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09 - Lug - 2021

XV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Am 7,12-15   Sal 84   Ef 1,3-14   Mc 6,7-13)
Domenica 11 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Per annunciare il Vangelo, cioè per raccontare la storia di Gesù in modo che si comprenda che in essa si rivela l’amore del Padre per ciascuno e la logica profonda dell’esistenza umana, occorre una grande libertà, che il Vangelo di questa domenica descrive come una spoliazione. I Dodici – nei quali dobbiamo comprendere ciascuno di quelli e quelle che è stato chiamato dal Signore a seguirlo, ovvero ogni credente – devono andare senza pane, né sacca per raccogliere qualsiasi cosa possa esser utile, né denaro, né una tunica di ricambio. Sandali e bastone per camminare e nessun peso, nessuna scorta, nessuna sicurezza. Chi annuncia il Vangelo deve essere libero di lasciar trasparire solo l’amore di Dio che dona vita (scacciano i demoni, cioè il male che si annida nei cuori, e guariscono dalle malattie) e per fare questo non deve avere interessi personali da proteggere (né economici né di affermazione personale né di altro genere), non deve avere nemmeno posizioni da mantenere né bisogno di influenzare gli altri con le proprie convinzioni: al contrario chi annuncia si mostra bisognoso di accoglienza (fermarsi in una casa) e pronto ad andarsene se gli altri non volessero ascoltare. Nessuna violenza, nessuna pretesa, nessuna posizione di forza: solo l’offerta di un amore indicibile, con la speranza che venga riconosciuto.

D’altra parte non sarebbe possibile predicare come credibile il Vangelo di Gesù pretendendo di essere forti, perché lui non lo ha preteso, né pretendendo di convincere tutti, perché Gesù ha scelto la via della testimonianza, trasparente e mite fino alla fine: perché il Vangelo sia credibile per chi lo ascolta, la vita e le parole degli annunciatori devono essere capaci di mostrare lo stile di Gesù, la sua stessa vita spesa per guarire e liberare con le parole e i gesti. La libertà è una condizione indispensabile per tutto questo, altrimenti di fronte alle difficoltà o ai contrasti non si sarà in grado, come Amos (prima lettura), di rispondere che ciò che si vive e si testimonia viene solo da Dio che ha operato per noi e in noi, saremo invece costretti ad ammettere che difendiamo altro dalla buona notizia del suo amore che vuole raggiungere tutti, magari difendiamo cose che sono o ci sembrano valide, ma non sono questa buona notizia, che pretende invece di essere tutta la nostra ricchezza.

Questa parola (per dirla con la seconda lettura che inizia questa domenica la lettera agli Efesini) è il Vangelo della nostra salvezza e per aver creduto in essa noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo e siamo depositari della benedizione dello Spirito e della pienezza della vita in Dio. Dal Vangelo viene la speranza di essere stati liberati da ogni colpa e colmati di ogni sapienza e intelligenza; dal Vangelo viene la certezza che ogni cosa prenda senso e culmini in Cristo. Questa sola parola dunque, avendo anche il coraggio di purificarla dagli elementi provvisori o inautentici che i secoli le hanno cucito addosso, dobbiamo servire e portare perché quante più donne e uomini possibili, tramite ciò che noi siamo e diciamo, possano accorgersi che Dio è colui che libera e guarisce, colui che ha preparato un’eredità che non esclude nessuno ma conduce tutti alla pienezza della vita.

“Non ero profeta né figlio di profeta” (così Amos), non traggo vantaggio dal profetizzare, ma annuncio lo stesso ciò che Dio mi ha detto, la parola che ha liberato me e mi conduce sulla strada: un paio di sandali, un bastone e nient’altro che la compagnia di Colui che mi/ci manda, perché sola si mostri – nella mia povertà e nel mio camminare – la bellezza del Vangelo.

10 - Lug - 2020

XV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XV Domenica T.O.(A)

(Is 55,10-11   Sal 64   Rm 8,18-23   Mt 13,1-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ascoltare e vedere, come anche comprendere ciò che vediamo e sentiamo, non è un’operazione ovvia, per cui se una cosa è davanti ai nostri occhi certamente la vedremo così come è. In effetti molto di ciò che vediamo, ascoltiamo e capiamo dipende da ciò che noi vogliamo vedere, sentire e comprendere. Le parole, ma anche la realtà che si pone davanti ai nostri occhi, non si impongono, si offrono davanti a noi e possono aprirci una comprensione nuova, ma ciò non accadrà se chi guarda non decide di vedere e chi ascolta non decide di voler sentire.

