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08 - Ott - 2021

XXVIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Sap 7,7-11   Sal 89   Eb 4,12-13   Mc 10,17-30)
Domenica 10 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se domenica scorsa la liturgia della parola ci illuminava sul rapporto viziato fra maschi e femmine, oggi ci conduce a riflettere sul rapporto con le ricchezze: il denaro, certamente, ma anche la tranquillità sociale, l’affermazione di sé, il ruolo, il prestigio, la sicurezza affettiva. La ricchezza dell’uomo protagonista di questo incontro con Gesù può essere identificata con tutto ciò su cui si può poggiare solidamente, ciò che ci fa sicuri. Ma proprio perché – nella fin troppo evidente precarietà della vita – sentirsi sicuri e forti ha un’attrattiva prepotente, quanto le braccia tese della mamma per un bambino impaurito, la prima lettura (dal libro della Sapienza) ci ammonisce a considerare come un po’ di sabbia o di fango tutta la ricchezza del mondo se paragonata alla Sapienza di Dio: questa è una ricchezza incalcolabile, al confronto con la quale tutto il resto è una miseria. Pensiamo in fondo di saperlo, sappiamo che niente ci può garantire la vita o la felicità (tanto meno i soldi o la considerazione degli altri), ma se per noi è davvero così, lo sappiamo solo alla prova dei fatti, quando la vita ci chiede di scegliere, come avviene per il protagonista del Vangelo di oggi.

Si tratta di un uomo religioso, devoto, un’ottima persona che osserva i comandamenti di Dio fin dalla giovinezza. E, come se questo non bastasse, ha il desiderio di avere di più, vuole sapere cosa fare per guadagnare la vita eterna. Forse anche questa domanda denota il bisogno di una sicurezza. Ha osservato i comandamenti ma non è sicuro di avere la vita per questo. C’è da domandarsi se non dovrebbe essere già un così fedele ascolto della parola di Dio a dargli la pace necessaria per vivere e sperare. Perché cerca altro? Oppure, magari, è spinto da un sincero desiderio di andare oltre: proprio la pratica dei comandamenti l’ha aperto a cercare una maggiore intimità con Dio, una vita che sia pienamente sua. Comunque sia, arriva davanti a Gesù: che cosa devo fare? Chiede questo.

Dopo aver detto a Gesù di aver osservato i comandamenti, riceve in cambio lo sguardo fisso del Signore e il suo amore. Gesù viene preso dal desiderio (l’amore è un desiderio) che questo uomo, capace di fare la volontà di Dio e di chiedere ancora altro, diventi uno dei suoi. Vuole che faccia il passo di chi esce dalle sicurezze date dalla posizione sociale, dalla famiglia, dal denaro, per fare di Gesù stesso (e di quelli e quelle che lo seguono) il suo riferimento, ciò al confronto del quale tutto il resto va considerato spazzatura. Quando l’uomo se ne va triste, incapace di rinunciare ai propri beni, Gesù incolpa la ricchezza: chi poggia sicuro su qualche ricchezza, infatti, fatica di più a fare Dio la roccia su cui trovare riparo. Chi sta annaspando in mare si afferra ad ogni pezzo di legno che vede, ma chi è galleggia anche solo dentro una barchetta malandata fa fatica a gettarsi in mare verso il salvagente gettato dalla nave venuta a salvarlo: e se non arrivo in tempo? E se non mi tirano su? E se poi non ce la faccio? E si resta lì, perduti in mezzo al mare, ma come se fossimo in salvo.

Davanti alla parola di Gesù (viva ed efficace, capace di penetrare fino al punto di divisione dell’anima, fino alle giunture e alle midolla, nonché di discernere i sentimenti e i pensieri) quest’uomo si scopre aggrappato alla propria ricchezza, come se questa fosse davvero capace di dargli la vita. Sentiva il desiderio di cercare la vita eterna, ma forse in realtà sperava di essere confermato di averla già trovata, o forse, semplicemente, non ha avuto il coraggio di cercarla più se il prezzo era perdere ciò che lo rendeva sicuro. Alla prova dei fatti ha scoperto su che cosa realmente sperava per vivere. Se invece avesse avuto il coraggio di andare con Gesù, avrebbe scoperto che ciascuno di quelli che fanno di Dio l’unica solida roccia su cui poggiare ricevono, subito, cento volte tanto di tutto quello che pensavano di perdere e, poi, la vita eterna. Gesù non promette a chi lo segue una vita priva di affetti (cento volte tanto in fratelli, sorelle, figli e madri) né di beni (campi), ma ci mette in guardia: fondare la propria vita sulle ricchezze (siano queste soldi o prestigio o anche ruoli sociali o ecclesiali) ci rende schiavi delle stesse ricchezze che abbiamo. Esse non saranno più il dono prezioso che ci parla dell’amore del Padre, ma ciò da cui dipendiamo e così perderemo libertà e pace. Saremo ricchi, allora, certamente, ma tristi, magari portando con noi la nostalgia di quello sguardo pieno di amore con cui il Signore ci implorava di seguirlo, desideroso di essere per noi così prezioso da valere tutto il resto. In fondo quando si ama, non è questo che si vuole essere per chi si sceglie?

