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10 - Set - 2021

XXIV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Is 50,5-9   Sal 114   Giac 2,14-18   Mc 8,27-35)
Domenica 12 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La fede non è un sistema di pensiero che ci aiuta a non sentirci angosciati perché ci dà il senso della vita, né è un insieme di valori che poi dovrebbero costruire un tipo di società o un tipo di contesto culturale, molto più semplicemente la fede è la consapevolezza (che nasce da un’esperienza) di essere amati da Dio in Cristo e di essere abitati dallo Spirito di lui. Quando accade questo, le opere (pur nella fragilità e nelle contraddizioni che tutti conosciamo fin troppo bene) vengono di conseguenza: quando si ama e si è amati, non bisogna comandarsi di stare insieme o di prendersi cura gli uni degli altri, così quando si è in questa relazione con Dio non si può non amare, imperfettamente e faticosamente magari, ma non si può non amare. Se le opere non dicono questo amore, non lo incarnano, allora il problema è la fede, qualunque sia il sistema di valori o l’idea del mondo che pensiamo di avere. Per questo la lettera di Giacomo (seconda lettura) afferma: se la fede non è seguita dalle opere, in se stessa è morta, cioè non c’è.

Ma forse è il Vangelo di questa domenica che può aiutarci a scendere più a fondo e a rispondere alla domanda di quali siano le opere della fede. Gesù interroga i suoi su ciò che la gente pensa di lui, i discepoli rispondono con l’entusiasmo di quelli che seguono – e che sono stati scelti – da un uomo di successo, acclamato, ascoltato, considerato come veniva considerato il più grande dei profeti. Gesù li  provoca a esporsi in prima persona: voi chi dite che io sia? E Pietro, la cui irruenza emerge più volte nella trama dei racconti, subito riconosce in Gesù il Messia. Chissà cosa il Signore avrà pensato. Si sarà accorto che questa dichiarazione, vera dal punto di vista delle parole (davvero lui è il Messia!), era sbagliata nei contenuti, perché Pietro aveva scelto di seguire un messia glorioso e vittorioso? Oppure l’ha compreso solo quando, dopo aver insegnato che avrebbe dovuto soffrire e morire, si è sentito rimproverare da Pietro, come se la sofferenza e il fallimento fossero incompatibili con l’essere l’unto del Padre? Si intravvede nelle parole di Gesù la passione, evocata anche dalla prima lettura tratta dal profeta Isaia: sputi, insulti, flagellazione. Perché seguire Gesù se questo è ciò che l’aspetta? Perché seguire uno che non ha salvato nemmeno se stesso? Perché io lo seguo?

Gesù d’altra parte – come anche il protagonista del brano del profeta Isaia – apre alla speranza, non perché verrà risparmiato dalla morte, ma perché risorgerà (nella prima lettura: Dio mi assiste, non resterò confuso). Ci mostra così quale è l’opera della fede: vivere fino in fondo la parola d’amore del Padre – qualunque cosa costi – aspettando da lui la vita e la salvezza, nel momento in cui amarlo e amare gli altri ci dovesse portare – e molto spesso, seppure in modi diversi questo accade – alla sofferenza e alla morte. Non possiamo seguire Gesù perché questo ci tutela dalle sofferenze e dal rifiuto, né perché ci scansa la morte o la paura della morte: la sua storia ci dice chiaramente che questo non accade. Possiamo seguirlo se il suo modo di vivere, il suo amore per il Padre, è ciò che vogliamo vivere anche noi, al punto da riuscirci a consegnare ad esso completamente.

Il Maestro stesso ci dice come fare: rinnegare se stessi e prendere la croce. In queste parole possiamo leggere l’invito a rinnegare ciò che abbiamo imparato a fare per sentirci sicuri, amabili e buoni, affermati e riconosciuti. Rinneghiamo gli schemi di esperienza che ci spingono a cercare noi stessi, a non sentire le ferite e la debolezza, a fare di tutto per essere forti o sentirci al riparo. Smettiamo di cercare qualsiasi cosa che non sia la croce, cioè la logica dell’amore del Padre che desidera che tutti vivano. Solo così alla nostra fede, all’aver cioè compreso e conosciuto l’amore di Dio, seguiranno le opere, come dalla gioia viene il sorriso e dalla commozione il pianto. Quotidiano (ogni giorno) e semplice come l’amore.

11 - Set - 2020

XXIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIV Domenica T.O. (A)

(Sir 27,33-28,9   Sal 102   Rm 14,7-9   Mt 18,21-35)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il capitolo diciottesimo del Vangelo di Matteo, la cui lettura abbiamo cominciato la settimana scorsa, si conclude con la parabola del servo spietato. Si tratta di una parabola straordinaria costruita per suscitare lo scandalo in chi legge, che spontaneamente assume la posizione dei compagni del servo maltrattato, i quali vanno dal padrone per denunciare chi aveva ricevuto pietà ma non ne aveva usata. Se però usciamo dalla straordinaria capacità di coinvolgimento della parabola, possiamo farci una domanda: il fatto che a me sia stato condonato un debito, toglie il debito a colui di cui io sono creditore? Facciamo finta che la banca mi abbuoni una rata del mutuo, allora il cliente che non mi ha ancora pagato può considerarsi libero da ogni debito? Verrebbe da dire di no. Allora perché questo servo ci appare (e giustamente!) tanto crudele con il suo compagno?

Perché i discepoli si devono relazionare (questa è la logica di tutto il capitolo) facendosi piccoli l’uno di fronte all’altro, nell’accorato tentativo di non perdere nessuno e per mostrarsi reciprocamente l’amore del Padre. Se è così (se è questo stile che permette di radunarsi nel nome di Gesù), di fronte al peccato dell’altro (e in ogni occasione) il primo atteggiamento sarà farsi piccoli, riconoscendo che se è vero che l’altro ha peccato (e magari ha peccato contro di me), è vero anche che io ho peccato in modo infinitamente più grande. Si può pensare questo quando il peccato dell’altro ci sembra – oggettivamente – più grave di quelli che facciamo noi? Sì, perché mentre non sappiamo valutare il grado di responsabilità degli altri, se ci guardiamo con un po’ di onestà, il nostro peccato ci appare sempre spropositato, come la cifra esorbitante messa in campo dal Vangelo di oggi.
A questo punto, consapevole di essere un debitore insolvente, incapace di ripagare il debito e rimesso al mondo solo dal perdono di Dio che libera dal peso che il peccato ci lascia addosso, il discepolo può rapportarsi nel modo giusto con l’altro che pecca, facendosi più piccolo di lui. Non si perdona infatti dall’alto verso il basso, con la spocchiosa benevolenza di quanti si sentono giusti, ma si perdona nella posizione di quelli che sanno quanto è stato loro perdonato e così, guardando la realtà alla luce di Dio (consapevoli che se viviamo viviamo per il Signore e se moriamo moriamo per il Signore), sanno di non essere migliori di nessuno e vedono nell’altro un fratello da non perdere.
Torna qui il monito presente in questo capitolo del primo Vangelo: poiché il Padre non vuole che nessuno si perda, i discepoli non si devono reciprocamente scandalizzare, ma cercarsi, correggersi e, infine, perdonarsi.
D’altra parte l’esperienza ci dice che quando amiamo qualcuno siamo ben felici di perdonarlo, perché vuol dire che ci siamo capiti su quello che è successo, che ci siamo compresi e pentiti, che la relazione può rinascere e ciascuno di noi è sciolto dal male fatto. In una parola: quando perdoniamo, vuol dire che non abbiamo perso l’altro, che non viene chiuso in prigione, ma resta a servizio con noi.
Chi guarda se stesso e gli altri con gli occhi di Dio (così come vediamo scritto nella prima lettura che spiega bene come chi guarda le relazioni con gli altri a partire dalla propria relazione con Dio non può serbare rancore), non vuole perdere chi ha imparato a considerare parte di sé (i credenti sono membra gli uni degli altri) e così condona ogni debito. Se guardiamo bene: a che ci servono i pochi spiccioli dell’altro dopo che Dio ha con un colpo solo cancellato la cifra che noi dovevamo a lui? E così alla giustizia (hai un debito devi pagare) preferiamo la fraternità (siamo sulla stessa barca, condono a te come a me è stato condonato), sapendo che uno solo è il Padre nei cieli e che lui perdona tutte le colpe, guarisce le infermità, salva dalla fossa e circonda di bontà e misericordia. Tanto è bello questo amore che ci ricopre e ci rimette al mondo ogni volta, che non possiamo che viverlo gli uni nei confronti degli altri, rimettendo anche noi al mondo il fratello o la sorella amati , solo per averli con noi, così come il nostro cuore desidera.
14 - Set - 2019

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda (Mt 18,14). Così Gesù conclude la parabola della pecora perduta nel Vangelo di Matteo dandoci la chiave per entrare nel cuore stesso di Dio, nei suoi desideri più profondi: che nessuno (dei piccoli) si perda. Leggendo il capitolo in cui Luca raccoglie le tre parabole che raccontano di smarrimenti e perdite, occorre tenere lo sguardo sul sentire di Dio, sul suo desiderio cioè che neppure uno si perda. Tutte e tre le parabole parlano di gioia e di festa per ciò che era perduto ed è stato ritrovato, ma tutte e tre dicono anche che chi si rallegra (cioè Dio, rappresentato dal pastore, dalla donna e dal padre) non vuole rallegrarsi da solo: il pastore cerca amici e vicine, la donna amiche e vicine, il padre cerca il figlio maggiore, perché vuole che anche lui faccia festa e si rallegri.

