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16 - Lug - 2021

XVI Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XVI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ger 23,1-6   Sal 22   Ef 2,13-18   Mc 6,30-34)
Domenica 18 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La nostra bontà si misura sulla vita di quelli che ci sono affidati. Forse il commento delle letture di questa domenica si potrebbe chiudere anche qui, con questa sola frase. Nella prima lettura il rimprovero ai pastori – i re, i sacerdoti, tutti quelli che hanno una qualche responsabilità sugli altri – non riguarda le intenzioni del cuore o il rispetto delle regole, il rimprovero si gioca sul fatto che le pecore che erano state loro affidate non vivono, sono disperse, soffrono. Il criterio di giudizio non riguarda l’interiorità del pastore, ma il benessere delle pecore: se ciò che ci è affidato vive, allora siamo pastori secondo il cuore di Dio, che non fa mancare (ce lo ricorda il salmo) pascolo, acqua, riposo; se invece ciò che ci è affidato muore, soffre, si disperde, siamo pastori che si preoccupano solo di pascere se stessi, magari giustificandoci con il rispetto del ruolo che abbiamo e con le norme stabilite.

Il Signore, in questi pochi versetti di Marco, ci viene presentato come un pastore straordinario – nella prima lettura era stato promesso questo re-pastore saggio che avrebbe esercitato la giustizia – perché non gli interessa tenere fermo ciò che ha deciso o ciò che è opportuno, gli interessa solo la vita di quelli che gli sono affidati. E così lo troviamo indaffarato subito dopo aver promesso ai suoi il riposo e un luogo in disparte, perché dopo aver colto il loro bisogno, coglie quello delle folle e non può sottrarsi ad esso. Dice Marco che il Signore ebbe compassione e usa un verbo che indica proprio la contrazione delle viscere, quella profonda pena e tenerezza che è tipica delle madri nei confronti dei loro figli. Gesù sente la fatica delle folle dentro di sé, come le madri sentono il pianto dei propri bambini più forte degli altri e percepiscono ogni loro dolore più intensamente di quanto facciano i figli stessi. Quando il Signore sente questa pena dentro di sé, quando sente le folle dentro di sé, come il Padre, il cui grembo è sempre contratto per la fatica dei figli e delle figlie, non può che dare loro ciò che serve per vivere: si mette ad insegnare. Aveva visto la stanchezza dei discepoli e li porta in disparte a riposare, ma davanti al bisogno estremo delle folle che non sanno lasciarlo andare perché la loro vita è troppo in affanno, cambia programma e si prende cura di loro.

Abbiamo davanti agli occhi il pastore capace di radunare il gregge perché non può pensare a se stesso prima che a quelli che gli sono affidati, dal momento che sente dentro di sé il loro bisogno e la loro fatica come se fossero il suo bisogno e la sua fatica. Non c’è alcun ruolo e nessuna regola che contino, solo quelli che si porta dentro e che non può sopportare di veder soffrire.

E così, curando e nutrendo, raduna tutti quelli che cercano la vita, neppure uno si perde – ci diceva la prima lettura – ogni muro che li divideva si abbatte – ci dice la seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini – perché tutti ci ritroviamo in lui, nella sua umanità, nel suo corpo, nella sua vita. Tutti possiamo riconoscere che in lui l’amore del Padre è evidente e realizzato e tutti possiamo scegliere di viverlo, perché come lui siamo esseri umani e tutto ciò che dobbiamo fare è avere le sue stesse viscere umane, tenere, pronte alla compassione, invase da quelli che gli sono affidati al punto da non poter vivere se essi non vivono. E questa umanità è quella che ci fa figli e figlie di Dio, in tutto simili al Padre.

17 - Lug - 2020

XVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XVI Domenica T.O.(A)

(Sap 12,13.16-19   Sal 85   Rm 8,26-27   Mt 13,24-43)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche questa domenica (e ancora sarà così per la prossima) leggiamo il tredicesimo capitolo del Vangelo di Matteo, in cui vengono concentrate le parabole del Regno in quello che è il terzo discorso (su cinque) del primo Vangelo.