09 - Ott - 2020

XXVIII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVIII Domenica T.O. (A)

(Is 25,6-10   Sal 22   Fil 4,12-14.19-20   Mt 22,1-14)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Regno di Dio (cioè la sua opera di vita e di salvezza) è come un banchetto di nozze. Così comincia il Vangelo di questa domenica. Non un banchetto qualunque, precisa Gesù, ma un banchetto da principe (perché si sposa il figlio del re): buoi, animali ingrassati, “un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (per usare le parole della prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia). Il Regno di Dio, il suo farsi presente nella storia e nella nostra vita, è descritto quindi come una festa meravigliosa, colma di abbondanza, di profumi e sapori buoni, un luogo di ebbrezza allegra, perché la morte (ogni morte) verrà eliminata, la vergogna scomparirà e ogni lacrima verrà asciugata.

In modo del tutto inaspettato, però, gli invitati ad un tale banchetto non vogliono andare, credono di avere di meglio da fare: chi il proprio campo, chi i propri affari. Alcuni sono talmente infastiditi dall’invito che percuotono e uccidono chi lo porta. Sembrerebbe assurdo, ma invece è l’ordinaria dinamica del dono d’amore. Quando infatti si ama qualcuno (vale per noi come per Dio) e gli si offre di condividere la nostra vita con quello che siamo, tale dono d’amore non giunge a buon fine (non si può fare festa!) se l’altro non l’accoglie (se non accetta l’invito). Anche Dio ci offre senza sosta la sua vita da condividere (la festa del suo figlio, le sue ricchezze), ma non può fare festa se noi non riconosciamo il valore del suo dono, se crediamo di avere di meglio da fare per vivere. E così la festa resta vuota e il dono sprecato.
Dio da parte sua non cessa di amare e di cercare, lascia però alle proprie scelte coloro che non sono degni dell’invito ricevuto. La loro indegnità non dipende dal fatto che siano cattivi (alla festa poi entrano buoni e cattivi ci dice la parabola), ma dal fatto che non vogliono essere amati perché incapaci di riconoscere nell’amore che gli viene offerto e nella vita che gli viene partecipata qualcosa che valga la pena di accogliere: non sanno dare valore cioè al dono che gli viene fatto. Dio li lascia a se stessi (continua la parabola), perché la libertà di ciascuno è inviolabile, e va a fare festa con quelli che sanno accogliere l’invito e sanno onorarlo (andare senz’abito nuziale vuol dire forse non aver compreso l’onore che ci è stato fatto). E se è vero (come meditavamo due domeniche fa) che è sempre possibile convertirsi e trovare un posto alla festa, è anche vero che il tempo perduto e l’amore non goduto ci fanno un danno incalcolabile e ci tagliano fuori dalla pienezza della vita (potremmo leggere così l’esercito che viene mandato a distruggere chi non accetta l’invito: semplicemente rifiutare i doni di amore non ci fa vivere).
Capita anche nelle relazioni umane. A volte qualcuno dimostra di non essere degno del dono che gli viene offerto: pensiamo ad un marito che picchia la moglie o ad un adulto che abusa di un giovane o di un amico che tradisce gravemente l’affetto di chi gli si è affidato. Il dono di amore che era stato loro rivolto non viene accolto ma calpestato come se l’altro e la sua vita non valessero nulla: in questo caso non si può far altro che constatare che non ne erano degni e offrire ad altri il proprio amore.
Paolo, al contrario, in questi pochi versetti della lettera ai Filippesi, ci testimonia di aver compreso il senso profondo di ogni dono, che non è avere qualcosa o avere potere su qualcuno (sono allenato a tutto, alla sazietà come alla fame), ma contemplare nel dono l’amore dell’altro per onorarlo adeguatamente corrispondendolo e quindi festeggiare la vita che si condivide. Questo è proprio lo sguardo che Dio ci chiede di avere quando ci offre il suo Regno e con esso ogni dono: contemplare nella bellezza di quanto ci viene dato il suo amore per ricambiarlo e godere così la festa della vita che ci unisce a lui. Allora potremo cantare con il salmista: non manco di nulla, l’anima mia è rinfrancata, non temo alcun male, davanti a me hai preparato una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghissimi anni.
11 - Ott - 2019

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica può aiutarci a purificare le motivazioni che ci spingono a rivolgerci a Dio e a professarci cristiani, anzi può essere un vero e proprio banco di prova per rispondere alla domanda che un altro Vangelo in un altro momento pone sulle labbra di Gesù: chi cercate?

Dieci malati vanno da Gesù, dieci lebbrosi, e tutti e dieci vengono guariti. Uno solo torna indietro lodando Dio a gran voce per ringraziare Gesù e lo fa prostrato ai suoi piedi. Gesù non aveva comandato ai lebbrosi di tornare, ma di presentarsi ai sacerdoti, d’altra parte rimane stupito che sia tornato indietro uno solo: “non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E prosegue: “la tua fede ti ha salvato”. Tutti e dieci i malati sono andati per essere guariti, hanno pregato allo stesso modo e hanno obbedito alla parola di Gesù, ma solo uno di loro viene salvato. La guarigione, dunque, non coincide con la salvezza, almeno non nella logica di Gesù. Può darsi che molti, anche nella chiesa, cerchino Dio per essere guariti, per stare bene cioè, per essere rassicurati, per avere un aiuto, per sentirsi bravi e inseriti in un sistema di valori che ci dice che la nostra vita va bene così come è. Si può cercare Dio cioè per sentirsi meglio, per guarire dalle molte sofferenze che portiamo. Dio ascolta queste esigenze e le esaudisce anche, ma questa non è ancora la salvezza.
Per essere salvati occorre riconoscere l’amore di Dio nella vita e nei doni che riceviamo, scoprire in questo amore il senso della vita stessa, al punto da essere disposti a non rendere più gloria a nessun altro (come Naaman il Siro), cioè a non essere più disposti a cercare vita e benessere altrove. Se ricevendo i doni di Dio continuiamo a preoccuparci solo dei doni, allora serviremo chiunque altro sarà in grado di garantirceli e dimenticheremo Dio qualora non sembrasse più intenzionato a farci stare meglio (non è questa la logica di chi ritiene che siano i soldi o la salute o l’ordine sociale o essere stimati e amati ciò che conta davvero?). Oppure, Dio non voglia, potremmo essere tentati persino di usare il suo nome per procurarci doni, magari a scapito di altri, come succede quando in nome di Dio si vuole negare soccorso e ospitalità ai fratelli o difendere chi distrugge l’ambiente minacciando la vita di tutti.
Invece se, come il lebbroso samaritano, ricevendo i doni di Dio rimarremo affascinati dal Donatore, da come lui ama e da come vive, allora non ci importerà di altri possibili doni, ma vorremo dedicarci a lui solo e in questo scopriremo il senso di ogni dono possibile.
Gli innamorati sono grati dei doni e delle attenzioni ricevute, ma questi li riempiono di gioia solo perché vengono da colui/colei che amano. Se i doni non venissero più, soffrirebbero perché temono di non avere più l’amato non per i beni perduti. Così è con Dio: se sono i benefici che vengono da lui ad interessarci e non lui e quelli che lui ama, facilmente altri ci affascineranno oppure il nostro cuore, pur continuando a parlare di Dio, servirà altri padroni con altre logiche, purché ci diano i beni promessi.
La salvezza invece consiste nello stupito riconoscimento del volto di Dio che ci guarisce e ci fa vivere, perché non ci sarà più malattia né morte (nemmeno le catene come testimonia la seconda lettera a Timoteo) che ci potrà togliere la certezza che il Dio della vita ci ama e “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”, cioè non vuole smettere di essere Colui che ci ama (il suo amore per noi fa parte di lui).
Vivere in questa relazione grata e fiduciosa con Dio è già la salvezza. Così fin da ora, attraversando la vita senza preoccuparci di trattenerla ma di cogliere in essa l’amore del Padre, assaporiamo la vittoria sulla morte, che ci è promessa, e possiamo gioire con il salmista: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Si è ricordato del suo amore e della sua fedeltà”.