Il cuore di Dio che Gesù ci racconta è il cuore di un Padre/Madre che non vuole perdere nessuno dei suoi piccoli, ma che non vuole nemmeno che i suoi figli si perdano fra di loro. Ciascuno deve sentire l’urgenza verso gli altri, la stessa urgenza che sente lui: che nessuno si perda. Si capisce però se davvero ci muove lo stesso desiderio di Dio, se, quando le persone che erano perdute hanno nuove possibilità di vita, noi ci rallegriamo oppure no. Se ci ingelosiamo, ci sembra ingiusto, vorremmo qualcosa in più per noi o comunque la difesa dei nostri diritti contro quelli che, se si sono persi, si sono persi per colpa loro (o almeno non per colpa nostra), allora non è il Padre quello che amiamo e serviamo ma solo i benefici che speriamo di avere da lui.
Dio, infatti, è il Dio della vita. Non è geloso di quello che ha e dona continue possibilità di vita, perché ciascuno è prezioso ai suoi occhi ed è offerto come un dono a tutti gli altri. Nessuno deve perdersi, perché altrimenti tutto si sciupa. Perdere una pecora su cento è come aver perso un figlio su due, per questo si va a cercarla: neppure uno si deve perdere perché tutti sono stretti in unica vita condivisa (sono parte della stessa famiglia).
Dio non vuole vivere senza i suoi figli e ci insegna a sentire allo stesso modo, perché non si vive se gli altri muoiono. Lo sa bene Mosè che non vuole avere un’altra nazione (così gli promette Dio di fronte al peccato del popolo), ma vuole salvare le persone che ha fatto uscire dall’Egitto: non si tratta di un bene che si può sostituire (una pecora non vale l’altra, una moneta non vale l’altra e – in questo caso l’immagine è molto più efficace – un figlio non vale l’altro). Mosè (nella prima lettura che racconta gli eventi relativi all’episodio del vitello d’oro) conosce il cuore di Dio, la preghiera di lui è un dire a voce alta ciò che Dio vuole, un ricordare a sé e a lui il suo sentire.
A volte ci si perde lontani da ciò che parla di Dio, si abbandona l’ovile e la casa, altre volte ci si perde immersi nelle cose di Dio, dentro casa cioè, come la moneta e il figlio più grande che è smarrito quanto il piccolo poiché non conosce il padre. Ma comunque ci si perda, quando si viene cercati e ritrovati, la persona ha la possibilità di ricominciare a vivere. Non sarà più come prima, la memoria di quanto accaduto le ricorderà sempre la propria miseria e la propria piccolezza, ma questa diventerà la sua forza, perché avrà toccato con mano e potrà testimoniare (come leggiamo in questo brano della prima lettera a Timoteo) che davvero Dio è venuto per salvare, per liberare, per far vivere.
La pecora, forse malconcia, in mezzo alle altre testimonia che il pastore non è uno che tiene conto dei numeri ma dei piccoli, la moneta impolverata e graffiata testimonia che anche ciò che sembra sciupato è prezioso agli occhi di Dio, il figlio più piccolo testimonia che anche distruggere il patrimonio del Padre non è sufficiente per smettere di essere figli. Il fratello maggiore dovrà decidere invece se avere un fratello vivo vale la metà del suo patrimonio, perché ora che il patrimonio è dimezzato, alla morte del padre verrà di nuovo ridiviso e a lui toccherà la metà di quanto poteva avere.
Quanto vale un fratello? Quanto valgono gli altri? Quanto valgono i poveri? Quanto i nostri figli? Lo scopriamo da quanta gioia abbiamo nel dividere ciò che possediamo purché vivano. Se siamo disposti a mettere risorse umane, tempo e soldi per alleviare le sofferenze e soccorrere i poveri, se siamo disposti a impoverirci e difendere l’ambiente perché anche i nostri figli possano vivere.
Dio non vuole che nessuno di questi piccoli si perda, perché altrimenti nessuno avrà la pienezza della vita. E noi, che forse siamo nella casa del Padre e lavoriamo con diligenza, siamo incantati dal suo cuore che ci chiede di ridividere le possibilità di vita anche con chi era perduto? Che non ci accada di stare vicino a lui e di pensare che, in fondo, è meglio (o che non ci importa) se alcuni si perdono perché così possiamo tenere per noi tutto quello che resta: beni, idee, possibilità, vita.
Sarebbe un grande inganno, perché nel mondo che Dio ha fatto sorgere, in un mondo che nasce dall’Amore, la vita è sempre e solo condivisa: nessuno si può perdere perché siamo ciascuno per gli altri e viviamo ciascuno con gli altri. Se uno si perde, tutto si perde.