prossimo, che sono solo due diversi lati della stessa medaglia. Per spiegare però che cosa significhi farsi prossimo di qualcuno, Gesù racconta la parabola del buon samaritano,  nella quale si comprende che prossimo è chi è capace di ascoltare il grido del fratello, colui che si fa commuovere dal suo bisogno. Gesù nel racconto usa un verbo che noi traduciamo con “ebbe compassione”, ma che nella lingua originale significa: senti contrarsi le viscere. Si tratta di un verbo che indica quella pena e quella tenerezza che ci prendono la pancia, che fanno stare male, che ci impediscono di passare oltre: è la sensazione che provano i genitori per i loro piccoli che soffrono e che provano tutti coloro che si portano dentro qualcuno, la cui sofferenza ci diventa intollerabile. Il buon samaritano non va oltre il ferito non perché è un santo o un eroe, né perché ha paura di Dio, non va oltre perché non può farlo: il dolore che sente dentro, la compassione, non gli permette di abbandonarlo.
La compassione ci fa sentire dentro il dolore dell’altro, che diventa il nostro dolore, per cui ci chiniamo su di lui non per fare beneficenza o dare prova della nostra magnanimità, ma perché abbiamo bisogno di alleviare il suo dolore per alleviare il nostro.
Gesù aveva provato questo sentimento di fronte alla vedova di Nain che aveva perso l’unico figlio. Solo in quel momento il Vangelo di Luca (siamo al capitolo sette) usa per Gesù questo verbo che indica la contrazione delle viscere: di fronte alla madre vedova disperata per la morte del suo bambino, di fronte alle viscere contratte di lei in un dolore intollerabile, Gesù prova compassione, sente cioè le proprie viscere maschili contrarsi come quelle materne, sente la stessa pena di lei e non può che fermarsi per ridare la vita al ragazzo perché altrimenti vivere non sarebbe stato più tollerabile.
Questa compassione, che ci fa sentire dentro la sofferenza dell’altro come fosse nostra, è quella che prova Dio per i suoi figli, per questo Gesù la vive e per questo ci chiede di fare altrettanto. In questo modo, chinandoci su chi ha bisogno, ci convertiremo a Dio, perché allevieremo le sofferenze di quelli che lui si porta dentro e per i quali ha compassione. Chinandoci sul prossimo, ci chiniamo quindi su Dio, ci volgiamo a lui: ci convertiamo a lui. Questo comandamento non è difficile, è vicino a noi come vicini a noi sono tutti coloro che Dio ama e hanno bisogno. Vivendo in ascolto del loro grido, rendiamo presente nella storia l’amore del Padre, così come ha fatto Gesù che ne è la perfetta immagine e che ora ha nei suoi che lo amano un corpo capace di commuoversi e di farsi prossimo di tutti quelli che incontra lungo la strada.
06 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XIV T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Fra tutte le buone notizie che possiamo ascoltare, ce n’è una sola che è capace di trasformare il lutto in gioia e di consolare da ogni sofferenza. Una sola buona notizia dona una pace piena, come quella che conoscono i piccoli quando passano dal pianto disperato al seno della mamma che con il latte fa succhiare sicurezza, riparo, affetto. Chi ha visto un neonato passare dal pianto disperato e inconsolabile alla più totale serenità solo per essersi attaccato al seno materno, sa di cosa è capace la buona notizia del Vangelo.

Il pianto diventa pace, il lutto gioia, il mare terraferma. Queste sono le opere terribili di Dio che il salmo ci invita a glorificare e riconoscere: credendo in Gesù e facendo nostra la sua vita veniamo liberati da tutto ciò che ci minaccia. Questo ha sperimentato Paolo che, nel breve brano della lettera ai Galati di questa domenica, testimonia come non ci sia più nulla che conti davvero se non essere nuova creatura e cioè essere stati rigenerati dalla buona notizia del Vangelo: il mondo può anche essere crocifisso, perché promette felicità e vita senza darne davvero, ma noi ci vantiamo solo della croce di Gesù, il cuore del racconto del Vangelo che ci mostra come Dio trasformi la morte in vita.
Poiché però gli uomini e le donne soffrono molto, nessun cristiano può tenere per sé questa gioia. Invece, come i discepoli inviati da Gesù, deve andare ovunque annunciando la pace e la vicinanza di Dio, guarendo chi soffre con la consolazione che viene dal Vangelo, che una volta accolto sottomette il male rendendolo innocuo. Non esiste una buona notizia come questa, capace di placare il pianto disperato, di saziare e spegnere la sete, capace di lenire il dolore e far scoprire l’intensità dell’amore e della vita. Solo il Vangelo può questo e ascoltandolo: “voi sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati” e il nome che vi verrà mormorato con tenerezza non risuonerà solo sulla terra, ma sarà scritto nei cieli.
29 - Giu - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XIII T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