Alla parabola del seminatore, che si chiude con i frutti abbondanti del terreno buono (ora il 30 ora il 60 ora il 100), fa seguito la parabola della zizzania. Proprio quando finalmente vediamo il grano biondeggiare abbondante (dopo uccelli, sassi e spine) e tutto sembra andare per il meglio, ci accorgiamo che nel campo cresce anche la zizzania. Dopo tante fatiche per accogliere la parola, per liberare il cuore dall’incostanza e dagli affanni, proprio ora che potevamo raccogliere qualche frutto, dobbiamo vedere il campo infestato dalla zizzania? La reazione dei servi è comprensibile: vuoi che andiamo a toglierla? Vogliamo i frutti buoni e niente altro. La risposta data dal padrone del campo sembra riecheggiare quanto leggiamo nella seconda lettura (pochi versetti della lettera ai Romani, ancora al capitolo ottavo): non sappiamo come pregare in modo conveniente, non sappiamo, cioè, nemmeno cosa chiedere. Se infatti cercassimo di estirpare la zizzania, continua la parabola, rischieremmo di perdere anche il grano buono.
Il punto è che il grano buono, il seme, la parola, deve crescere e portare frutto proprio in mezzo a quelli che non sono figli del Regno. Per chi è la parola che accogliamo e annunciamo? Per chi è la nostra vita spesa in opere di giustizia e di pace? Per chi è la testimonianza della chiesa, se non per quelli il cui cuore è stato seminato da altre parole, buone o malvage (come nell’esempio della parabola)? Non solo non dobbiamo strapparli via, ma dobbiamo crescere vicino a loro e per loro.
Può capitare di sentirsi fuori luogo in mezzo a coloro che non sono figli del Regno, ma questo non è un problema per i cristiani, anzi le parabole del granello di senape e del lievito ci insegnano proprio la logica del Regno che pur essendo estraneo al mondo riesce a beneficarlo. Nella parabola del granello di senapa (che secondo i rabbini non poteva essere seminato nell’orto e quindi è fuori posto nel campo in cui cresce) proprio il seme che non doveva esserci, che è anche il più piccolo di tutti, offre riparo agli uccelli. E nella parabola del lievito, proprio ciò che è considerato avariato (perché il lievito si faceva con la pasta che cominciava il processo di deterioramento) è ciò che fa crescere tutto ciò al quale si mescola.
Non solo dunque non bisogna estirpare coloro che non sono figli del Regno, ma occorre offrire loro riparo e farli vivere tramite la testimonianza del Vangelo e una vita vissuta di conseguenza. Questi sono i desideri dello Spirito (lettera ai Romani) e questo è lo stile di Dio descritto nella prima lettura (libro della sapienza): la forza di lui è nell’indulgenza e nella cura perché spera (e questa speranza insegna agli uomini) che dopo il peccato giunga il pentimento e l’apertura al Dio che è pieno di misericordia, che compie meraviglie, che è lento all’ira e ricco nell’amore. Di tutte le cose lui si prende cura: di ogni cuore, qualunque terreno sia, e di ogni pianta, perché attende fiducioso e fedele che tutti si volgano a lui per avere la vita e diventino così grano buono.
20 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVI T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un dovere sacro, qualcosa cui non è possibile sottrarsi. L’immagine di Abramo affaccendato per accogliere gli ospiti a Mamre, pronto a preparare il cibo e a chiedere a Sara di fare altrettanto, volendo coinvolgersi di persona e non delegando ai servi il lavoro, dice come fosse considerata l’ospitalità: non si tratta di essere gentili o di fare bella figura offrendo qualcosa di buono, si tratta di un’urgenza cui si deve rispondere in prima persona con tutto l’impegno possibile. Perché? Chi è straniero ha perduto il proprio orizzonte, non conosce i luoghi, non conosce la lingua, non sa come procurarsi sostentamento e riparo, per quanto possa essere forte e capace è diventato debolissimo, perché ha perduto ogni punto di riferimento culturale, economico, affettivo, esistenziale. Non si può fare a meno di prendersi cura di persone in queste condizioni, perché in chi li accoglie trovino un primo punto di riferimento per cominciare a ricostruire il proprio orizzonte, per poter essere se stessi, per poter vivere.
Non ci si può sottrarre a questo dovere perché l’ospite porta impressa l’immagine di ciascuno di noi: ciascuno di noi privato della sua lingua, della sua casa, dei luoghi che conosce, del lavoro che può fare, dei diritti di cittadinanza, sarebbe perduto. L’ospite ci ricorda quindi che senza gli altri siamo perduti: nessuno può procurarsi vita isolatamente o perseguendo meschini interessi di parte, siamo vivi solo se ci stringiamo gli uni agli altri.
Diventando punto di riferimento dello straniero, accogliendolo, stringendosi a lui, condividendo con lui le risorse, servendolo, Abramo riceve un dono: una parola, uno sguardo che lui e Sara non potevano avere, qualcosa che può vedere solo chi viene da fuori e non ha gli occhi velati dall’abitudine o da ciò che è sempre stato così. L’ospite può annunciare la nascita di un figlio a dei vecchi che forse non ci speravano più: uno sguardo diverso può ringiovanire tutto ciò che pensavamo avesse fatto il suo corso. Vale per Abramo, vale per ciascuno di noi, vale per le famiglie che accolgono figli, vale per le società che sanno accogliere i poveri e gli stranieri.
L’ospite privo di ogni riferimento, senza luogo e senza nulla perdere, è libero di vedere la novità possibile in una situazione che per noi è chiusa e sterile. Anche Gesù si comporta così: alle sorelle che chiama per nome, perché è loro amico, e che lo hanno ospitato, dona una parola nuova, uno sguardo altro che solo lui, che ha scelto di non avere un posto dove posare il capo, poteva avere. In modo particolare insegna alle sue amiche che è più importante farsi discepole, ascoltando la parola, che occuparsi delle faccende domestiche, per quanto sacre perché rivolte all’accoglienza dell’ospite. Sta dicendo a delle donne, in sintesi, che ciò che conta di più per loro non è far funzionare la casa (faccende e cura dei bambini), ma ascoltare la parola di Dio. Nessun capofamiglia avrebbe potuto dire questo perché sarebbe stato sconveniente per la gestione della propria casa e neppure alcuna donna cui non avessero dato alternativa, perché il ruolo di gestione della casa dava loro identità e importanza. Solo un ospite, uno straniero, uno senza casa, può dire questa parola nuova.
E questa parola viene portata a compimento dall’annuncio e dalla testimonianza della chiesa, nella vita della quale si manifesta il mistero nascosto dai secoli. Il ministero di questa parola ora è affidato noi, al punto che che il mondo può scoprire di essere stato visitato da Dio solo se gli lasciamo vedere Cristo in noi. Sediamoci dunque ai piedi del maestro, amico e ospite, per ascoltare ciò che di nuovo la Parola ci può insegnare, lasciandoci istruire con ogni sapienza per diventare perfetti in Cristo e testimoniarlo così ad ogni essere umano.
Magari ai piedi del maestro scopriremo che ciò per cui ci affanniamo (difendere i nostri interessi? avere qualche garanzia economica? far funzionare la nostra famiglia? stare in salute? farci valere?) non è la parte migliore e avremo la possibilità di scegliere una vita nuova, costruita sul Vangelo che non ci verrà tolto.