Parlare in parabole permette a Gesù di provare ad aggirare alcuni dei muri, delle precomprensioni, dei pregiudizi, che impediscono il nostro ascolto. Infatti se si fosse messo a parlare (nel caso della parabola del seminatore) della docilità all’ascolto della parola di Dio, tutti sarebbero stati pronti a dire di essere buoni ascoltatori (anche noi forse), invece parla di un seme e di diversi tipi di terreno e così, mentre ci concentriamo sulla logica del seme e delle condizioni del terreno, non poniamo in atto le difese che ci impediscono di prendere sul serio ciò che ci sta insegnando e cioè: se è vero che la parola è sempre in grado di portare il suo effetto (come ci ricorda il profeta Isaia nella prima lettura) è anche vero che questo effetto dipende dal cuore che la accoglie. E così il messaggio ci colpisce prima che possiamo trovare mille espedienti per non ascoltarlo: che terreno sei?
Nella parabola i diversi casi della crescita del seme ci portano a vedere una piantina sempre più alta, come se ogni volta potessimo sperare che sia quella buona. Se infatti il seme gettato lungo la strada viene portato via subito senza spuntare per nulla, quello gettato sul terreno sassoso spunta un po’ ma non dura, perché è senza radici. Allora guardiamo con speranza alla terza semina, quando la pianta cresce fino a che però non la vediamo soffocata dalle spine, per arrivare finalmente al seme che cresce dando frutto abbondante, anche se non sempre in egual misura. Forse il nostro cuore sperimenta tutte queste fasi e forse la parabola ci vuole insegnare che perché arrivino i frutti ci vuole la pazienza di occuparsi del terreno, perché, se il terreno è sgombro, poi il seme farà ciò per cui è stato gettato.
Magari a volte il nostro cuore è così duro che la parola non riesce ad attecchire in nessun modo, è come una strada battuta continuamente, che non lascia al seme alcuna possibilità. Altre volte si lascia fecondare, ma poi le sofferenze e le persecuzioni ci spingono a rifugiarci in altre parole e la parola seminata in noi si secca, incapace di produrre frutti. Altre volte ancora i germogli rigogliosi che nascono in noi vengono sommersi dalle preoccupazioni e dalle ricchezze, come se questi fossero piante più floride e robuste che rubano aria e nutrimento alla parola fino ad invaderci il cuore per intero. Altre volte infine la nostra è una terra buona che porta frutto abbondante, a volte trenta, a volte sessanta, a volte cento.
Ci ammonisce il Signore a vegliare sul nostro terreno, a chiederci come ascoltiamo e a che cosa facciamo spazio, ma forse ci suggerisce anche che non siamo condannati ad essere sempre la stessa terra, sappiamo cosa ci è di ostacolo per un ascolto autentico e sappiamo che la parola è efficace, possiamo dunque sempre sperare di essere un terreno buono o di diventarlo.
Le difficoltà non mancano (uccelli del cielo, sassi, spine…), ma la parola è potente e noi possiamo sempre scegliere di ascoltare. Vale per il nostro cuore quello che questa pagina straordinaria della lettera ai Romani (seconda lettura) dice per la creazione: le sofferenze (e le difficoltà) di oggi non sono paragonabili alla gloria futura. Tutta la creazione aspetta di vedere la rivelazione dei figli di Dio (i frutti che sapremo portare) e intanto soffre nel travaglio del parto attendendo la vita che sta in fondo al travaglio. Così anche noi soffriamo le doglie del parto (la fatica di rendere il nostro cuore un terreno capace di portare frutto), ma già sappiamo che ci attende l’adozione a figli, la redenzione del corpo, la pienezza della vita.
E così se è vero che la semina e la crescita sono faticose, come il travaglio è fatto di sofferenza e di paura, è vero anche che i frutti sono abbondanti e rigogliosi, come la gioia della nascita di un/a figlio/a fa dimenticare il dolore provato. E così con lo sguardo già fisso sulla messe abbondante, che Dio è capace di trarre dal nostro cuore minacciato, diciamo col salmista: tu visiti la terra e la disseti, la colmi di ricchezze. Coroni l’anno con i tuoi benefici, al tuo passaggio stilla l’abbondanza. Le valli si ammantano di messi: gridano e cantano di gioia! Questo è quello che possiamo sperare per il nostro cuore, perché la parola non ritorna a Dio senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata.