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20 - Ago - 2021

XXI Domenica del T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Gs 24,1-2.15-17.18   Sal 33   Ef 5,21-32   Gv 6,60-69)
Domenica 22 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dio non è uno cerca seguaci o ammiratori. Nel brano del libro di Giosuè (purtroppo tagliuzzato) si riporta il patto fra Dio e Israele da stipulare di nuovo, ora che le tribù sono entrate in possesso della loro terra, ora che la promessa di Dio si è realizzata. Chi volete servire ora che avete avuto ciò che speravate? Nelle parti tagliate del racconto, Giosuè cerca di scoraggiare il popolo a stringere alleanza con Dio: sarete infedeli, andate per la vostra strada. Il popolo però rimane fermo: ricorda che non era altro se non uno schiavo e sa chi lo ha liberato conducendolo altrove. Similmente nel Vangelo di Giovanni, nel brano che chiude questo lungo discorso, Gesù non si scompone di fronte al fatto che molti se ne vadano perché non riescono a credere che lui è il pane vero donato per la vita del mondo. Anzi, non solo non si scompone, ma si rivolge direttamente ai Dodici e chiede se se ne vogliano andare anche loro. Pietro afferma che non hanno altri da cui andare perché le parole di Gesù sono parole di vita eterna, rispondendo indirettamente a quei discepoli che avevano definito dure quelle stesse parole: questa parola è dura chi può ascoltarla?

Perché la stessa parola può per alcuni suonare dura (questo intendeva Giosuè quando diceva al popolo che era troppo difficile per loro la parola che ascoltavano) e per altri avere il sapore della vita eterna, di qualcosa che non si può lasciare perché – per quanto ci si senta incapaci di accoglierla e viverla – già si sa che non esiste altro che abbia una tale bellezza? La differenza sta nell’esperienza che si è fatta: se si è riconosciuto il Santo di Dio (così dice Pietro) cioè se si è sperimentato che la vita di Gesù illumina, rinnova, salva e dona vita, allora nessun’altra parola, per quanto bella, potrà attrarci di più: da chi andremo? Si tratta di un’esperienza – magari nel deserto e nella lotta come succede alle tribù di Israele – in cui si è toccata la presenza liberante di Dio: una volta toccata con mano la potenza di vita che viene da lui, le parole che ci rivolge avranno sempre il sapore della vita e mai sembreranno dure. Duro piuttosto ci sembrerà il nostro cuore incapace di accoglierle nonostante sappia chi è colui che le pronuncia.

Il brano della lettera agli Efesini che ci viene offerto nella seconda lettura può essere un banco di prova sia della vita che la parola di Dio porta che della durezza del nostro cuore. Si parla del matrimonio e di come questo possa essere considerato un segno della relazione fra Cristo e la Chiesa (ovviamente siamo sul piano dei simboli perché la chiesa non è una ragazza e Gesù non sposa nessuno), ma nel fare questo, pur ripresentando la situazione culturale del tempo che prevedeva la sottomissione delle mogli (la struttura sociale era iniqua e patriarcale, quindi sottometteva donne, bambini e schiavi), emergono le parole di vita del Vangelo: siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Magari non era possibile cancellare le norme sociali né le consuetudini assodate da millenni di subordinazione, ma si poteva vivere tutto in altro modo: le mogli per prassi sociale sono sottomesse ai mariti? E noi scegliamo la sottomissione reciproca. In più il Vangelo ci insegna un amore che deve essere quello di Cristo (non solo da parte dei mariti, ovviamente ma di tutti e tutte) che arriva a dare la vita per quelli che sono parte di lui, cioè tutti quelli che credono in lui. Di fronte ad un tale annuncio che cosa resta più della struttura ingiusta che umiliava donne e bambini? Nei fatti niente, anche se non si aveva il potere di modificare le leggi: i cristiani e le cristiane vivono un’altra logica, fanno crescere un altro mondo.

Questa parola è sembrata dura e ancora oggi lo sembra, tanto è vero che molto spesso questo brano viene interpretato come se il Vangelo ci insegnasse che sono i maschi ad essere capo delle mogli (e tanto è vero che ancora oggi nei paesi di tradizione cattolica la condizione delle donne è peggiore che negli altri paesi Occidentali, per non parlare della condizione delle donne nella chiesa). Lo sappiamo, non è facile: bisogna aver fatto l’esperienza di essere stati liberati dal Vangelo e aver toccato con mano che non c’è bellezza più grande che essere fratelli e sorelle, servirsi e donarsi vita reciprocamente, senza padroni e senza gerarchie. È una parola dura solo se non si è ancora riconosciuto in Gesù, nel suo stile e nelle sue parole, il Santo di Dio.

21 - Ago - 2020

XXI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXI Domenica T.O. (A)

(Is 22,19-23   Sal 137   Rm 11,33-36   Mt 16,13-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il brano di Vangelo che ci troviamo di fronte questa domenica si può leggere a diversi livelli. Si tratta infatti della professione di fede di Pietro e della beatitudine che Gesù gli riferisce oltre a riconoscergli alcuni compiti che riguardano però la chiesa intera (al capitolo diciotto si ritrova, per esempio, come attribuita a tutti i credenti la capacità di legare e sciogliere che poteva significare sia la capacità di perdonare sia quella di individuare ciò che è da credere fra diverse possibilità). Le chiese a lungo si sono chieste in che modo questo particolare riconoscimento di Pietro potesse continuare dopo la sua morte, finendo per riconoscerlo – con il tempo, la riflessione e l’esperienza – come donato a colui che presiede la chiesa di Roma, suggellata proprio dal martirio di Pietro (e di Paolo).

Ma oltre alle questioni ecclesiologiche, questo brano si occupa della fede di ciascuno di noi offrendoci di nuovo Pietro come discepolo emblematico. Due domeniche fa questo era stato protagonista dell’episodio in cui tenta di camminare sulle acque e affonda, sentendosi chiamare da Gesù “uomo di poca fede”. Lo stesso termine era stato rivolto ai discepoli nell’episodio della tempesta sedata e ancora viene usato da lui pochi versetti prima dell’episodio di questa domenica: durante una discussione Gesù chiede ai discepoli “gente di poca fede” se non hanno compreso il fatto dei pani. I discepoli – e fra questi Pietro – diversamente dalla donna cananea che abbiamo incontrato domenica scorsa sembrano avere poca fede, come noi probabilmente.
Gesù però non si scoraggia e li interroga facendo loro riferire ciò che sentono in giro, per passare poi alla domanda diretta: e voi chi dite che io sia? A questo punto Pietro riconosce Gesù come Messia, come colui che doveva venire, e come Figlio di Dio. Finalmente – e infatti Gesù esulta e sottolinea le parole di lui con una beatitudine – Pietro riconosce l’identità di Gesù e professa la propria fede in lui.
Non si è condannati a restare gente di poca fede dunque, il cammino può essere percorso e il Signore (le cui vie sono inaccessibili, cui nessuno può dare suggerimenti o qualcosa per primo, come leggiamo nella seconda lettura) può donarci la capacità di riconoscerlo e di credere in lui. Questa fede è quella su cui la chiesa viene costruita. Non solo la fede di Pietro, primo tassello (secondo Matteo) della costruzione che Dio edifica, ma la fede di ciascuno e ciascuna è ciò che permette alla chiesa di esistere e crescere. Questo edificio spirituale non verrà sconfitto dalle forze del male, anzi possederà le chiavi del Regno, perché la fede permette di fronteggiare persino le porte degli inferi e di aprire sempre una porta che conduca alla vita. Chi condivide la fede di Pietro, tutta la chiesa cioè come una casa scavata in questa roccia, ha le chiavi per aprire la porta del Regno.
Che non ci accada, quanto Gesù rimprovera a scribi e farisei, quando gli dice che con le chiavi che avevano in mano hanno chiuso la porta del Regno e non hanno fatto entrare nessuno, oltre a non entrare loro stessi. Non basta infatti avere la conoscenza di Dio e l’autorità per professarla per aprire agli uomini il Regno dei cieli, occorre una testimonianza credibile, una vita che dichiari quanto viene professato e consegnarsi ad esso. Certamente questo è vero per ogni credente e per tutta la chiesa, ma con maggior serietà è vero per quelli, come Pietro, che sono chiamati a servire la chiesa perché questa possa dare la propria testimonianza e solo per questo viene data loro una qualsiasi autorità.
I ministri infatti (un’immagine dei quali si può vedere nella prima lettura in cui uno viene posto in posizione di potere per prendersi cura, per essere padre del popolo, suo appoggio) hanno la responsabilità di custodire, corroborare e servire la fede della chiesa perché questa ne possa dare testimonianza. In questo modo le chiavi offerte a Pietro spalancano la porta della vita davanti ad ogni essere umano che di fronte alla fede dei credenti dirà con noi a Gesù: tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, colui che aspettavo per comprendere chi sono, ricevere il perdono e offrire la mia vita per tutti.
Non siamo condannati all’incredulità dunque, né intrappolati nei nostri tradimenti (non sarà Pietro quello che rinnegherà Gesù?), possiamo invece essere una pietra di questa casa scavata nella roccia della fede che Pietro, per rivelazione del Padre, ha professato per primo davanti al Signore. Una casa di pietre vive offerta al mondo perché viva.
24 - Ago - 2019

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Sono pochi quelli che si salvano? Forse questa domanda che un tale fa a Gesù lungo la strada sottintendeva la ricerca di una rassicurazione, perché se quelli che si salvano sono pochi le possibilità di essere fra questi diminuiscono. Questa voce intimorita dovrebbe sorgere in ciascun credente, perché è indice del fatto che ci siamo resi conto di quanto la salvezza sia decisiva per la realizzazione della nostra esistenza e di quanto non si possa aspettare che essa ci accada senza fare nulla. Salvarsi dovrebbe essere ciò per cui ci sforziamo, come l’immagine della porta stretta e piccola dice bene: c’è un’apertura, si può passare, ma per farlo occorre pigiarsi, spingere, graffiarsi, depositare tutto ciò che ci portiamo addosso e che ci ingombra. La via della salvezza non è l’autostrada larga sulla quale si guida senza nemmeno pensare, lasciando magari che i moderni sistemi di assistenza alla guida regolino velocità e distanze, la via della salvezza è invece un’affascinante e tortuoso percorso montano, per stare sul quale bisogna mettere tutto il nostro impegno certi del valore della meta e allo stesso tempo catturati dalla bellezza dei paesaggi che ci offrono davanti.

La salvezza consiste nel Regno, cioè nell’amore, nella pace, nella giustizia, nella condivisione, nella pienezza della vita: è qualcosa cui di cui si può fare esperienza fin d’ora e proprio questa esperienza ci fa sperare in un destino di vita piena, anche di fronte alla morte. A tutto questo però, seppure donato con generosa liberalità da Dio, non si giunge senza l’impegno della strada e senza riconoscere il privilegio di camminare su una strada così impegnativa.

Quelli che ricevono la parola che salva, ma non la onorano con la fatica che chiede, da primi diventano ultimi, perché si distraggono con ciò che è facile e finiscono per imboccare altre vie solo perché sono larghe. Queste vie, a volte, sono ammantate di religiosità, per cui in nome di Dio ci si dedica a tutt’altro da quello che Dio ama e chiede: si può partecipare alla vita della chiesa, accalorarsi per alcuni dei “valori” che riteniamo cristiani, promuovere attività ecclesiali e persino essere ministri o persone impegnate nella chiesa evitando la porta stretta e cercando nella fede la comodità delle moderne autostrade, al punto che nemmeno ci si accorge più di camminare.

Se si fa così, da primi si finisce ultimi. Gli ultimi invece, come Israele considerava i pagani, diventano primi, perché quando sentono l’annuncio della parola del Signore si mettono in viaggio con ogni mezzo – nella prima lettura ci viene descritta una carovana variegata e numerosa – per arrivare al monte santo di Gerusalemme, immagine privilegiata della salvezza che Dio prepara. Tutte le genti lodano Dio, tutte le genti lo ascoltano, da tutte le genti sorgono fratelli. Israele disprezzava i pagani, eppure essi – considerati come vasi colmi dell’ira di Dio perché lontani da lui – diventano vasi puri che portano l’offerta nel tempio. Erano ultimi e diventano primi, perché riconoscono il dono straordinario della salvezza e per essa si mettono in viaggio. Quanti di quelli che oggi disprezziamo come lontani da Dio ci passano avanti?

Se il cammino è impervio, è facile che porti con sé sofferenze e paure, che però non devono farci pensare di essere sulla strada sbagliata, perché il Signore non ci ha indicato gli itinerari più comodi. Le sofferenze non contraddicono la validità del cammino della salvezza, quindi, e per questo l’autore della lettera agli Ebrei ci suggerisce di pensare ad esse come a delle correzioni, non qualcosa che ci fa del male, ma che ci rende migliori. Tutto ciò non significa che Dio ci manda delle sofferenze per farci imparare qualcosa, ma che persino le sofferenze, alla luce del Vangelo e per l’azione vivificante dello Spirito, diventano un luogo per scoprirsi amati, per crescere e per vivere. In ogni momento infatti è all’opera con noi e per noi il Dio della salvezza, perché forte è il suo amore per noi e la sua fedeltà dura per sempre.

Coraggio allora, rinfranchiamo le mani inerti e le ginocchia fiacche perché dobbiamo camminare per sentieri impegnativi e spingerci con gioia dentro una porta piccola oltre la quale è già cominciata la festa della vita.