 Il Vangelo di Luca è segnato in modo netto dalla decisione di Gesù di andare a Gerusalemme. Dal momento in cui Gesù decide di fare questo viaggio infatti, il racconto viene ambientato tutto sulla strada, che diventa una lunghissima immagine della vita credente: essere cristiani è camminare con Gesù verso la sua Pasqua. Lungo il cammino, quello raccontato dal Vangelo e il nostro, si fanno incontri, si dicono parole, accadono eventi. Un addestramento per poter arrivare anche noi a consegnare la nostra vita per amore, come ha fatto Gesù alla fine del proprio cammino.
Per poter fare questo Gesù ci invita a staccarsi da ciò che ci fa sentire al sicuro: il padre da seppellire, come i cari da salutare rappresentano le sicurezze e le relazioni che ci danno identità. Il discepolo deve ricevere la propria identità dalla relazione con Cristo, quindi tutto ciò che sentiamo di essere va rivisitato. Accade come quando ci si innamora: tutto ciò che viviamo cambia significato, ordine di importanza, modalità. Siamo sempre noi stessi, ma il nostro mondo viene riorganizzato. Allo stesso modo Gesù non ci invita ad una disumana dimenticanza di chi amiamo, ma ad accettare che tutta la nostra vita, comprese le relazioni fondamentali, i mezzi di sussistenza, la salute, il lavoro, il ruolo ecclesiale, tutto, prenda senso solo dal nostro seguire Gesù.
Tutto ciò che siamo e facciamo, come anche la nostra storia, viene posto sotto una nuova luce, l’amore del Padre, che diventa l’unico luogo in cui posare il capo e l’unico riferimento per ogni nostro bene e ogni nostro amore.

Accade a ciascun credente quanto successo ad Eliseo: mentre facciamo la nostra vita (Eliseo è in casa sua, fra i suoi familiari e fa il suo lavoro) l’incontro con il Dio vivo ci trasforma. Non tutti cambiamo attività o casa o relazioni, come accade al profeta, ma tutti cambiamo vita, perché la fede trasfigura tutto di noi, rendendoci, qualunque cosa facciamo, una profezia vivente. Magari resta tutto uguale ma niente lo è più, come quando ci si innamora, come quando nascono i figli.

Unica legge di questo cammino, che significa tutto di noi, è l’amore del prossimo, perché si può andare dietro a Gesù solo facendo come lui, amando, guarendo, beneficando, chinandosi cioè sul bene di chi ci è posto di fronte e accanto, pronti a tutto purché viva, anche ad andare decisamente verso Gerusalemme.
20 - Giu - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- Corpus Domini

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Domenica del Corpus Domini

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nella festa del Corpus Domini siamo abituati a concentrarci sul pane eucaristico, quasi come fosse un oggetto in cui Dio entra facendolo diventare speciale (con una idea che non è troppo lontana da quella del talismano)…una specie di porta aperta sul sacro che ci permetta di toccare Dio perché ci faccia del bene.
Le letture che proclamiamo in questa domenica ci chiedono un altro sguardo. La prima lettura ci parla di pane e vino offerti da Abramo ad un misterioso sacerdote, Melchisedek; la seconda lettura ci spiega che il gesto eucaristico che facciamo ad ogni messa è una memoria di quello fatto dal Signore, cioè della sua morte per noi. Per spiegare il significato della propria morte Gesù stesso nella sua ultima cena aveva scelto il gesto dello spezzare il pane e di condividere il vino, un gesto che poi i discepoli avrebbero dovuto ripetere per fare memoria di lui, ma il spezzare il pane e bere il vino sono solo l’inizio e il riposo a cui tornare, perché poi è nel dare se stessi ogni giorno che si fa memoria della morte del Signore. Il Vangelo, infine, ci ricorda uno dei racconti della moltiplicazione dei pani.
Come stanno insieme queste letture? Come ci aiutano a comprendere questa festa? Ci ricordano anzitutto che il Corpo di Cristo non sta in un una cosa, cioè nel pane, come fosse un oggetto a sé, ma il Corpo di Cristo si può vedere e toccare in un gesto che la chiesa fa quando si raduna per condividere il pane facendo memoria di Gesù, cioè facendo quello che ha fatto lui: offrire se stessi (un gesto sacerdotale che richiama la prima lettura sul misterioso Melchisedek) perché tutti possano avere la vita, perché ciascuno cioè, mettendo tutti insieme quel che abbiamo, possa essere sfamato.
Non festeggiamo un rito sacro che ci garantisce un po’ di aiuto divino legato ad un pezzo di pane, ma un memoriale, capace di rendere presente il Risorto perché lo Spirito (che invochiamo solennemente non solo sul pane ma anche sul popolo radunato) ci fa ripetere i gesti di lui: radunarsi, benedire Dio, condividere il pane e il vino (cioè tutto), offrire se stessi fino alla morte perché altri vivano. Da qui una vita abbondante, per noi e per tutti: avanzarono infatti ben 12 ceste dopo che tutti erano già sazi.