VIII Domenica T.O. anno C
VIII Domenica Tempo Ordinario
Anno C
(Sir 27,5-8 Sal 91 1Cor 15,54-58 Lc 6,39-45)
Domenica 27 Febbraio 2022
Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Il Vangelo di questa domenica, che riprende là dove si era interrotto quello di domenica scorsa, ha il sapore dei libri sapienziali, dai quali (non per niente) è tratta la prima lettura, che per lo stile e per i contenuti fa quasi da overture al Vangelo stesso. Il discorso di Gesù riportato da Luca cuce insieme una serie di temi, detti, insegnamenti brevi che si rincorrono, quasi per circondare chi ascolta di una sapienza nuova, capace di rinnovare lo sguardo e la vita.
Il primo detto è di immediata chiarezza: può un cieco guidare un altro cieco? Solo chi ci vede, chi ha la sapienza cioè, può diventare guida per chi ancora non ci vede bene. Chiunque avesse la stoltezza di essere guida per altri mentre ancora non ci vede, finirebbe solo per procurare la rovina propria e altrui. I credenti, al contrario, sanno che lo stile giusto non è quello di chi si crede superiore agli altri e depositario di verità e giustizia, ma quello umile del Signore (anche i cristiani devono sapere che nessuno è più grande del proprio maestro) che non giudica nessuno (sulla necessità di non giudicare si erano fermate le righe, lette domenica scorsa, immediatamente precedenti a queste) e quindi non dà sentenze definitive né spadroneggia sulle persone dicendo loro cosa devono fare o dove devono andare.
Se credi di vedere (continua ad ammonirci il Signore), stai attento. A volte mentre pretendiamo di aguzzare lo sguardo per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello, dall’alto delle nostre sicurezze e della nostra presunta saggezza, siamo incapaci di accorgerci che abbiamo una trave infilata nel nostro occhio, oppure ce ne accorgiamo ma, ipocritamente, ce ne disinteressiamo e dispensiamo correzioni e consigli solo per gli altri. Il problema non è avere ostacoli che ci impediscano di vedere (o di dare buoni frutti per andare all’immagine che segue subito dopo), anzi è impossibile non averne, il problema invece è non volerli riconoscere. Al contrario di questa cecità (che sceglie di non vedere il proprio peccato e la propria stoltezza) c’è la disponibilità a convertirsi, ad ascoltare, a togliere via ciò che impedisce di vedere. Solo questa disponibilità mette nelle condizioni di poter guardare anche l’altro per aiutarlo: sarà facile togliere una pagliuzza quando si è saputo togliere dal proprio occhio una trave. E, soprattutto, non sarà possibile disprezzare o giudicare chi ha bisogno di un così banale soccorso rispetto a quello di cui abbiamo avuto bisogno noi.
L’ultimo passaggio del brano evangelico parla, infine, di alberi buoni che fanno frutti buoni e alberi cattivi che fanno frutti cattivi. La bontà cioè non si misura dall’esteriorità (da come l’albero appare) ma dal sapore dei frutti. In particolare il Signore si sofferma sulle parole che escono dal cuore dell’essere umano (ma potremmo aggiungere a questo anche le azioni): le parole (e le azioni) buone sono quelle che, ascoltate, fanno bene e sostengono la vita. Queste escono solo da un cuore buono e non vanno confuse con le parole che adulano o compiacciono o non disturbano: non importa l’aspetto del frutto, importa il sapore. Se è buono. Nessuno di noi però dà solo frutti buoni (e nemmeno solo frutti cattivi!) per cui la vita intera è un cammino di conversione e di umiltà, alla ricerca della trave che giganteggia nel nostro occhio, umilmente e timidamente disposti a togliere la pagliuzza in quello degli altri, facendo memoria che non possiamo giudicare né gli altri né noi stessi, perché non siamo più grandi del nostro maestro. È un cammino continuo, mai finito. Una lotta faticosa.
Questa fatica però (prendiamo qui come spunto quanto ci dice la seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi) non è vana nel Signore. Questa certezza ci fa rimanere saldi anche davanti alla morte che ci punge tramite il peccato. Rimaniamo saldi perché morte e peccato sono stati vinti e perciò i frutti cattivi, come anche le travi che ci accecano non sono destinati a trionfare. La morte, da sempre abituata a trionfare è sconfitta.